Iconologia del femminile nella canzone italiana, dagli anni ’50 ad oggi

Ornella Vanoni, versione androgina ispirata alla copertina del CD

C. Sottocornola, Ornella Vanoni (versione androgina ispirata alla copertina del CD “E poi… la tua bocca da baciare”, 2001)

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Heidegger sosteneva che la grande arte, i grandi libri, la grande poesia generano la Storia e non viceversa. Platone affermava la priorità dell’Idea sulla realtà, e la dipendenza di questa da quella. Hegel concepiva la Storia come Storia della filosofia, e a questa associava le esperienze “astratte” di arte e religione. E tutti noi ci alziamo la mattina per motivazioni che non sono esclusivamente riconducibili al pranzo e alla cena, ma a qualche orizzonte di significato che ci motiva e regala energia e voglia di fare. L’orizzonte può essere più o meno ampio, più o meno angusto, ma è – per ciascuno di noi – il proprio – ineludibile – orizzonte.

Una modalità con cui tale orizzonte si presenta all’uomo contemporaneo è quello della cultura pop – dall’anglosassone popular – che coinvolge musica, televisione, pubblicità, giornali, rete, moda, cinema, e si caratterizza almeno virtualmente per l’incontro con la produzione industriale e la committenza o consumo di massa. In questo senso il termine pop acquisisce un significato estensivo, inclusivo e neutro: non definisce cioè la qualità di un prodotto, che può essere alta o bassa, ma il suo contesto e linguaggio. La produzione e il consumo di musica oggi fanno per lo più parte di questo orizzonte. E la tanto discussa pop filosofia, in fondo, non fa che registrare questa centralità del popular, ai fini della comprensione del contemporaneo, e – come ben sottolinea Maurizio Ferraris, per esempio in un articolo apparso su Repubblica del 12.9.13 – il carattere iconico e totemico dei personaggi della canzone pop, rock e d’autore che divengono tipo, specchio  e maschera  di una condizione umana, sociale e storica. Se questo vale per tutti, vale di più ancora per le interpreti della canzone che, almeno fino a un recente passato, erano per lo più interpreti pure, a differenza di molti loro colleghi, in primis autori di ciò che cantano, e quindi erano orientate a una ricerca in cui essenziali divenivano voce, volto, anima e gestualità, immagine e movimento. Un po’ di anni fa, Ornella Vanoni, intervenendo a una trasmissione televisiva, in sostituzione di un cantautore precedentemente previsto, fu informata dal conduttore (credo fosse don Mazzi) che i giovani incaricati di porre delle domande all’ospite gli avevano confidato di non sapere che chiedere, essendo la Vanoni “solo un interprete”. Acutamente la cantante osservò in trasmissione che anche Dustin Hoffman è “solo un interprete”, ma noi andiamo al cinema anche perché è proprio lui l’interprete, e non solo per il regista che ha girato il film. La semplificazione serve a dire – ed io ne sono un convinto assertore anche nelle mie lezioni-concerto ove propongo spesso il repertorio delle grandi interpreti femminili – che il carattere creativo dell’artista-interprete è almeno pari a quello dell’artista-autore, può raggiungere cioè la genialità, e inoltrarci ad una nuova esperienza percettiva della realtà. E le donne, anche oggi che spesso hanno ormai acquisito lo status di autrici di ciò che cantano, per ragioni ed anche condizionamenti storici, in questo sono state maestre, precorritrici e straordinarie sperimentatrici.

