Fenoglio e la guerra (parte I)

Lampus (Martini Mauri) e Nord (Balbo)

Lampus (Martini Mauri) e Nord (Balbo)

PAOLO LAMBERTI

La guerra è tema centrale nell’opera di Fenoglio, non solo nei testi maggiori di ambito resistenziale, ma anche nei racconti dedicati al mondo langarolo, in cui spesso occhieggia la I guerra mondiale.

Limitare Fenoglio alla “letteratura resistenziale”, o anche solo collocarlo tra gli scrittori di guerra, come pure ebbe a definirsi una volta, sarebbe come considerare Moby Dick un romanzo sulla pesca alla balena.  Eppure Fenoglio ebbe molto a soffrire di questa limitazione, a partire dalla drastica e crudele definizione di “ignobili”, perché non in linea con l’esaltazione della Resistenza, data dalla recensione dell’Unità milanese a I Ventitre giorni della città di Alba,[i] sino al giudizio di Calvino su Una questione privata: «E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato….e solo ora….possiamo dire che una stagione è compiuta»[ii]:  lo consacra come il migliore, ma della stagione della letteratura resistenziale.

Non si vuole negare l’importanza dell’esperienza personale, ma, come dice Eliot, l’opera non è fatta per esprimere la personalità di un autore, ma per estinguerla e dopo la pubblicazione degli Appunti partigiani possiamo misurare sì l’impatto del dato personale e la continuità nei temi, ma soprattutto quanta strada intercorra tra Beppe, e Johnny e Milton, strada fatta di lavoro sullo stile, di trasfigurazione del reale in simbolico, del particolare in universale; come si espresse Fenoglio, «la più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti»[iii].  Lavoro minuzioso, sfibrante, che può dare ragione alla definizione continiana di “probità flaubertiana”[iv] per lo scrittore, accomunato al francese non tanto da somiglianze di contenuto, anche se Saccone parla di “bovarismo” di Johnny, ma dall’ossessione della riscrittura e da un rapporto con la realtà profondo ma trasfigurante, ben lontano da ogni ideologizzante, e spesso sciatta, poetica neorealista.

Ciò che caratterizza la trasposizione in letteratura dell’esperienza bellica di Fenoglio (e non le vicende private, celate dietro la maschera di riservatezza che chiude quasi impenetrabilmente l’uomo, nonostante da Lajolo alla Lagorio a De Nicola a Vaccaneo alla sorella stessa molto si sia scritto e tentato per sollevare tale velo) è il legame tra  guerra e terra di Langa, che salva Fenoglio dal rischio di un’esperienza individualistica, tanto da permettergli persino di sfiorare l’estetismo (lo snobismo di Johnny) senza conseguenze.

Il termine di confronto più immediato è comunque Calvino. Se già il Sentiero dei nidi di ragno (1947) è molto più ideologizzato e neorealista del romanzo postumo dell’albese, anche se teso a superare la memorialistica e a sperimentare le prime vie della leggerezza calviniana, nel 1964 Calvino si è lasciato alle spalle neorealismo e Resistenza, compie la scelta verso il fiabesco e il fantastico e la metaletteratura (definisce appunto il libro fenogliano «costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando Furioso»[v]); dunque ammira Fenoglio, ma come maestro di una stagione per lui chiusa. È significativo che un autore “alessandrino”, letteratissimo, narratore della crisi dell’individuo come crisi del linguaggio, non possa che leggere in chiave personale, in fondo fraintendendolo, uno scrittore “omerico”; per capirlo, deve frammentare e geometrizzare la totalità fenogliana; le radici contadine e il realismo, l’oggettivazione e l’universalizzazione dell’esperienza, il concetto di eccezionalità, il “grande stile” come reinvenzione di un linguaggio che dice il mondo, sono troppo lontani dal Calvino parigino e americano. Calvino è testimone acutissimo della crisi dei valori e dei significati, Fenoglio è epico perché è etico.

L’autore che Fenoglio sentì più vicino, per esperienza personale e di scrittura, è T. E. Lawrence, più noto come Lawrence d’Arabia, ricordato in UrPartigiano Johnny[vi]  come modello per la missione inglese («men with something of Lawrence and something of Raleigh and something of Gordon in them»); proprio da lui derivò quella che può essere considerata la sua “bandiera” di scrittore e forse di uomo; «scrivo with a deep distrust and a deeper faith»[vii], ricorda nel 1960; e varia la frase, originariamente di E. M. Forster su T. E. Lawrence, in UrPartigiano Johnny  come «a deep distrust and yet a profounder fait», oppure come «a deep faith and yet a profounder distrust».

