PAOLO LAMBERTI
Capitolo 7 “Generale, dietro una collina…”
Elemento centrale nella sempre più esile memoria storica sulla guerra è l’assoluta negatività del ruolo dei generali nel massacro: la celebre frase, di origine inglese, sui leoni (i soldati) guidati da asini (i generali) gode di ininterrotta popolarità. A partire dalla I GM i condottieri un tempo ammirati e rispettati si sono degradati a livello di guerrafondai incapaci e corrotti, che è l’immagine oggi dominante degli alti gradi delle Forze Armate di qualunque paese occidentale.
Anche qui non si può negare che i motivi per una condanna generalizzata non siano evidenti, soprattutto in Italia: basti ricordare l’indifferenza di Cadorna o gli intrighi di Badoglio, o più in piccolo il generale Leone ricordato da Lussu.
Tuttavia nota Hart come «nel periodo successivo alla Grande Guerra si andò alla ricerca di capri espiatori per tutte le sofferenze patite: In Inghilterra [e non solo] i politici più subdoli e i loro servili cronisti riuscirono a trasferire gran parte della responsabilità sulle spalle dei generali, con una operazione propagandistica che culminò nell’ingiuriosa espressione “leoni guidati da asini” —In realtà [i generali] avevano cercato di fare del loro meglio, in molti casi apportando rapidamente complessi cambiamenti di ordine tattico, incorporando radicali sviluppi tecnologici nei loro piani e nel frattempo addestrando, dispiegando milioni di uomini e cercando di tenere alto il loro morale in una delle guerre più terribili della storia. Alcuni fallirono del tutto, trovandosi con la reputazione distrutta dal loro stesso conservatorismo, dagli errori personali o dalla semplice stupidità. Ma furono una minoranza: la maggior parte dei generali fu all’altezza delle aspettative» (Peter Hart, La grande storia della Prima Guerra Mondiale ).
L’attrito agisce anche sui generali: solo in Italia 5 comandanti di divisione e 22 di brigata caddero in combattimento. Ma è il peso del comando a logorare anche i più alti in grado, pur preservati dagli orrori della prima linea: nessuno dei generali a capo degli eserciti all’inizio della guerra ne vide la fine al proprio posto.
Nell’Intesa il primo a crollare fu French, l’inglese, seguito a ruota da Joffre, che pure all’inizio del conflitto era noto ai soldati come “Papa Joffre”; se in Russia il turn over fu accelerato da motivi dinastici e da rivoluzioni, anche l’apparentemente inossidabile Cadorna nelle lettere alla moglie mostra segni evidenti di stanchezza; tuttavia gli alleati occidentali seppero trovare nuovi uomini, un Pétain, che già a Verdun mostrò di cogliere il bisogno di far riposare e rinfrancare le truppe con frequenti soste nelle retrovie, strada seguita anche con pari attenzione da Diaz; un Foch che fu il migliore nel padroneggiare l’attrito come un’arma e non un gioco al massacro, avanzando con costanti e brevi offensive che si alternavano; un Pershing, che sbarcò in Gran Bretagna nel giugno 1917 con 190 uomini, e a novembre 1918 aveva due milioni di uomini e le infrastrutture per triplicarli in pochi mesi; con lui la dimensione industriale della guerra trova il suo manager per eccellenza: non guiderà particolari battaglie, ma il peso virtuale delle truppe americane basterà a schiantare gli Imperi Centrali.
E saranno questi a rivelare il loro logoramento nel crollo dei loro comandanti. L’asburgico von Hötzendorff verrà allontanato, vittima dei fallimenti di quelle guerre che tanto aveva caldeggiato; von Möltke crolla già nell’autunno del 1914, consapevole che l’azzardo tedesco di una guerra breve è fallito; von Falkenheim sarà sconfitto proprio da quell’Ausblutung che così sinistramente aveva progettato per Verdun; infine Ludendorff con l’agosto 1918 sprofonderà in una crisi isterica che sembra anticipare quelle del suo soldato e sodale Hitler. E dopo di loro non ci sarà nessuno, se non liquidatori della guerra.
Dunque gli storici più recenti, militari soprattutto, hanno almeno parzialmente mutato il giudizio sui generali almeno in tre punti. Il primo è il crescente ruolo politico esercitato dai militari, soprattutto in Germania, ma non solo; questo fu dovuto sia alla complessità della guerra, che sfuggiva a molti politici, che alla debolezza personale e politica della leadership civile, evidente nei paesi “nuovi” o di tradizioni autoritarie: si pensi ai deboli cancellieri tedeschi o ai difficili governi italiani, privi di un vero consenso parlamentare.
