L’incredibile storia del profeta Mansur

Terza

Terza puntata - La solitudine di un incontro

FRANCESCO PICCO

Viktor capì perché in Russia, come del resto nel suo Piemonte, i poveri considerassero così importante una casa. Un tetto, un muro, un riparo qualunque contro il freddo ed il cielo. Le sue giovani ossa di stirpe principesca sembrarono trasmettergli un’imprevista sensazione di benessere dopo meno di mezz’ora dall’ingresso nella grande sala affrescata del convento armeno. Cresciuto inesorabilmente in ambienti chiusi – il castello del Conte padre, il Collegio militare di Chieri, la Facoltà di Medicina di Torino – il giovane Vittorio Amedeo aveva sempre desiderato gli spazi aperti: il campo di addestramento, i vasti giardini all’italiana, l’estensione eterna della campagna cuneese, gli esercizi di scherma. E gli era sempre sembrato che i poveri, gli straccioni, i diseredati con cui la sua esistenza si incrociava distratta ad ogni piè sospinto altro non fossero che dei rammolliti, incapaci di apprezzare la pregevole condanna allo spazio aperto che caratterizzava la loro esistenza. Poveri vigliacchi irrimediabilmente portati a cercare di sottrarsi al proprio destino di libertà per introdursi senza invito in ogni edificio anche fatiscente che si trovasse sul loro cammino.

Quel giorno, abbigliato da adolescente accattone, Vittorio Amedeo era diventato Viktor a tutti gli effetti e si era trovato, per la prima volta, a pensare lo spazio come un vero straccione russo. Terrorizzato dagli ambienti aperti – aperti com’erano alla lama assassina dei venti scandinavi o siberiani – e attratto da qualunque possibile riparo, fosse pure una tana ricavata nel letame gelato. Capì anche (e non fu una comprensione indolore) perché i malati e i postulanti che si rivolgevano al misterioso monaco taumaturgo armeno fossero così numerosi: era una scusa come un’altra per farsi ricevere nelle accoglienti stanze del convento, sottraendosi alla presa omicida della costante bufera polare.

Capì anche che i monaci guardiani, questo, lo sapevano benissimo. Cominciarono infatti a scrutare con severo cipiglio l’infinita umanità cenciosa e maleodorante che riempiva la sala, individuando di quando in quando qualcuno che secondo loro non era lì per incontrare davvero il santo monaco taumaturgo, ma solo per rimediare un riparo provvisorio al freddo, alla disperazione, alla noia, alla fame.

Viktor vide un monaco puntare il dito contro una vecchia grassa con la testa bianca ricoperta di un foulard rossiccio, poi contro un ragazzo storpio, poi contro una giovanissima madre dal seno prosperoso con le guance rosse e bianche come la buccia di una mela. Ma poi il loro indice accusatore si appuntò contro un bambino di sei o sette anni che aveva nude gambe ricoperte di croste, contro una donna gobba e muta dall’età indefinibile, contro il lebbroso con il viso tumefatto di bozzoli. E poi ancora contro un uomo senza una gamba, contro un adolescente dalla faccia mostruosamente bruciata, contro una fanciulla dallo sguardo ebete con occhi mongolici, da cinese. Viktor cominciò ad avere paura. Si rese conto che il dito dei monaci puntava contro esseri umani scelti a caso, non in base alle loro reali condizioni – a meno che i religiosi non sapessero particolari di cui lui era del tutto all’oscuro. Ma nel suo stomaco – non nel suo cuore, no, nello stomaco proprio, anzi forse nelle sue budella – prese a germogliare una sorta di indistinto inusitato fiore, il bocciolo rosso della rivolta. Per la prima volta nella sua esistenza Viktor ebbe la netta, terribile percezione di essere in balia di altre persone. Aveva già provato molte volte, da figlio e da studente, cosa significasse dipendere da altri ed essere loro sottomessi: ma sempre lo avevano accompagnato in questa dipendenza il rispetto manifesto dei suoi pari e dei suoi inferiori, e anche coloro che comandavano su di lui (persino il Conte padre!) non avevano mai mancato di dimostrargli almeno formalmente la deferenza dovuta al suo rango. Che poi il rispetto fosse dovuto al rango e non alla sua persona, questo lo capì solo ora, lì, in quella sala affrescata del convento armeno di Solovetsk: ora che, privo di rango e vestito da reietto, subiva come una tortura lo sguardo nero indagatore di uno dei tre monaci guardiani, che puntò senza esitazione il proprio dito adunco contro il suo petto mezzo nudo di adolescente russo straccione. Viktor non seppe opporre al dito del proprio carnefice se non uno sguardo stupefatto e disperato, un muggito soffocato di parole russe lasciate a metà, un sommesso belato di disperazione. Ma quando nella sala entrarono alcuni uomini armati e cominciarono a sospingere a calci verso l’uscita tutti coloro che i monaci segnavano come respinti, allora dal suo stomaco proruppe la rabbia e non trovò altra via per manifestarsi che quella di uno scoppio di pianto.