T. E. Lawrence, come Fenoglio, si è formato nella tradizione del ‘600 inglese, tragico e puritano, ha combattuto una guerra irregolare con la nostalgia di quella regolare, ha oscillato tra desiderio di solidarietà e solitudine tra i compagni di battaglia (come Johnny e Milton), ha vissuto la guerra con snobismo e ideali, paura e ferocia, ne ha temuto la fine, non si è adattato al ritorno alla vita civile, ha riversato la propria esperienza in un’opera di letteratura, non di memorialistica. Non vanno eluse le differenze, Fenoglio non condivide l’individualismo estetizzante alla Ruskin, i tabù vittoriani, l’esotismo, la tendenza a filosofeggiare, l’azione politica e diplomatica di T. E. Lawrence, nè il suo stile un poco gonfio ed ottocentesco; comunque la sua dichiarata affinità con l’inglese offre una delle poche indicazioni di poetica lasciate dall’albese.

Nodo centrale è dunque il legame tra guerra e mondo langarolo; pur nelle necessarie differenze, quello che unisce l’Agostino della Malora e Johnny  è un fondamentale dato etico, sintetizzato da una frase de Il Partigiano Johnny[viii] «I’ll go on to the end, I’ll never give up»; tenacia, senso del dovere, compresenza tra senso pratico e ideale, tensione continua tra un quotidiano spesso avvilente ma mai fuggito e l’eccezionale, l’evento atteso, vissuto, narrato, che può apparire folle o snobistico, ma dà senso alla vita, e di cui Fenoglio si fa narratore.

A volte Fenoglio medita sul progetto (rimasto tale) di un’opera unica, che abbracci l’avventura partigiana e risalga gradatamente alle generazioni precedenti, un romanzo-fiume che unisca Beppe-Johnny -Milton ad Agostino, a Gallesio, a Paco, in una dimensione epica in cui domina il gesto eccezionale: «io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero» dice Johnny[ix]; «Gallesio s’è tirato addosso lo stato»[x]; «E fatelo lavorare! – gli gridò mio padre, ma la sua non era crudeltà verso di me, ma solo una sfida a quell’uomo della bassa langa a spezzare col lavoro la razza dei Braida»[xi].

In questo quadro la guerra diventa una delle forme dell’eccezionale, non solo perché la violenza è il codice esaustivo dei rapporti umani, come ricorda Barberi-Squarotti[xii], ma perché, come scrive Falaschi[xiii], l’arcaicità di Fenoglio sta nel vedere nelle Langhe il mondo, ritmato, secondo la lezione del rapsodo o del cronista medievale, dagli avvenimenti straordinari.

Per essere tale, l’eccezionale deve sboccare nella morte: «No! No, bambino, no! Quando si fanno certe cose, dopo bisogna morire. Certe cose si fanno proprio perché si è sicuri di aver dopo la forza di morire. Guai se non fosse così. Guai a Gallesio!»[xiv]; Gallesio deve morire, come Johnny in Primavera di Bellezza; e se del Johnny de Il Partigiano Johnny e del Milton di Una questione privata la morte non è narrata, è implicita (anche se da alcuni appunti pare che Milton sopravviva all’ultima scena del testo conservato).

La Langa di Fenoglio è ben lontana dalla Sicilia di Verga, modello dei neorealisti: niente vinti, niente impersonalità, nessun trionfo della roba; all’ostile paternalismo di Verga, all’ideologica esaltazione di Vittorini si sostituisce la scoperta di radici che sono sotto il segno dell’eccezionale. Nella nota di diario intitolata Myself (XXXIV) Fenoglio parla dei «vecchi Fenoglio, che stettero attorno alla culla di mio padre, tutti vestiti di lucido nero, col bicchiere in mano e sorridendo a bocca chiusa.  ….  Così senza mestiere e senza religione, così imprudenti, così innamorati di sé».

Le radici dello snobismo di Johnny  sono in Agostino, come le radici dello scontroso perfezionismo del partigiano e scrittore Beppe sono “nei cimiteri delle langhe”; ne nascono lo stile insieme sperimentale e terragno, la capacità di toccare l’epica senza retorica, l’etica intransigente in un mondo in crisi di valori, la forza di guardare alla guerra come a una prova, dell’individuo, della sua razza, della sua tenacia prima ancora che dei suoi ideali, senza cadere in ideologismi, ebbrezze belliciste o pacifismi opportunistici.

