Il sacro e il popular fra tradizione ed eversione nel tempo del pensiero debole

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Il sacro e il popular oggi sono in crisi. Nessuno parla più il loro linguaggio. E tutti (maschi e femmine) si affrettano a esibire treccine, anelli, orecchini, tatuaggi e abbronzature, mèches e collane, parole e gesti pagani… abbigliamento da Tardo Impero o Basso Medioevo, barbari e inconsapevoli, non più risplendenti della luce del sacro che avvolgeva le menti e i corpi almeno ancora fino ai primi anni ’80, e li adornava di una sublime sobrietà.
Pasolini lo aveva capito. Si entrava in un sabba ove denaro, lerciume e ottundimento avrebbero mosso, spadroneggiato, colonizzato la terra: come preannunciato dal suo film, “Le dieci giornate di Sodoma”. E mi rendo ben conto di quanto ciò, il rimpianto di un’antropologia in declino o, meglio, già declinata, possa apparire a qualche spirito entusiasta del presente reazionario, consolatorio, indice di senescenza incombente. Ma rifletto sulla mia onesta attenzione all’oggi, al mondo intorno a me, alla vita che si svolge e varia nelle più diverse forme dell’attualità e del contemporaneo, che amo, per assolvermi ampiamente da tale sospetto.
No, io amo la vita e, in essa, le relazioni che la costituiscono e intessono oggi come ieri. Per questo amo la memoria, e la memoria storica, mentre la Tradizione mi appare come la trama che congiunge e dilata ambiti spazio-temporali altrimenti inevitabilmente nucleari e casuali, frammentari e dispersi. Chiunque fa esperienza, entro la propria famiglia, della scansione del tempo e della sua sacralizzazione, mediante la costellazione e celebrazione di eventi e date simbolo (Compleanni, Capodanni, Natali e Ferie estive…), che poi raccolgono la famiglia stessa, ne intensificano i rapporti, ne cementano il sentimento di unione… E tali eventi costituiscono negli anni una “memoria familiare” cara, a volte materializzata in oggetti, fotografie, regali, scritti, suoni… che strutturano una coscienza di appartenenza, una affettività ricca di motivazioni e progetti – radicati appunto nel proprio concreto vissuto collettivo, nella propria corale esperienza.
Sperimentiamo quanto, quando per un grave incidente di percorso ciò viene a mancare, ne soffrano gli spiriti, gli individui, riconsegnati a una specie di anarchia affettiva, di puntinismo delle percezioni, dei ricordi, della memoria. Quando, dopo divorzi o separazioni, liti o presunte dichiarazioni di indipendenza, gli individui sono costretti a “fare parte per se stessi”, allora spesso cresce la malinconia di una memoria anaffettiva, ove ai simboli del vissuto e della relazione, si sostituiscono facilmente quelli del consumo e della competizione, dell’ostilità o – ancora peggio – di una cinica e crudele indifferenza.
Altrettanto a me pare di sperimentare nell’ambito dell’esperienza spirituale e religiosa.
Innegabilmente l’epoca che viviamo è caratterizzata dal tramonto di ataviche certezze, da multiculturalismo e relativismo, per i più dalla caduta di rilevanza simbolica del linguaggio della tradizione, e di quella religiosa in particolare. Il politically correct, di cui la Francia è maestra, tende a relegare nella sfera privata l’espressione di ogni simbologia che abbia a che fare col sacro, convinto che una sua ostensione pubblica rappresenti una minaccia per il pluralismo e la libertà collettiva. È una radicalizzazione del problema e, forse, anche una soluzione che va nella direzione sbagliata. Infatti, anche se è auspicabile intendersi, nessuno condanna l’espressione in lingue diverse e la proibisce perché ciò costituirebbe atteggiamento intollerante, condannando quindi all’afasia la specie umana ma, al contrario, si promuovono le lingue e oggi anche i dialetti locali, per favorire la varietà e tutelare la ricchezza delle culture, anche se ciò non comporta la negazione di valori condivisibili e sottesi ai diversi idiomi, e rende auspicabile l’esistenza di codici di interpretazione e traduzione.
Esiste, per esempio nell’ambito della prassi religiosa cristiana di oggi, la tendenza a glissare su dogmi, simboli e misteri (tradizionalmente percepiti come nucleo della fede stessa), che apparterrebbero a una coscienza ingessata e intollerante, a favore della ostensione di un vissuto storico  – l’esistenza di Gesù di Nazareth, fondatore di quella fede stessa – presentato nella sua esemplarità in parole ed opere. L’insegnamento, la catechesi, l’omiletica, sono così focalizzati sulla narrazione reiterata, sulla parafrasi del dato (biblico ed evangelico in particolare), sullo sguardo al “passato” di quella vita, oserei dire, sulla sua “contingenza” storica.
