La Vita Selvatica

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MICHELE GHIBAUDO

#19
Attingo dai frutti piccati dal tempo
attingo dal gorgonzola sciolto
venato, profondo caldo cremato
e so di legni spessi
macchiati, dall’acciaio filato, umidi
d’erbe recise, agli grassi, liquidi salati
quel che resta del frutto sul dito
le mie vene nella tua bocca
che gioisce al caldo
della finestra d’oleandri.

*

#16

Riveste tutto di foglie vergini
a decorare, aderente a tutti i palazzotti
vecchi, finestre, topi rampignanti
banchi del mercato le sagome dei frutti
e delle carni lucide e fresce
alle madri legate alle bimbe con corde
di mani violini un quarto stringono
le falangi a fauci, bulimie d’arie sciolte
s’avanza sui selciati d’otri straripanti
d’acque già sciutte dalle piogge mai
discese dei miei mattini,
vecchie vesce conati di morte, fin sulle scale
a salire della chiesalta, che d’albero
aitante risale come nei boschi l’edera vecchia
e il leccio, il mio collo lungo osseo
fino a cielo, campanile irto, quello che non c’è.

*

#7
La crescente foresta sulla mia schiena
è habitat per pettirossi
di upupe che pasteggiano con i miei occhi
nella mia corte, di un cane ferito che muore oltre la staccionata
di viandanti che guardano i miei castagni, i miei lecci,
i miei faggi, le mie acacie curve
con desiderio del sangue
di vecchi muri a secco, di rovi di mora
che entrano tra le mie scapole
e mi ricordano di essere soltanto
una schiena umana dolente
oltre la coltre.

*

#4
Passaggio, bestiario primigenio
sulla terracotta dipinta del bianco
porcellana come occhi nudi
come nebbie primeve
atavico sconvolgere
gli stracci intestini con il pensierio
del finito e basta.
Della morte, del moribile
delle nebbie primeve.

*

#1
Dolorosamente invade il paesaggio
delle tue gambe, sfiorarmi
le ginocchia vedono in me
l’odore del selvatico fuggire volere
le caviglie s’inerpicano nell’antico
urlare all’eco la richiesta di risposta
e dolorosamente uniamo le pelli
per raggiungere quella voce oltre
nel nostro mare di grovigli e vita nostra.

Commento di Lorenzo Barberis:

Queste cinque liriche da “La vita selvatica” di Michele Ghibaudo costituiscono una possibile interessante introduzione al lavoro dell’autore, del resto già spesso presentato qui su Margutte con altri suoi lavori. Ghibaudo ha un’attenzione a temi della quotidianità, delle piccole cose, della realtà naturale colta nel dettaglio in una dimensione domestica che sono certo comuni a molta poesia: ma l’autore cuneese riesce a infondervi uno sguardo personalissimo che emerge, naturalmente, dalla reiterazione della frequentazione della sua poesia, sia con la conoscenza di un più vasto tessuto di liriche, sia ritornando più volte alla stessa come una passeggiata per un sentiero di campagna, un po’ sterrato e sconnesso (metafora che allude alla realtà lievemente “selvatica” in cui Ghibaudo ci introduce, e non al suo stile, che è invece accurato e puntuale nell’uso della parola, dell’evocazione dei suoni, della metrica per quanto libera).  Passeggiare per questi boschi lirici è a suo modo rinfrancante, per quanto non sempre, come si coglie, è una natura totalmente piana, totalmente quieta quella che ci accoglie: sia nel dato naturale, sia nelle presenze umane che si intuiscono al suo interno. E tuttavia è proprio questa sua occasionale asperità che la rende così selvaticamente viva, così autentica. L’io lirico di Ghibaudo, allora, diviene per il lettore una guida che, pur presente, sa farsi discreta, e chi sappia immergersi col giusto spirito nel testo potrà trovarsi “solo et pensoso i più deserti campi”, a vagare in un pervasivo Piemonte dell’immaginario.

Illustrazione di Valentina Salvatico.