Diario di una giovinezza, settima puntata

pinerolo-10-1-1940

FELICE BACCHIARELLO

Ma l’odissea non è finita, altre avventure, altre illusioni e disillusioni, altre speranze e miserie ben più gravi mi attendevano.
Questa parte racchiude il maggior periodo della mia vita militare trascorso in Italia dall’inizio della guerra, eccettuato il quale posso dire di aver trascorso in terre straniere il periodo dal 1940 al 1945, mentre il periodo antecedente seppure trascorso in Italia fu in mezzo a gente da classificarsi, come lingua ed abitudini, tra i francesi.
Infatti lo passai a Pinerolo, Villar Perosa, Perosa Argentina, Pragelato, Claviers, il rinomato Sestriere con le sue torri, che il mio capitano denominava il Silos umano, la Valle d’Aosta e altre numerose località.

Così pure avvenne che in questo periodo, che si sperava di trascorrere come premio della lontananza precedente dal mondo civile in località almeno abitabili, un bel mattino armi e bagagli in spalla si partì per Pietraporzio, Argentera, arrivandovi in tre marce, passando per Peveragno, Boves, Fontanelle, Demonte, Vinadio, percorrendo insomma tutta la valle Stura fino alla sorgente del fiume, ove si rimase per parecchi mesi come marmette tra marmotte e camosci, ad incretinire senza vedere ombra di civiltà, di modo da poter esclamare: “ovunque il guardo io giro, altro che rocce non vedo”. Stancano in questo modo indescrivibile mesi e mesi sotto la tenda ed invero posso dire di avervi trascorso in media 300 giorni all’anno, e talvolta quali tende!
In mezzo ai sassi, senza paglia e, come in Albania, rami di alberi per materasso onde sollevarsi da terra per non giacere nel fango e nell’acqua.

Prevedendo un prossimo nostro impiego in zona di guerra (parlavasi del Caucaso), fu disposto il nostro ripiegamento in zone più comode per un eventuale caricamento e così si tornò nella Val Pesio, dove, nell’orgasmo più intenso, si attese l’ordine di partenza per ignota destinazione.
Infatti la partenza avvenne nei primi giorni del mese di agosto 1942. A Cuneo, ove ci recammo a piedi, attendevano nuovamente lunghe tradotte di carri bestiame (che dicevano attrezzati), le quali ci ospitarono per ben 14 giorni di viaggio!
È inutile descrivere le scene di addio dei parenti, dei propri cari, scene ormai consuete in ogni stazione d’Italia come un rito sacro. C’era chi, sentendosi troppo solo in tali momenti, insalutato, senza aver potuto dare sfogo ai propri sentimenti di angoscia, si chiudeva in un mutismo che durava per giorni interi, e neanche più la visione di località mai viste lo distoglieva. C’era invece chi, più positivo, più facile alla consolazione, più ottimista, cacciava la malinconia consolandosi con il fischietto, tradizionale compagno degli alpini. Lentamente, dopo un acuto fischio, segnale della partenza, il treno con il suo carico umano lasciava la stazione di Cuneo mentre, nonostante tutto il migliore ottimismo, un pensiero naturale attraversava la mente di tutti: “Parto; tornerò, rivedrò di nuovo questa stazione od un’altra, sia quale si vuole? Sano? Quando?”. Alla partenza ricordo che la stazione di Cuneo era gremita all’inverosimile di parenti che nessuna forza poteva trattenere indietro, padri e madri, fratelli e sorelle, giovani spose che avevano portato il loro piccolo a dare l’ultimo bacio a papà che partiva; sì, forse l’ultimo, perché troppo pochi fummo i privilegiati al ritorno.

Partito da Cuneo, il treno attraversando tutta Italia nella sua maggiore larghezza, oltrepassò Udine e uscì dal territorio italiano dallo strettissimo passo di Piedicolle sul territorio Slavo, zona infestata dai partigiani per cui si viaggia in allarmi. Si percorse il giorno dopo il bel Tirolo dai paesaggi ameni formati da casette linde, foderate di legno, circondate da aiuole fiorite, in mezzo alle immense pinete, abitate dalla razza bionda dai vestiti strani e ridicoli (pantaloni corti e piumino sul cappello da farli sembrare tanti struzzi).