Certo, negli anni ’50 – parliamo dell’Italia –, la loro iconicità è limitata dal mezzo radiofonico che ne fa in primo luogo delle voci e la stessa Milva inizia la sua carriera vincendo un Concorso bandito dalla Rai che allora assumeva cantanti che si esibivano in diretta con l’orchestra e un vasto repertorio non solo italico,  ma anche sudamericano, francese e internazionale in genere. Il Festival di Sanremo, nato nel ’51, diviene però subito occasione per promuovere un primo divismo musicale, il cui emblema diviene la “regina della canzone” Nilla Pizzi (in anni più recenti lei mi confidò ridendo – e smentendo in parte la propria immagine pubblica – che mai e poi mai aveva anche solo lontanamente creduto a quel titolo), che ben rispecchia il gusto nazionale, che vuole una donna mediterranea, dalla voce calda e solare, ma anche dalla gestualità misurata e dallo sguardo ispirato nel proporre i brani consolatori di un Italia ancora pre-industriale e intenta a fasciarsi le ferite della guerra. Sappiamo della sua  rivalità con Carla Boni, della alternativa rappresentata dalla più swingante Flo Sandon’s, moglie del celebre Natalino Otto, e straordinariamente somigliante alla attuale Arisa, ma soprattutto del fatto che fra la donna angelo del focolare  e la donna perduta (quella spesso rappresentata da una straordinaria e teatrale Milly) non vi può essere sintesi nell’Italia canora di quegli anni, come testimonia il celebre caso di Jula de Palma, interprete a Sanremo 1959 di un brano come “Tua”, che le vale l’accusa di debordante sensualità ed erotismo, con conseguente allontanamento dal palinsesto Rai. Ma – è storia nota – sul finire del decennio arriva finalmente il rock and roll anche da noi, l’urlo, il terzinato – e compaiono le stralunate Brunetta, Jenny Luna, Maria Monti ma, soprattutto, Mina-Baby Gate, che testimoniano l’avvenuto trapasso dell’Italia nella modernità, quella degli elettrodomestici e della televisione in bianco e nero, dei motorini e delle automobili, delle lavatrici e delle prime vacanze di massa al mare.

Il caso di Mina è in questo senso emblematico e non si vuole certo darne qui una lettura esaustiva. Gli inizi da urlatrice (l’equivalente maschile di quegli esordi è senz’altro Adriano Celentano) con brani ironici e giocanti sul non-sense (Tintarella di luna, Coriandoli, Una zebra a pois, Le mille bolle blu), film musicali fortemente tipizzati secondo la moda dell’urlo, un look istrionico e quasi pre-punk, ne caratterizzano il ruolo dissacrante e iconoclasta dei coevi modelli di femminilità, anche se ben presto il suo cimentarsi nella grande canzone d’autore (Il cielo in una stanza di Paoli o La canzone di Marinella di De André) la sottraggono al rischio di divenire una cantante di genere e la consegnano ad un pubblico trasversale che ne decreta la consacrazione, ulteriormente amplificata dal ritiro dalle scene. Di estrazione borghese (il padre è un industriale farmaceutico) – a differenza di molte sue colleghe dell’epoca – Mina, con la sua capacità di distanziamento e ironia, con la versatilità che le consente di essere insieme algida e sfrenata, con un retropalco di drammi personali e vicende sentimentali che ne fanno la protagonista indiscussa dei rotocalchi anni ’60 e ’70, non ultimo con la sua voce modernamente fredda e modernamente inquietante, diviene la rappresentazione più credibile di un’Italia che entra nella contemporaneità e di un nuovo modello di femminilità, che conquista e seduce il Paese, ma soprattutto quella borghesia nazionale (allora non si parlava ancora di ceto medio)  che in lei si riconosce e rispecchia, alla ricerca com’è di libertà laica,  agnosticismo morale, superamento delle convenzioni. Occorre poi aggiungere che, dal 1978, data del ritiro dalle scene, la presenza di Mina al suo pubblico, punteggiata da regolarissime uscite discografiche (contrassegnate dalle immagini sapientemente rielaborate al computer da Mauro Balletti nel segno della irrealtà e del mito), si è fatta ancora più evocativa, immateriale, virtuale, anticipando le attuali tendenze a fare dell’esperienza artistico-musicale un che di olistico e multimediale e, ancora una volta, conquistando quanti cercano nel pop una nobilitazione quasi neoclassica.

