Il fascino dell’altrui mestiere: intervista impossibile ad Andrea Camilleri

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Andrea Camilleri in Conversazione su Tiresia, Teatro greco di Siracusa 2018.jpg, from Wikimedia Commons

GABRIELLA MONGARDI

Vengo subito al sodo. Come mai uno che ha studiato all’Accademia d’arte drammatica, e di professione faceva il regista e lo sceneggiatore, ha deciso di scrivere, romanzi per giunta? Non le piaceva il suo mestiere?

Vede, ero stanco di raccontare le storie d’altri con parole d’altri, volevo raccontare una storia mia con parole mie. Da giovane avevo scritto poesie e brevi racconti, non so perché mi sia venuta l’idea di scrivere un romanzo. Comunque l’ho scritto, l’ho finito nel ’68, ma l’ho pubblicato solo nel ’78.

Perché ci ha pensato sopra per dieci anni, prima di darlo alle stampe?

Sarò sincero: l’ho mandato a quattordici editori, di serie A, B, C, e D, e nessuno ha voluto pubblicarlo. Mi dicevano: «No, non ci piace com’è scritto». Nel ’78 un mio amico sceneggiatore mi propone di farne uno sceneggiato per la televisione, e allora un editore, Lalli, mi pubblica il romanzo Il corso delle cose – che però non ha quasi nessuna distribuzione.

E poi?

Tutto ringalluzzito dal libro di carta che stringevo tra le mani, in otto mesi ho scritto di getto il secondo romanzo, Un filo di fumo, che è finito nelle mani di Gina Lagorio e per suo tramite in quelle dell’editore Garzanti, che lo ha pubblicato nel 1980. Avevo 55 anni.

Ma pochi anni dopo passa a Sellerio…

Sì, la sicilianità ha prevalso. Il primo romanzo che ho pubblicato con Sellerio nell’84, La strage dimenticata, non ha avuto successo, ma ciò nonostante Elvira Sellerio non ha perso la fiducia in me. Io però ho preferito fare una pausa, prendere tempo, e solo agli inizi degli anni ’90 ho ricominciato a pubblicare: anche il personaggio di Salvo Montalbano è nato in quel periodo. Da allora, non ho più smesso di scrivere (sono oltre cento i libri che ho pubblicato, tra romanzi, racconti e saggi) e sono diventato famoso. Ancora adesso non me ne capacito…

Evidentemente i lettori hanno trovato nei suoi libri la soddisfazione di loro “bisogni”. Lei è un grande affabulatore, un “contastorie” fascinoso, e tutti abbiamo bisogno di “narrazioni”…
Molta della sua fama è però legata al commissario Montalbano: le dispiace? Non crede che altre sue opere siano ingiustamente “eclissate”, da Montalbano?

Se è come dice lei, ne sono contento: uno scrittore senza lettori è nulla – o meglio: può essere grandissimo, ma è a metà del guado, perché gli manca qualcuno che riconosca il suo valore.
In questo senso, io mi affido totalmente al giudizio dei miei lettori: se prediligono Montalbano, Montalbano sia! E se il successo di Montalbano è anche dovuto alla bravura di Zingaretti & Company, ben venga: non sono geloso.
Così come non mi rammarico di aver avuto successo “da vecchio”: non bisogna mai pretendere nulla dalla vita, ma essere aperti ai suoi doni, a tutte le età.

Se fosse Borges, scriverebbe una poesia come Altra poesia dei doni, allora? Non le chiedo “se fosse Tiresia”, perché quello lo è stato…

Certamente, la conosco a memoria in spagnolo e la sottoscrivo, dall’inizio alla fine:
Gracias quiero dar al divino Laberinto de los efectos y de las causas
Por la diversidad de las criaturas que forman este singular universo,
Por la razón, que no cesará de soñar con un plano del laberinto,
Por el rostro de Elena y la perseverancia de Ulises,
Por el amor, que nos deja ver a los otros como los ve la divinidad
[...]
Por el sueño y la muerte, esos dos tesoros ocultos,
Por los íntimos dones que no enumero,
Por la música, misteriosa forma del tiempo.

Purtroppo, non è più riuscito a recitare la sua “Autodifesa di Caino”, alle Terme di Caracalla…

Così stava scritto, evidentemente. Ma rimane il Caino di Saramago. E quello di Borges, naturalmente.

Senta, cambiamo argomento. Io sono una patita di montagna… E lei?

La montagna è un bellissimo problema, per me. Essendo io nato a m. 1,30 s.l.m, la montagna mi è per natura inconcepibile. Ma l’unica volta che sono andato in montagna – due settimane nelle Dolomiti, perché secondo mia moglie “i bambini hanno bisogno di andare in montagna” –, un giorno sono  partito da solo alle sette del mattino e ho camminato sempre in salita fino alle quattro del pomeriggio. Era buio quando sono rientrato in paese, a Pozza di Fassa, e avevano già organizzato i soccorsi per me… No, la montagna non fa per me, mi dà una malinconia struggente: non fosse per la grappa…

Lascio a lei la conclusione di quest’intervista.

Non posso che fare mie le ultime parole pronunciate da Tiresia nel Teatro Greco di Siracusa, l’11 giugno 2018: «Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla. Solo su queste pietre eterne.

Ora devo andare».

***

(liberamente tratto da:
Andrea Camilleri, I racconti di Nené, a cura di Francesco Anzalone e Giorgio Santelli, Feltrinelli, Milano 2013;
Andrea Camilleri, Conversazione su Tiresia, Sellerio editore, Palermo 2018
Salvatore Silvano Nigro, Il generoso contastorie vigatese, in “Domenica-Sole24Ore” del 21 luglio 2019, p.23;
Stefano Salis, Grande scrittore travolto da un “insolito” successo, ibidem)