Raidi(ng) Report

LORENZO BARBERIS. “Report”, la recente mostra monregalese dell’artista Raidi, inaugurata il 14 luglio, si configura come un’interessante esperimento. La mostra, curata da Sara Pagliano, e ospitata presso i locali della LUB – Consulenze Immobiliari di Luca Bonelli, in via Beccaria 41, è aperta nei mercoledì sera dei Doi Pass monregalesi, la manifestazione serale estiva della città (rimane ancora una data, il 31 luglio).

L’iniziativa, curata dall’associazione “Il Borgheletto”, che opera da tempo per favorire iniziative culturali nel quartiere, rappresenta un tentativo, innovativo per la nostra città, di proporre mostre d’arte al di fuori dei consueti spazi espositivi ufficiali. Naturalmente, oltre alle realtà pubbliche, a Mondovì c’è una lunga e anche nobile tradizione di salette d’arte negli storici caffè cittadini; ma tale spazio è stato storicamente più idoneo ad ospitare mostre di pittura tradizionale (e più figurativa che astratta, in generale) piuttosto che gli esiti dell’arte contemporanea che, come fa anche Raidi, si muove principalmente nell’ambito dell’installazione.

I locali eleganti e moderni della LUB invece si sono rivelati particolarmente felici per l’esposizione; anche più, forse, verrebbe da dire, di alcuni spazi ufficiali pur prestigiosi, ma molto “classici” nel loro aspetto, in cui è più difficile coniugare, a volte, la modernità delle opere con gli stucchi barocchi e le sovrapporte istoriate delle sale ospitanti.

Le opere di Raidi, a loro volta, sono perfette per essere calate in tale contesto, in linea con le ricerche dell’arte moderna, ma anche in grado di parlare ad un pubblico non-specialistico, con riferimenti ironici e immediati alla stretta contemporaneità. Simone Floccari, nel suo articolo per Targato CN, sintetizza correttamente tutto questo nel concetto di “arte urbana”.

Già il titolo, “Report”, pare indicare un reportage artistico, ma anche più specificamente un criptico riferimento al “Report” di Milena Gabanelli, il programma di giornalismo d’inchiesta per eccellenza, la cui brillante conduttrice-reporter (premiata anche a Dogliani, con lo zolfanello d’oro…) è stata non a caso candidata come possibile premier dal Movimenti Cinque Stelle, prima della di lei rinuncia.

La locandina della mostra, di potente impatto, mescola efficacemente due icone contemporanee: da un lato lo zio Sam, simbolo degli USA dal 1812, e reso celebre dal manifesto disegnato da James Flagg nel 1917 per la propaganda d’arruolamento della grande guerra, e dall’altro l’immagine convenzionale del massone incappucciato, che collegato alla politica faceva pensare un tempo alla P2, oggi forse al New World Order.

Tuttavia, il cappuccio è in realtà un sacchetto di carta, cosa che a me fa pensare subito ad uno dei più celebri cicli dei Peanuts degli anni ’70, quello in cui il protagonista si copre la testa con un sacchetto per mascherare un misterioso eritema a forma di palla da baseball (la sua grande ossessione). La singolarità lo porta a un grande successo, fino ad essere eletto il presidente del campeggio, per poi ovviamente fallire non appena guarito, e privo ormai della sua affascinante misteriosità.

Al manifesto si collega anche la prima installazione che colpisce lo spettatore entrato nella mostra: un falso pannello di manifesti elettorali dove i volti di politici immaginari appaiono coperti dal medesimo sacchetto di carta.

Per certi versi, soprattutto l’invenzione di partiti sarcastici, l’operazione ricorda quello di Antonio Albanese col suo personaggio Cetto La Qualunque; emblema del rinato e bipartisan qualunquismo contemporeaneo: se però La Qualunque era incentrato, come personaggio, sull’uso attoriale della rivelatoria faccia patibolare del politicante ammanicato alle mafie, qui Raidi impone invece una cancellazione dei volti.

A un primo livello, potrebbe apparire semplicemente un antipolitico “son tutti uguali”; ma l’uso del cappuccio a me evoca invece qualcosa di più inquietante, come la comune appartenenza a una medesima loggia segreta che unifichi le due ali in apparente competizione. Una riedizione del famigerato Piano Rinascita di recente sottolineato da un altro grande comico, Corrado Guzzanti, nel gran maestro del suo Caso Scafroglia.

Inoltre, Raidi invita i visitatori della propria mostra a lasciarsi ritrarre incappucciati davanti ai manifesti in questione, quasi ad entrare anche loro all’interno della Grande Loggia.

Di fronte al manifesto dei politici, quasi in opposizione, un “Autoritratto” (calco reale, come gli altri, del corpo dell’artista) in cui l’autore, come simbolo dell’everyman contemporaneo, appare mummificato dai post-it che lo ricoprono, rammentandogli i molteplici impegni che lo schiacciano nella quotidianità impedendogli una presa di coscienza più alta. Anche i visitatori sono chiamati ad aggiungere un nuovo tassello, un nuovo post-it su questo moderno triste arlecchino.

Procedendo nella mostra, troviamo altri precedenti autoritratti dell’artista. In questo secondo caso, la figura umana appare schiacciata dai giornali, colmi di notizie di guerra: si tratta infatti di copie dei giornali italiani del 1942, in cui le disastrose sorti del conflitto filtrano tra le righe dei titoli ipocriti della propaganda di regime.

Simmetricamente, l’opera è affiancata da quest’altra scultura dall’aspetto decisamente cyberpunk, dove un uomo con la testa sostituita da un monitor televisivo e un corpo risultante dall’assemblaggio di componenti tecnologici si erge spavaldo, simbolo della nuova era tecrocratica: l’unica figura a non apparire oppressa dalla postura, ma forse perché, appunto, lo schermo ha sostituito il cervello. Non a caso, è l’unica con cui l’artista non si identifica: non è infatti un autoritratto.

Addentrandosi nella mostra, troviamo la prima opera della serie degli autoritratti, in cui la figura umana è raffigurata nell’atto di intessersi cucendo insieme mille scampoli di colore diversi. Ritorna il tema dell’Arlecchino, ma se nei post-it ne trovavamo una versione opprimente, qui la scelta di un materiale simbolicamente caldo e affettivo come gli scampoli di tessuto pare rimandare all’aspetto positivo dell’individuo, che sorge dall’armonizzarsi delle diverse esperienze che lo formano.
In parallelo all’autoritratto più “autentico” e originario, troviamo “Effetto Domino”, in cui ritorna il tema degli omini incappucciati e spersonalizzati, disposti in una lunga teoria come una serie di domino-rally pronti a cadere l’uno dopo l’altro in sequenza. Un’immagine che rimanda a quella del Domino come allegoria centrale di V for Vendetta di Moore, scena resa ancor più celebre dalla trasposizione del fumetto nell’infedele film dei Whacovsky del 2006.
Il sistema, potente in apparenza, ha proprio nella sua elefantiaca rigidità l’elemento cardine della sua debolezza. Non appena una tessera inizia a cadere, ne trascina altre con sé, causando alla fine il collasso di tutto l’ordine globale. Un riferimento abbastanza trasparente all’inarrestabile crisi globale avviatasi dal 2008 (ma attesa ormai anche da prima), in cui il turbocapitalismo sembra condurre sempre più l’occidente verso la sua stessa autodistruzione, a vantaggio di pochi o forse di nessuno.
Lorenzo Barberis
(foto di Lorenzo Barberis)
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