Rita Pavone, ispirato alla copertina del CD

C. Sottocornola, Rita Pavone (ispirato alla copertina del CD “Fortissimo”, 1988)

Un caso ancor più emblematico dei nuovi tempi è quello della teen idol Rita Pavone. Che ci consente di parlare anche del rapporto fra televisione e divismo pop in quegli anni ‘60. Con la sola emittenza  Rai, e due soli canali in bianco e nero, nonché una programmazione che prevedeva la copertura di una ben delimitata fascia oraria, apparire in televisione il sabato sera, magari proprio su Rai 1, voleva dire, se tutto andava bene, come accadde alla Pavone o a Morandi, essere adottati da un’intera nazione e quindi amati dai teen-ager allora affascinati dalla prima Tv, ma anche dai loro genitori e nonni. Significava poi non essere più solo una voce, ma soprattutto un tipo o carattere riconoscibile e – perché no – riproducibile e cioè imitabile. Significativo è il modo in cui la Pavone riesce così a tradurre e divulgare una iconicità del femminile totalmente nuova e inusitata – si potrebbe dire rivoluzionaria a quei tempi – permettendone l’assimilazione a un pubblico altrimenti restio a un ribaltamento di paradigma di siffatte proporzioni. Piccola, non bella secondo i canoni del divismo tradizionale, dalla voce potente e aggressiva, incarna l’ideale della “ragazza qualunque” cui si riconosce tuttavia uno straordinario talento musicale, e rinvia subliminalmente il messaggio – considerate anche le sue dichiarate origini proletarie (il padre lavorava alla Fiat e la famiglia rinunciò al primo frigorifero per permetterle il viaggio a Roma che le valse la vittoria al Festival degli Sconosciuti di Ariccia, dove conobbe il suo futuro marito e manager Teddy Reno) – che qualsiasi donna, o ragazza, possa essere icona, tipo, maschera o totem, che non è necessario appartenere a un cliché di bellezza o carisma standardizzato. E negli anni del boom economico, delle grandi speranze collettive, dei sogni di palingenesi economica e sociale condivisi, la Pavone diviene il prototipo di quelle speranze, di quegli obiettivi, di quelle illusioni. Tanto che la sua, come altre carriere teenageriali e femminili di quegli anni andrà in crisi con il  ‘68, l’affermarsi dei cantautori, la decade più corrosiva e problematica degli anni ’70. Ma, anche qui – e a testimonianza dell’indubbio talento – è interessante osservare come la sua ed altre carriere non terminino la propria parabola ma evolvano in serrato dialogo con i tempi. La Pavone, in particolare,  rappresenta un approccio non naturalistico o essenzialistico, ma costruttivistico nella attuazione della propria esperienza artistica e femminilità: prima attraverso la parabola del riscatto dalla propria marginalità sociale, poi nella proclamata affermazione del duplice diritto a esistere ed essere riconosciuta come donna che non è una pin up (ma che afferma una propria intrinseca bellezza)  e come giovane che non si limita ad attendere l’età adulta ma vuole vivere ora intensamente la sua affettività e socialità (lo speculare opposto della Cinquetti, più amata dal pubblico tradizionale, che vinse il Festival di Sanremo del ’64 con “Non ho l’età” – cui peraltro corrispose l’immediato plauso dell’Osservatore Romano che titolò “Brava Gigliola”), quindi come adulta (vedi la questione relativa al suo discusso matrimonio) che decide di trasformare il proprio racconto di sé, e quindi il proprio repertorio, da quello teenageriale a quello più complesso e internazionale, imponendo la propria emancipazione esistenziale ma anche artistica ad un pubblico refrattario ad accettarla. Ed è sintomatico, a tal proposito, che in una intervista da lei rilasciatami al teatro Carcano di Milano nel 1989 mi confidasse che la cosa più importante ai fini della sua evoluzione personale era stata “rompere con le multinazionali”.