Un pianto disperato, mostruoso, irrefrenabile, che Viktor non ricordava di essersi mai concesso nemmeno quando era un piccolo Vittorio Amedeo accudito da prosperose nutrici di lingua francese. Un pianto non abituale, evidentemente, così disperato da richiamare l’attenzione di tutti i presenti, compresi i monaci guardiani. Uno dei quali, il più vecchio, gli si avvicinò mostrandogli occhi stupefatti e forse pentiti. Ma Viktor li vide solo di sfuggita, quegli occhi, poiché l’abisso del pianto lo trascinò con la faccia a terra, a contorcersi in singhiozzi inarrestabili. Quando riuscì a sollevare il capo, vide che con il monaco stava già parlando Sergej. Spiegava al monaco che quello, Viktor, era uno dei contadini della sua tenuta: un ragazzo molto intelligente, diceva, ma affetto da un’incomprensibile malattia dello spirito che lo teneva lontano da tutto ciò che un adolescente normalmente ritiene fondamentale per dare senso alla vita, in primo luogo le ragazze, i balli, la musica, ma anche il cibo e la compagnia dei coetanei. E poi c’erano queste crisi improvvise, incomprensibili, inarrestabili, queste grida disperate lanciate nella campagna senza alcuna preoccupazione per il gelo e l’orrore della neve polare. A fatica, diceva Sergej, gli altri servi erano riusciti a fargli indossare quei quattro stracci unti che gli ricoprivano la pelle: come un indemoniato, il giovane Viktor normalmente andava in giro quasi nudo, coperto solo di un indumento improvvisato a nascondergli vergogne e cosce…

Viktor sentendo ciò capì di dover stare al gioco e si strappò di dosso la cappa cenciosa che d’altra parte con la sua tela grezza cominciava a dargli fastidio alla pelle. Rimase felicemente a torso nudo mostrando la regolare campitura delle sue costole sporgenti e inspirando profondamente per mettere in evidenza l’incavo del ventre.

Uno dei monaci si fece il segno della croce alla maniera degli ortodossi, ormai convinto di avere a che fare con un giovane indemoniato. Quando si rese conto che Sergej stava promettendo un’elemosina consistente al convento, Viktor ricominciò a urlare anzi a ululare come un lupo, dando finalmente vero sfiato al mantice di rabbia che gli cresceva nei meandri del ventre.

Dobro, dobro… disse infine uno dei monaci, con un gesto molle della mano destra. La mano benedicente. Era il segno che potevano restare. Viktor poteva farsi visitare dal taumaturgo. Lo capì subito ma non smise di singhiozzare finché Sergej non gli si avvicinò con fare fraterno e gli accarezzò i capelli. Viktor, non temere: sei un bravo servo. Vedrai che il Santo Monaco ti aiuterà, nel nome di Gesù nostro salvatore. Viktor abbracciò devotamente i polpacci del suo finto padrone, ringraziandolo con teatrali benedizioni in un russo urlato, poi si accasciò supino sul pavimento di marmo. Intorno a loro si era fatto il vuoto. Gli sguardi di tutti i presenti erano puntati su quella coppia socialmente dissonante: il padrone, in piedi, vestito da contadino agiato; e ai suoi piedi, per terra, un servitorello seminudo e scheletrico che respirava affannosamente, il volto sporco e annerito ancora rigato da un profluvio di lacrime.

(Continua)

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