Il sapere acquisito dai nostri ragazzi, ma anche, per esempio, dal cattolico medio di oggi (che è, per la verità, abbastanza rozzo quanto a contenuti), è dunque fluido, magmatico, caotico, aneddotico, dispersivo quando non fuorviante. Ci si concentra su una presunta, e per molti aspetti irraggiungibile, verità storica, continuamente citata come paradigma, ma alla fine si lascia il “fedele” (ancora la Chiesa lo definisce così, per una virtù “passiva”) con una manciata di episodi e gesti edificanti.
Io mi sono formato sul Catechismo di Pio X (non sono centenario, ma alla metà degli anni ’60, quando  – bambino – mi preparavo alla Prima Comunione e alla Cresima, ancora il paradigma era quello) ed ero richiesto di studiare a memoria tutte le risposte alle domande fondamentali, tipo “Perché Dio ci ha creati?”, o “Qual è il primo mistero della fede cristiana?”.
È possibile che ciò peccasse di qualche rigidità e, oltretutto, a quell’età forse c’era il rischio di una certa meccanicità nella comprensione delle nozioni, ma è anche vero che, alla fine del percorso di catechesi, io avevo una visione della vita ove si era tentata una risposta a tutti i problemi fondamentali. Facendo buon uso di quella struttura interpretativa, ed evolvendo negli anni ad una comprensione, ad un approfondimento, ad una messa in discussione anche, di quei dati, io avrei potuto assumere la mia interpretazione del mondo, ma in sinergia con un patrimonio di vissuto, di tradizioni, di civiltà, che mi aveva sostenuto e forgiato, rafforzato e donato una direzione possibile e, comunque, dei punti sulla mappa dell’esistenza e del mondo, che io avrei potuto ridisegnare, ma che mi avevano avviato al coglimento del senso, alla attuazione del valore. Questo è il compito della Tradizione che, nell’ambito, per esempio, del Cattolicesimo, si è sempre strutturata attraverso dogmi, simboli, misteri.
Perché preferisco l’appello al dogma, al simbolo, al mistero, rispetto all’approccio che fa leva sulla narrazione edificante, sul divenire storico (direi, in gran parte solo presunto nei suoi dati specifici…), su un generico aggregarsi attorno a un grande modello antropologico – quello desunto dal Gesù della narrazione evangelica – che impone all’esperienza spirituale uno sguardo prevalentemente retrospettivo e una semplice iterazione del modello?
Perché la penso come i Padri dei primi secoli dell’era cristiana, che vedevano molte affinità e congruenze tra filosofia e cristianesimo, e difatti accedevano (Giovanni insegna…) al concetto greco di Logos per identificare il Cristo manifestantesi in Gesù di Nazareth, mentre poi, in gran parte da Lutero e dalla Riforma (che però si appoggiavano a Paolo e Agostino), cui si è attinto abbondantemente in tempi più recenti dalla catechetica e omiletica cattolica, l’accento è stato messo sulla Storia che – in parte inattendibile o quantomeno imperscrutabile nel contesto filologico biblico – ci impone una semplice imitazione-reiterazione, che non è poco, ma stabilisce i limiti insormontabili del volontarismo, dell’attivismo, forse di una semplificazione banale e rozza (v. contesti storici diversi), a scapito di visione e contemplazione ma, soprattutto, di una contestualizzazione che, affondando le sue radici nell’universale Ragione-Logos, apre il Cristianesimo al mistero più vasto – di una Ragione, di un Senso, di un Fine – che si radica così nella comune Storia universale e cosmica, e si specifica in lingue e culture diverse, ora come Logos, ora come Tao, ore come Dharma, ora come Cristo, ora come il “Nulla” della tradizione buddista (e nichilista?)…
Lo capiva Jung, quando evocava l’esistenza di un inconscio collettivo che parlava alla coscienza dei popoli e delle civiltà, ed evocava gli archetipi della Grande Madre, dell’Ombra, del Cielo… Persino uno che si occupava di struttura delle fiabe, come Propp, individuava invarianti, modalità e archetipi primordiali, universali…, sottesi a tutte le narrazioni per l’infanzia nel mondo. E tutti noi ci commuoviamo davanti alla luna, al mare, alla nascita e alla morte…
Perché dunque non ci abbandoniamo con fiducia al grande serbatoio, alla fonte del mythos fondativo tanto caro a Raimon Panikkar, che ne rappresentava le variegate manifestazioni all’interno di religioni e spiritualità?