Un personaggio che, in certo qual modo, consente invece di parlare di almeno tre decadi è senz’altro Patty Pravo. Anche lei conferma un assunto largamente condiviso: per fare una diva pop la cosa essenziale non è il talento musicale in senso stretto (e cioè potenza ed estensione vocale, intonazione, ecc.), ma l’aura o carisma che, tradotto più prosaicamente, sembra corrispondere alla capacità di dare coerenza alla narrazione di sé, possibilmente entro una gamma vasta di opzioni caratterizzanti  e spesso contrastanti, così che il prodotto finale risulti in certo qual modo “la sintesi di tutti i mondi possibili”, ovvero una iconicità ove ciascuno, nel libero gioco delle proprie facoltà percettive (come afferma Kant a proposito dell’esperienza estetica), possa rintracciare ciò che desidera. Sintomatico è che – prima in Italia – la Strambelli nazionale, emula forse di David Bowie, abbia operato sul proprio corpo concepito come superficie espressiva totalmente sinergica e non accessoria alla voce, e quindi con un’idea di “arte totale” dove la diva o interprete pop ha la funzione più che altro di “apparire”, di “svelare”, di “manifestare” epifanicamente un mondo che solo grazie a lei si rende presente e operante, come un incantesimo. Prima è l’epopea del beat, con cover come Ragazzo triste o Qui e là, il suo rappresentare la rivoluzione giovanile e femminile in termini di trasgressione e ricerca di libertà anche esistenziale, poi, in parallelo con l’esigenza di impegno dei nuovi tempi, è l’incontro con la canzone francese e i grandi autori, sono le sperimentazioni anche psichedeliche degli anni ’70, la camaleontica ricerca visiva degli anni ‘80, con punte quasi zen di  modalità espressive. Ma tutto questo le è possibile e il pubblico la segue ipnotizzato, perché lei è l’ultima grande diva che origina dal grande alveo degli anni ’60, quelli che, grazie a Tv, boom economico e miti generazionali condivisi, hanno stabilito un cordone ombelicale fra cantanti e pubblico.

La generazione di cantanti – e in particolare di cantanti-donne – della decade successiva non potrà più godere di queste prerogative. Gli anni ’70 vedono l’onda lunga del ’68, e quindi gli strascichi della contestazione anche relativamente alla musica popolare, che segna il trionfo dei cantautori, ritenuti più impegnati, ma anche del rock progressivo, del neo-folk, della canzone politica, e guarda con crescente diffidenza agli interpreti puri, ritenuti più facile espressione di disimpegno ed evasione. Le cantanti già affermate vanno in crisi e tentano quindi la strada di una drammatizzazione del loro repertorio, si inoltrano temporaneamente nelle regioni del folk e della canzone politica, o si specializzano nell’intrattenimento televisivo; le nuove leve, che hanno i nomi, per esempio, di Mia Martini, Loredana Bertè, Donatella Rettore, devono affermare la propria credibilità in un contesto dominato dai cantautori che detengono, per così dire, l’esclusiva del messaggio, e lo fanno grazie alla problematizzazione del proprio ruolo, alle continue sperimentazioni  musicali e al rinnovamento d’immagine, nonché alla assimilazione di un repertorio più impegnato, spesso desunto dai colleghi cantautori, o almeno in grado di provocare e spiazzare il pubblico, come nel caso di Donatella Rettore, e dei suoi “Cobra”, “Lamette”, “Splendido splendente”, ma anche di un look bizzarro e divulgativamente punk. Mia Martini, invece, che esordisce vincendo un Festival alternativo con “Padre davvero”, storia di una ragazza allontanata da casa dal padre perché incinta, e si afferma con “Minuetto”, che evoca la vicenda di una donna sfruttata psicologicamente e anche fisicamente dal suo uomo, sembra frequentare le atmosfere risentite di un certo femminismo, che si rifiuta di parlare dell’amore nei termini ingenui e solari di molto repertorio anni ’60, e si sforza di elaborare una scuola di consapevolezza. La musica diventa così, anche nel mondo del femminile, occasione di riflessione ed esigenza vitale, come proprio Mia Martini mi sottolineava in una struggente intervista ove dichiarava di avere scelto la musica come modalità dell’amore, esigenza totalizzante di universalità. Loredana Bertè invece, prima donna italiana a farlo, dà voce al personaggio del drop-out che esibisce la propria marginalità come un blasone di nobiltà entro un cupo scenario metropolitano, caratterizzato dall’alienazione consumistica e dalla assenza di rapporti significativi, ed anche visivamente assume le variegate divise del rock, chiodo in pelle, stivali, jeans e occhiali scuri, a designare, finalmente, l’avvenuta parità di opportunità, almeno nel look, fra uomini e donne, cui non si chiede più una mera gradevolezza “pop”, mentre il repertorio conferma con piglio risentito  quanto ostentato dall’immagine: “Non sono una signora/ ma una per cui per cui la guerra non è mai finita…”. Non dimentichiamo poi, in questi anni, la grande maschera tragica di Gabriella Ferri, fra cabaret, folk e canzone d’autore, con una voce volutamente sgraziata e struggente, ma anche le splendide sperimentazioni elettro-pop e la psichedelia barocca di Antonella Ruggiero, versione Matia Bazar… Ma il pubblico di queste dive anni ’70, causa il moltiplicarsi dei canali televisivi, le suggestioni  straniere, la criticità giovanile, è ormai elettivo, strettamente musicale, e non più generalista come era quello delle colleghe anni ’60.