Non ho più presente distintamente le giornate di quel troppo lungo viaggio, essendo anche impossibile voler dire di averlo seguito tutto, tale cosa sarebbe un’assurdità, per il fatto che dormire era necessario, quantunque sui poco molleggiati vagoni a nostra disposizione non fosse riposo assai delizioso, sul pavimento del vagone, specialmente poi oltre la Polonia ove, per le ferrovie poco salde il rullio del vagone produceva dei contatti tra testa e pareti tali da fare ammaccare la scatola cranica.

Sta di fatto che attraversata parte dell’Austria, di città in città una sera al tramonto si arrivò nella bellissima Vienna, veramente bella allora che ancora non aveva provato le bombe dei Tommy inglesi e dei gangster d’America. Ci si fermò per parecchie ore proprio in vicinanza del monumentale ponte sul Danubio blu, fiume oggetto di ammirazione universale. Fermi in una località che sembrava fatta appositamente per ammirare la città, dico sinceramente che ho mai visto una città delle tante grandiose incontrate nel viaggio così bella, così magnificamente illuminata in una fantasmagoria di colori da commuovere, da far veramente detestare la meta del nostro viaggio.

Attraverso città e città immense che non so e che non sarebbe il caso di enumerare (ricordo solo che erano nere, molto nere ed affumicate dalla fuliggine delle centinaia e centinaia di ciminiere innalzantisi verso il cielo) si oltrepassò pure la Germania, la Cecoslovacchia e si giunse in Polonia, ove assai marcata si vedeva la miseria prodotta dalla guerra.
Furtivamente, per non correre il rischio di essere bastonate dalle guardie tedesche di servizio nelle stazioni, nelle soste, si avvicinavano alla nostra tradotta donne polacche, mal vestite di cenci, scalze, coi capelli arruffati, per chiedere a noi qualunque oggetto per cucito o toeletta (forbici, aghi, pettini, sapone), talune offrendo in cambio uova, addirittura galline, uniche cose possibili in un così immenso paese agricolo. Non mancava certo chi, per pietà (noi italiani ci si commuoveva facilmente alla vista della grande miseria qui regnante, con gran dispetto dei tedeschi, i quali avrebbero preteso che noi pure, come loro, avessimo respinto tutti a colpi di fucile), adescato dalla gallina o dalle uova, desse loro addirittura tutta la borsa di pulizia avuta in dotazione. Esse tutte liete si allontanavano ringraziando, commosse dalla bontà degli Italiani, mentre nel nostro cuore si sentiva la gioia di avere così facilmente aiutato degli infelici.
Chi avrebbe pensato che, meno di un anno dopo, si sarebbe ripassati per gli stessi posti, noi pure pieni di miseria, distrutti, inermi e avviliti, degni di compassione come loro in quel momento?

Si arrivò poi a Varsavia, la grande capitale polacca. Che miseria! Che distruzione! Un ammasso di macerie annerite dagli incendi. Quale orrore aveva portato in quella città la guerra dei Russi, dei Tedeschi e fratricida!
Qui la miseria dei superstiti alla distruzione era inverosimile. Ovunque bimbi di pochi anni, macilenti, smunti, seminudi, correvano verso le tradotte, dopo essersi ben accertati che non fossero cariche di tedeschi (poiché allora sarebbero state fucilate e dileggi), per chiedere un pezzo di pane. A chi non venivano le lacrime agli occhi a tali scene, chi non si privava di un pezzo di pane per un bimbo, forse solo e abbandonato in mezzo a sì grande miseria, senza colpa alcuna, colpa solo la brutalità e l’incoscienza dell’oppressore, che non pago della vittoria delle armi si manifestava veramente quale era in realtà.

(Continua)

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Si ringrazia la famiglia Bacchiarello per la concessione del testo e delle foto. La foto di copertina porta scritto “Pinerolo 10.1.1940″ e si riferisce ad un episodio antecedente a quelli raccontati in questa puntata.