Risposta a “Tra peccati e virtù: il silenzio”, di Franco Russo

Caro Franco,
letto il tuo elogio del silenzio e, per quanto possibile, l’ho anche apprezzato. Poi, come faccio sempre con quello che mi pare meriti un’ulteriore riflessione, l’ho riletto e ci ho trovato un branco di asini a gambe all’aria. Asini cascati voglio dire. Ci conosciamo bene ed io so che, in fondo, non ti dispiace tirartela da pensoso intellettuale, di quelli che avendo letto molto, molto pensato, molto elucubrato si compiacciono di tacere. Anche perché, in fondo, il silenzio è molto più figo che la caciara. Vuoi mettere un solitario e silenzioso esploratore di montagne, un monaco in clausura, un regatante in solitaria traversata transoceanica con una bella tavolata al castelli romani: ahoo, quattro cacio e pepe abbondanti e rinforzati, dodici carciofi alla giudea ma de quelli che se po’ magnar tutto e nun risparmiar sullo spessore delle costolette d’abbacchio! Antonio, figlio bello de mamma, vuoi deciderti a magnare n’artra fetta de pasta al forno? Che mamma tua ci ha messo pure le porpettine, le uova, e la salciccia che te piacciono tanto!

Naturalmente non c’è partita. E sono certo che la tua anima, in fondo aristocratica, si senta vicina a Machiavelli, ricordi, al pomeriggio vado all’osteria, imbroglio per un quattrino e litighiamo ed urliamo al punto che ci sentono fino a San Casciano e passa il tempo ed io m’ingaglioffo. Ma alla sera mi tolgo gli abiti sporchi di fango, mi metto gli abiti di corte e entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui.

Non c’è partita, maledetti intellettuali del cavolo che, di giorno giocate a fingere di lavorare la terra, di passeggiare amabilmente conversando con la natura, di ascoltare il canto degli uccelli e lo stormire delle fronde e poi la sera, stanchi di una falsa stanchezza, aprite vecchi volumi, annotate pensose verità con inchiostro e pennino, sorbite – solo i plebei bevono – un caffè, accendete una sigaretta rigorosamente inglese – i plebei fumavano Alfa e Nazionali ma adesso sono passati alle Marlboro – e, infine, spiegate a Dio come avrebbe dovuto organizzare il mondo. Il tutto in religioso, sommo ed aristocratico silenzio.

Ma, caro amico, dopo aver, se non demolito, almeno fatto traballare il tuo elogio del silenzio non foss’altro che per quella componente da aspiranti fighetti prova a seguirmi sul sentiero di altri silenzi.
Beh, intanto mi metto al tuo livello e, siccome so che ti piace citare (hai notato che quelli che hanno poche idee e poco da scrivere citano, tra virgolette, molto? ) parto alla grande: In principio erat Verbum; Et Verbum erat apud Deum, et Deus erat verbum (Giovanni) e continuo ad un buon livello:
La parola fa l’uomo libero. Chi non si può esprimere è uno schiavo. Parlare è un atto di libertà; la parola è in se stessa libertà (Feuerbach).
Ma se vuoi ridere: Fratello! In oggi, ar monno, senza ciarla,/ starai male dovunque te presentano;/ dunque, per cui, si voi fa strada, parla.  (Pascarella)
o essere serio serio:
È inutile portare a processo un uomo così: il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre (Sciascia).

Bene, recatoti il doveroso conforto della saggezza scritta da altri, proviamo a parlare del silenzio vile, del silenzio complice, del silenzio mafioso, del silenzio ipocrita? Quello che, erroneamente, identifichiamo con le tre scimmiette diventate, nell’immaginario collettivo, il simbolo del silenzio omertoso. Forse nemmeno tu sai che, invece, le tre scimmiette sono attrici di una favola shintoista positiva, sono le tre scimmie sagge, Misazaru copre gli occhi, Kikazaru le orecchie e Iwazaru la bocca perché, in quella buona religione, invitano gli uomini a non ascoltare il male, a non dire il male, a non guardare il male. E così noi che riusciamo a rovinare tutto abbiamo trasformato tre santi scimmiotti  in tre mafiosi.

Potrei, adesso, divertirmi a dissertare sui brutti silenzi, quelli dei mafiosi, dei corrotti, dei complici, dei fiancheggiatori dei bulletti scolastici, quello del famoso compagno Greganti, quello che con un silenzio – a modo suo eroico – salvò il partito comunista da Mani Pulite, quelli di chi, tacendo, se ne lava le mani, ma sarebbe operazione inutile. In realtà, caro alter ego, silenzi e parole si equivalgono, non sono che strumenti di ricerca che, come tali, sono indifferenti. Oddio non nego che la caciara sia volgare e la meditazione nobile. Ma parole e silenzi sono manifestazione del nostro essere e del nostro rapportarci con la realtà. Sono buoni strumenti  se li usiamo per affermare diritti, per difendere la libertà, per cercare la verità. Direi, soprattutto, per cercare la verità anzi, visto che hai fatto il liceo classico, per cercare aletheia. Che, come sai, non è quella brutta verità preconfezionata che si compra già cotta ma è, come hanno detto tanti filosofi, il disvelamento cioè la verità cercata, sofferta e conquistata. E questa operazione, col silenzio o con le parole, mi pare l’unica che rende la vita degna di essere vissuta e che fa diventare l’uomo Uomo.

FRANCO RUSSO