Sceglierei, fra le dive anni ’80, Anna Oxa come soggetto rappresentativo delle tendenze del decennio. Già dagli esordi sanremesi di Un’emozione da poco è possibile cogliere l’approccio della cantante alla performance, che si caratterizza per una maniacale attenzione al dettaglio della comunicazione visiva. Ma, a differenza della collega Patty Pravo, di cui si è detto, il cui retroterra generazionale potevano essere il beat, la psichedelia e poi il glam, e quindi il variegato pianeta rock – non integrato e semmai in conflitto con lo status quo – la Oxa sembra attingere senz’altro agli espedienti del pop e della comunicazione televisiva, che non a caso la vede protagonista di show di punta del sabato sera, nonché al complesso mondo del marketing che sa gestire la comunicazione visiva anche in rapporto alle esigenze del mercato discografico e della popolarità di massa. Dietro di lei ci sono già Madonna, Michael Jackson, ma anche il riflusso e l’edonismo reaganiano, la moltiplicazione dell’offerta televisiva e il bisogno di audience, insomma quel decennio effimero e scintillante degli anni ’80, in cui tutto divenne pop e al messaggio si sostituì lo stile, e questo sempre più si identificò con il look  e la sua ennesima trovata. Certo la cura della Oxa per il dettaglio non si limitò alla gestione di un’immagine attraente ma spesso convenzionalmente allineata col prototipo della diva un po’ hollywoodiana, si inoltrò anche nell’ambito di uno sperimentalismo vocale che, come nel caso dei suoi due album di cover cantautorali, ebbe spesso esiti interessanti. E tuttavia, è indubbio che, da questa decade, l’esigenza visiva tende a prevalere su quella dell’ascolto, e questo tende a risolversi in pura evasione, cosa che da un lato riporta in auge la categoria dell’interprete-donna come soggetto dotato di fascino e carisma, dall’altro, ancora una volta, ne rischia la banalizzazione, come appare dai trionfi della disco music e delle varie sue icone. Anna Oxa impersona la voglia di palcoscenico e di musica, che coinvolge negli anni ’80 anche i cantautori, ormai musicisti a tutto tondo, ma al contempo la completa integrazione della musica nel sistema, rispetto al quale può, al massimo, garantire, appunto, evasione.