Inserendo dunque il tema della guerra nella cornice dell’eccezionale, un primo aspetto può essere quello della fascinazione della tecnica bellica.  Tre altre possono poi essere le chiavi di lettura principali: la guerra vista con gli occhi dei contadini, «il sangue e la merda e il fango»[xv];  la guerra come dovere, come scelta etica: si deve combattere la battaglia perché «faceva un mondo di differenza perderla (Alba) alle 15 anzichè alle 14,15»[xvi], perché «era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto»[xvii]. Infine la guerra oscillante tra “sentimentalismo e snobismo”, come la definisce Saccon, citando la definizione del “sentimentale e snob Johnny” data dallo scrittore nella lettera a Garzanti del 10.03.59, quella degli eroi partigiani eredi dei «vecchi Fenoglio…così innamorati di sé», che trovano nella guerra la loro assolutezza: «partigiano, come poeta, è parola assoluta». E nel Diario Fenoglio scriverà: «sulle lapidi…il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello». Segno dell’orgoglio per la scelta partigiana, e della diffidenza per la scrittura: a Marino che «is jotting a book on us and our things» Johnny replica che «the book of books on us will be written by a man who is yet unborn[xviii]»; quasi l’attesa di un Omero futuro, degno della materia ormai epicizzata.

Lo stile è già il segnale dell’importanza della guerra. È stato Beccaria a definire il concetto di “grande stile”, opposto sia al bello stile, sia alla quotidianità neorealista sia all’espressionismo deformante di matrice gaddiana, inteso come «unità e totalità di stile monotonale ad alta tensione-…astrazione, capacità di ridurre il mondo all’essenziale, il cercare più la linea che la sostanza…ricerca di originalità di lingua senza rivoluzione formale…dialettismo, latinismo, anglismo come ricerca…di un inarrivabile stile straordinario, e di energia, dignità e brevità»[xix]; è quindi, lo stile, altra realizzazione di quell’eccezionalità di cui la guerra è misura.  Esaminando appunto i lunghi elenchi di esempi raccolti da Beccaria e da Isella[xx], riesce evidente lo spazio che in essi occupa il linguaggio correlato alle occorrenze belliche: l’allitterante «topesco tapping del treppiede della mitragliatrice», la fisicità de «lo sfrigolante sfoderarsi di una baionetta», la brutalità de «una scheggia di mortaio gli aveva enucleato un occhio, e il piccolo globo, simile ad una noce di burro, stava colandogli sulla guancia», la concretezza descrittiva ed insieme fantastica de «la terrà fontanellò…e un uomo, un partigiano, volò abbasso, a capofitto,…appena sfiorando la terra, del tutto senza peso ed aerizzato»[xxi].


[i] L’Unità 29.10.1952

[ii] Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano 1964

[iii] Elio Filippo Accrocca, Beppe Fenoglio, in: Ritratti su misura di scrittori italiani, Sodalizio del Libro Venezia 1960 pp.180-181

[iv] Gianfranco Contini, La Letteratura Italiana, Otto-Novecento, Sansoni Accademia Firenze 1974 p.408

[v] Ibid.

[vi] Beppe Fenoglio, Opere, I,1 Ur Partigiano Johnny (a cura di J. Meddemmen), Einaudi Torino 1978 p.7

[vii] Elio Filippo Accrocca, Beppe Fenoglio, cit. pp.181

[viii] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny (a cura di D.Isella), Einaudi-Gallimard Torino 1992 p.782

[ix] Ibid.  p.845

[x] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Un giorno di fuoco (a cura di D. Isella), Einaudi-Gallimard Torino 1992 p.216

[xi] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, La malora (a cura di D. Isella), Einaudi-Gallimard Torino 1992 p.146/7.

[xii] Giorgio Barberi-Squarotti, Conclusioni su Fenoglio, in: Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano 1971 pp.323-327

[xiii] Giovanni Falaschi, L’isola, il calendario, due libri mastri, in: AA.VV., Fenoglio a Lecce, Olschky Firenze 1984 pp.9-21

[xiv] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Un giorno di fuoco, cit. p.217

[xv] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, la licenza (a cura di D. Isella), Einaudi-Gallimard Torino 1992 passim.

[xvi] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny, cit. p.706

[xvii] Ibid. p.473

[xviii] Beppe Fenoglio, Opere, I,1 Ur Partigiano Johnny cit. p.243

[xix] Gian Luigi Beccaria, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Serra e Riva Milano 1984 pp.39-41, 50

[xx] Dante Isella, La lingua del “Partigiano Johnny”, in: Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti cit. pp. xiii-xliv

[xxi] Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Il Partigiano Johnny cit. pp.532,745, 588, 743