“Miti Pop – Lavaggio a freddo”: una guida per muoversi nella cultura pop

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“Miti Pop – Lavaggio a freddo” è una grande cavalcata nell’iconografia e nelle memorie della cultura di massa, fra Pop Art, Beat Generation, Nuova oggettività, Neoplasticismo, Da­daismo, Individualismo e Suprematismo. I vizi e i giochi, la moda, la musica, la tv, il cinema, la letteratura, la politica, i comics. Le icone degli ultimi settant’anni: Elvis Presley, Marilyn Monroe, Steve McQueen, Bruce Lee, i Nirvana, Michael Jordan, Rocky, il Cavaliere Oscuro, la Play Station, Il trono di spade, Fortnite, Zerocalcare e tante altre.

Un’opera che poggia sulla base degli anni Cinquanta, indagati in profondità dal monregalese Lorenzo Barberis, che è stato ai tempi anche tra i fondatori di “Margutte”, nel 2013, e da tempo si occupa di cultura pop, sia online, sul fumettistico “Lo Spazio Bianco” e sul più generalista “Nerdcore”, sia a livello locale sul “Culture Club 51”, inserto culturale dell’Unione Monregalese, e all’interno del progetto CuNeoGotico.

Nel suo intervento, dopo una introduzione generale, Barberis presenta i due principali “pantheon” del pop: quello hollywoodiano da un lato, quello “di carta” dall’altro, con i suoi adorati fumetti, da Superman a Batman, dai Disney a Tex Willer. Tra le star del cinema, cogliamo a titolo d’esempio la presentazione della figura di Audrey Hepburn, indimenticabile diva dei ’50.

“…se nei casi precedenti abbiamo trattato di declinazioni differenti dell’archetipo della Bionda, il cui vertice di iconicità è Marilyn Monroe, uno speculare archetipo di bellezza bruna è incarnato in Audrey Hepburn, nome d’arte di Edda van Heemstra Hepburn-Ruston, nata a Bruxelles nel 1929. Canonicamente la bellezza bruna può associarsi, nello schematismo più semplificato (spesso presentato nei fumetti anni Cinquanta, specie quelli di argomento poliziesco o gangsteristico), al ruolo di antagonista della storia, o comunque di villain al femminile. Nella Hepburn questo non avviene, e la sua ineffabile eleganza le permette invece di codificare il ruolo di una bellezza più elegante, più raffinata, più “europea”. Audrey Hepburn fu simmetrica all’archetipo della “maggiorata bionda” non solo nel colore dei capelli, ma anche nell’adesione a un modello di eleganza differente, basata su una presenza scenica corporea filiforme, intensa e misteriosa. Nata in Belgio, dopo un’infanzia resa difficile dall’occupazione nazista dei Paesi Bassi si trasferì con la madre a Londra, dove compì studi di danza classica, debuttando nel mondo dello spettacolo sul finire del ’49. L’esordio nel cinema, come comparsa, è nel 1951. Nel 1952, girando Vacanze a Montecarlo, viene notata e scritturata per Gigi a Broadway; e quindi sarà scelta dalla Paramount Pictures per Vacanze romane (1953), a fianco di Gregory Peck. Il ruolo segnò la sua affermazione a livello internazionale, consacrata l’anno seguente da Sabrina (1954) di Wilder. Seguirono l’alternarsi di film riusciti e meno riusciti, nessuno però tale da assurgere a una vera valenza iconica, fino al successo enorme della commedia Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards. La sua sopravvivenza iconica ha anche una sua recente incarnazione fumettistica: la criminologa Julia Kendall, eroina al femminile del fumetto bonelliano nata nel 1999 e tuttora con buon successo in edicola dopo vent’anni di carriera, è ispirata nell’aspetto proprio ad Audrey.”

Il volume prosegue poi con capitoli dedicati agli altri decenni: lo spirito dei Sessanta intercettato da Adriano Ercolani e unito quasi in un binomio al decennio successivo, del quale Emiliano Ventura e Luciano Morganti mostrano gli aspetti innovativi e quelli ancora fortemente tradizionali. L’esplosione degli Ottanta viene analizzata dal curatore Mirco Delle Cese, che ci presenta inedite chiavi di lettura. Tommaso Ariemma rende quasi poetico il difficile percorso di depressione degli anni Novanta; Dario Marchetti, il più giovane del gruppo, riesce a evidenziare con colore e precisione chirurgica tutti gli elementi che hanno caratte­rizzato l’inizio del nuovo millennio, mentre a Diego K. Pierini è affidato il compito forse più gravoso: quello di chiudere il cerchio profetizzando chi e cosa, degli anni Dieci appena vissuti, è e sarà mito pop.

(a cura di Gabriella Mongardi)