Sul versante opposto si muove, nel medesimo decennio, Gianna Nannini. Se il cliché del rock è maschile e quello del pop femminile, allora il fascino androgino della Nannini è decisamente rock (nonostante le influenze pucciniane) e il suo ruolo nella canzone italiana, ma più in generale nella storia del divismo ad essa connesso, è quello di iniziare ad una diversa antropologia del femminile, totalmente contigua a quella dei colleghi maschi, ed  in primis dei grandi front-man alla Mick Jagger, che si esibiscono come leader di un gruppo e il cui carisma è spesso destrutturante e decostruttivo. La Nannini degli anni ’80, che corre e si sdraia sul palco, suda, allude, urla con voce rauca e, insomma, sembra concepire le proprie performance in analogia con quelle dei grandi rocker sul mercato più che con quelle delle colleghe primedonne, sancisce una emancipazione di genere che è nuova, almeno da noi. Prima di lei, la Pavone, Patty Pravo, la Bertè avevano sempre cercato una rappresentazione decisamente strutturata di sé, magari atipica e trasgressiva, ma orientata al traguardo di una forma compiuta e, in certo qual modo, accattivante. Lei no. Come Vasco o Zucchero,  non vuole in primo luogo “piacere” (il rock diffida giustamente della gradevolezza pop) ma rilanciare, liberare energia, deflagrare (esplodere come una supernova).  Come loro, è inoltre autrice dei propri pezzi che acquisiscono lo status di classici della canzone popolare. Come loro, e in maniera specularmente opposta a quella della Oxa nel medesimo decennio, si chiama fuori dall’universo dei consumi e dei modelli tecno-capitalistici dominanti, a favore, per esempio, di un erotismo quasi marcusiano, di un primitivismo volutamente ingenuo e debordante, di una mistica del creato di fascino quasi francescano. Coerentemente, sviluppa la propria immagine senza mai cadere nel cliché della piacevolezza femminile. Con lei, l’immagine femminile nella canzone passa dall’apollineo al dionisiaco, per dirla con Nietzsche, e suggerisce un’esperienza più vicina all’inquietudine del sublime kantiano che alla serenità della bellezza classica. E il retropalco delle vicende esistenziali, caratterizzate da autonomia e iniziativa non convenzionali, conferma.

Il caso di Laura Pausini negli anni ’90 è emblematico delle nuove tendenze non solo musicali, ma antropologiche e relativamente al mondo dei giovani. Se nelle rivalità suscitate dai rotocalchi dell’epoca fra una integrata Cinquetti e una ribelle Pavone non c’era gioco, e la Pavone risultava prediletta dai teenager in cerca di emancipazione, negli anni ’90 il modello vincente, e non solo in Italia, ma sul mercato internazionale, è quello di Laura Pausini, che non manca di affinità con la Cinquetti anni ’60, per lo stile acqua e sapone, il carattere intimistico e abilmente naif del suo repertorio, le sonorità decisamente pop e connesse all’easy listening, le tematiche esclusivamente sentimentali affrontate. Certo, il panorama internazionale ha visto nel frattempo accadere eventi epocali, come nell’’89 la caduta del muro di Berlino con il conseguente crollo del bipolarismo e l’affermarsi di un modello planetario ispirato all’Occidente capitalistico mentre, in Italia, l’affare Tangentopoli determina la fine della Prima Repubblica e una sempre maggior disaffezione dei giovani verso la politica. Assistiamo quindi alla richiesta di una semplificazione ludica e consumistica nella fruizione di musica, e ad un divismo femminile contrassegnato da una articolazione di proposte, ma tendenzialmente integrabili in una logica di mercato e consumo che mai ridiscute realmente l’assetto, anche degli stereotipi di genere. E, nel nome del pop, con cui devono fare i conti anche rock e canzone d’autore, si assiste al ritorno di vecchi cliché, generalmente connessi all’esigenza di una gradevolezza immediata e trasversale, in grado di convincere una teenager italiana, ma anche tedesca, giapponese o sudamericana. La complessità non paga di fronte alla semplificazione pop, e tuttavia questa esige sempre più alti livelli di professionalità, competenza e tecnologia per regalare un prodotto rassicurante e distensivo, come una saponetta profumata o una tisana rilassante. In fondo, il pubblico cerca un’armonia alternativa allo “stress della vita moderna”, diceva anni fa Ernesto Calindri nella pubblicità di un noto amaro. Mentre i neuroni si plasmano sui miti e i ritmi della programmazione televisiva o dei viaggi in rete.