Diversa è la situazione nelle democrazie più forti: Clemenceau ha costruito un’eccellente collaborazione con Foch, appoggiandolo anche in campo internazionale e riuscendo a collocarlo al vertice dello sforzo bellico di un’Intesa sempre più coesa con l’andare degli anni. Basta pensare all’assoluta mancanza di coordinamento franco-britannica nel 1914-15 contrapposta alla sequenza di offensive accuratamente scaglionate delle truppe francesi, inglesi ed americane negli ultimi mesi di guerra; al contrario tedeschi ed austriaci, che pure per ragioni geografiche, linguistiche e culturali avrebbero dovuto collaborare con facilità, non hanno mai saputo creare una vera strategia comune; basti un unico esempio: dopo Caporetto ritirare le divisioni tedesche impedì ogni speranza di poter eliminare l’Italia dal conflitto.
Ancor più nei paesi anglosassoni il governo civile rimase centrale: si pensi all’influenza sulle Forze Armate di figure come Lloyd George e Churchill; quanto agli Stati Uniti, la figura unica al timone è quella di Wilson.
Il secondo punto da modificare è quello dell’ottusità dei generali: è sempre vero, e lo è soprattutto per la I GM, che si è preparati a combattere la guerra precedente. Ma l’idea che la I GM consista in un ostinato battere la testa contro il muro delle trincee, ripetendo per quattro anni i medesimi inutili attacchi, è profondamente errata. In realtà, come e ancor più della II GM, la prima ha dispiegato un’enorme inventiva: essendo la prima vera guerra industriale, la tecnologia ha conosciuto sviluppi impressionanti. Armi automatiche, carri armati, sottomarini, aerei da guerra, e ancora mimetiche, elmetti, giubbotti antiproiettile, razzi, sonar. E soprattutto logistica: spostare milioni di uomini e decine di milioni di tonnellate di materiali in mezzo ai combattimenti fa sembrare Amazon un nipotino piccolo degli uomini della I GM. Un esercito di oggi non sarebbe tanto strano agli occhi di un fante del 1918, mentre un fante del 1918 sarebbe un alieno per un soldato di Waterloo.
E anche a livello tattico c’è stata un’impressionante evoluzione: i fanti francesi dell’agosto 1914, con le loro giubbe turchine e i pantaloni rossi, schierati in fila come i Tommies inglesi alla Somme nell’agosto 1916, lasceranno il posto alle Stosstruppen tedesche o agli Arditi italiani, piccoli gruppi pesantemente armati e addestrati all’infiltrazione, magari con l’appoggio di carri ed aviazione, come i franco britannici nel 1918: c’era molto di nuovo sul fronte occidentale, in quell’anno. Il problema è che l’evoluzione del pensiero tattico e strategico era parallela su entrambi i lati: i generali impararono molto, ma lo fecero tutti: nella I GM alle spalle delle due parti c’era la medesima “arte della guerra occidentale”.
E, terzo e fondamentale punto, i generali non seppero spezzare l’incubo delle trincee non per ottusità, ma perché non potevano, ed avevano capito di non poterlo fare. Quello che era chiaro ai Foch, Ludendorff, French e Diaz, e che poi è stato dimenticato e rimesso in luce solo negli ultimi anni, è che la guerra era e poteva essere solo una guerra di attrito. Già nell’autunno del 1914 i generali sapevano che non ci sarebbe stata una brillante e decisiva battaglia che avrebbe chiuso la guerra. Il loro grande torto fu di non renderlo esplicito a tutti: ma non era epoca di mass media, né era un messaggio facile da comunicare ed accettare.
Epilogo: una storia proprio così
Rudyard Kipling scrisse un libro per bambini intitolato Storie proprio così (Just So Stories for Little Children), storie che hanno come tema un particolare animale modificato dalla sua forma originale per intervento umano, o di un elemento magico, ad esempio Come il cammello ebbe la sua gobba, o Come il leopardo ebbe le sue macchie.
Il celebre paleontologo e teorico dell’evoluzione Stephen Jay Gould usò ironicamente questa immagine per mostrare come la spiegazione di un fenomeno storico (come appunto l’evoluzione) non possa prescindere da ciò che è avvenuto in precedenza; se è la casualità ad innescare questi cambiamenti, questi non possono evolversi in ogni direzione, ma all’interno di tendenze già sviluppatesi in precedenza. Di qui le storie proprio così, che possono essere comprese a posteriori, e che avrebbero potuto essere un poco diverse, ma non del tutto.
Per questa ragione la I GM è una storia proprio così: avrebbe potuto avere esiti diversi, ci si potrebbe abbandonare a diversi tentativi di storia controfattuale, ma come un leopardo non avrà mai le branchie o un cammello le zanne, la I GM non poteva che essere una guerra determinata dall’attrito; oppure si finisce come quello storico francese di inizio Novecento che riscrisse il de bello gallico con l’aviazione: nel ridicolo.
Quindi la I GM si può descrivere con le parole dell’Enrico V di Shakespeare: «Once more unto the breach, dear friends, once more!». Ripetuto migliaia di volte, su migliaia di chilometri di fronte, a milioni di uomini.