Gli anni 2000 non fanno che istituzionalizzare le tendenze evidenziate, principalmente grazie alla diffusione addirittura planetaria dei talent show musicali, che, anche  in Italia, sfornano molte nuove dive del pop, da Giusy Ferreri a Emma Marrone, da Alessandra Amoroso a Noemi, atte ad alimentare un mercato sempre più esiguo, causa l’abitudine a scaricare direttamente dalla Rete. Il talent sembra infatti particolarmente idoneo a produrre nuove star della canzone, divenendo luogo perfetto di incubazione e sperimentazione, ma anche sostituto dello show anni ’60, proprio perché, come quello, permette al pubblico di familiarizzare coi nuovi divi musicali, assistendo addirittura alla loro nascita o creazione, e generando pertanto quell’imprinting destinato idealmente ad unire per sempre pubblico e artista. Non a caso non pochi protagonisti dei talent si impongono anche a un’utenza generalista, vincendo magari, come nel caso di Emma Marrone o Marco Mengoni,  lo stesso Festival di Sanremo, e spesso entrando in questi tempi di crisi delle vendite  anche in classifica. Naturalmente la tipologia di queste interpreti, pur variando caso per caso e  provenendo spesso da altre esperienze, è segnata dalla natura in gran parte preconfezionata del loro successo e della loro immagine, dalla necessità quindi di aderire rapidamente – quasi come nella commedia dell’arte – a un carattere facilmente riconoscibile per rispondere alle esigenze semplificate di un ben definito target e, non ultimo, da un tecnicismo esasperato sia nell’uso della voce che nella elaborazione dell’immagine, a torto identificato col valore artistico qua talis.  Queste algide presenze, in realtà, assumono rispetto all’identità di genere un approccio estremamente conservatore, di solito connesso a una scontata sessualizzazione dell’immagine in rapporto a cliché ancora maschilisti, rispetto alla propria maschera scenica una rappresentazione antiquata fondata su una gradevolezza naturalistica o immediata e il più possibile inclusiva del gusto prevalente, rispetto alla proposta musicale una inadeguata identificazione di tecnica e carisma – o almeno uno di tali caratteri –, non ridiscutendo mai il contesto consumistico e mercificante che li esprime e promuove, ma anzi alimentandolo. Se posso avanzare un’osservazione personale, noto che interpreti di talento come Dolcenera o la Ferreri, inizialmente dissonanti e anomale, sia nella emissione vocale che nell’immagine, tendono poi, nel prosieguo della loro carriera discografica, ad adeguarsi ai cliché di una piacevolezza sia di immagine che vocale, molto più allineata al gusto medio di quanti dovrebbero acquistare i loro dischi. Ma non ci sarebbero mai state una Janis Joplin o una Patti Smith nella storia della musica, se si fosse ragionato in questo modo. Certo, fra le nate dai talent, un personaggio come Noemi, che più ricorda certe sonorità anni ’60-’70, mantiene una sua certa indipendenza. Ma una rondine non fa primavera, e senz’altro il panorama italiano delineato, fatte le debite proporzioni, vale anche per il pop internazionale e il divismo femminile che lo caratterizza, anche se lì i nomi sono quelli di Rihanna, Britney Spears, Jennifer Lopez, Mariah Carey o Lana del Ray, e riflette la completa integrazione e omologazione della musica allo status system, come parte di un sistema economico e di civiltà che andrebbe mutato, con tutti gli stereotipi  di genere che trascina con sé.

(tratto da Claudio Sottocornola, Saggi Pop, Marna 2018)