E dunque, perché non attingere al grande pozzo della Tradizione ove la Chiesa, nelle sue manifestazioni cattolica, ortodossa, riformata, ha depositato i tesori della sua riflessione e della sua poesia, della sua esperienza e della sua contemplazione, della sua santità e dei suoi errori divenuti lezione a cielo aperto? Perché non vedere che la vicenda storica contingente di Gesù ci affascina, coinvolge e redime anche perché su di essa, in essa, mediante essa, si è esercitato lo sforzo, l’ingegno, l’impegno di miliardi di uomini nei secoli, che vi hanno investito, scommesso, speso le proprie vite e le proprie menti, le proprie energie e i propri errori…? E come pertanto rifiutare il grande, lo straordinario affresco… i Cieli stellati, le Ascensioni, le Pasque e Deposizioni, i Sepolcri vuoti, i Magi, il Natale che viene nell’Avvento… come azzerare il magnifico incanto dei Misteri che declinano l’unico grande Mistero, il Fondamento, l’Origine e il Senso di ogni cosa?
Non si può, non si deve, semplicemente tornare alla vicenda terrena di Gesù, destrutturata e quasi decomposta rispetto a ciò che essa ha provocato e ispirato. Anche se è possibile, e doveroso, per gli studiosi, per i credenti, riandare a quell’origine come a una fonte inesauribile e benedetta, per coglierne l’annuncio, il presagio, l’esplosione, l’incanto della novità nascente. Ma è tuttavia congruente, conseguente, inevitabile, fare i conti con l’edificio che da quelle fondamenta è nato, stupirsi della sua magnificente architettura, commuoversi per quanto vive e pulsa ormai il suo cuore all’unisono col nostro, di ognuno…
Non potrò mai dimenticare i Natali della mia infanzia e giovinezza. Quanto allora – aria di neve, gioia della festa, regali e liturgia, la carta roccia e stellata che mancava la sera di vigilia, e la cartolaia di fronte a casa che me ne forniva la giusta quantità per finire il Presepe, il lume acceso, la Messa a Mezzanotte… – tutto contribuiva a far sorgere in me il senso del Mistero. Che senso avrebbe sottolineare che non sappiamo il giorno e l’anno della nascita di Gesù, quando la sua vita ha generato una esperienza della nascita e dell’attesa così sublime, capace di tradurre l’Eternità nell’Attimo e nel Tempo? Che senso ha postulare che non c’era neve, se la neve è – almeno nella nostra cultura – il simbolo stesso di ciò che protegge il seme e ne permette il nascere, e di quella innocenza che la nascita riversa sugli uomini, sul mondo, sulla vita?… Che senso ha poi recriminare sul luogo, Nazareth, Betlemme o altro, quando pastori, grotta e freddo sono diventati il simbolo della povertà richiesta alla grazia per manifestarsi e nascere?… Che senso ha la vita senza la sua totale, continua Trasfigurazione?
E allora – ce lo insegnano i fratelli Ortodossi – cogliamo tutto lo splendore, tutta la incipiente bellezza della liturgia, che del Mistero è il linguaggio profondo, cogliamo tutta la ricchezza e la verità della dogmatica, quando fissando una nozione nella sua dimensione archetipica, suggerisce il senso di una condizione ontologica profonda – il Mistero appunto –, impariamo a leggere l’articolata e variegata ricchezza del Simbolo – nel suo dispiegarsi – che ci introduce come una chiave alle Stanze dell’Assoluto… “La totalità della persona aderisce così alla verità non attraverso l’analisi, ma attraverso lo sguardo e la contemplazione, così da comprenderla lasciandosi illuminare da essa. Gregorio di Nissa diceva: ‘Le idee creano gli idoli, ma è lo stupore che ci fa capire’” (D. Rocchetti, “Due polmoni, un solo respiro”, Il Cenacolo (6), 2012).
Quanto al linguaggio scientifico, alla filologia, alle tecniche dell’interpretazione, essi sono parte essenziale del panorama conoscitivo e culturale in cui viviamo. È grazie ad essi che la nostra vita è più salubre, molti pregiudizi sono caduti, e la stessa evoluzione dello Spirito acquista prospettive nuove, inaudite…
E tuttavia non dimentichiamo che il mezzo non è il fine, e lo strumento non è la cosa, non è il prodotto finale. Insomma, il funzionalismo imperante è proprio l’esito di un atteggiamento pragmatico, operativo, forse economicamente vantaggioso, ma certamente non in grado di sostituirsi al linguaggio del senso o fine, della qualità o forma, e cioè del sapore o gusto che la vita ha quando incontra il suo fondamento, la sua ragion d’essere, la sua motivazione profonda. Ancora una volta, come voleva Hegel, arte, religione e filosofia sono le deputate a squarciare il velo e – se permettete – considerati i rischi che individualmente le attraversano, io credo che esse diano il meglio di sé quando procedono sinergicamente, e allora producono età organiche, grandi affreschi di civiltà, sorprendenti snodi della vita e del pensiero, teologie artistiche e filosofie teologiche… Ma a volte l’una o l’altra sono chiamate a soccorrere, a precedere, a fustigare devianze o suscitare novità…
Mai comunque, in questo transitorio mondo di ombre, in questo ibrido impasto di tutto e niente, potremo fare a meno del Raccontare, e i Grandi Racconti che lo Spirito suscita nelle Ere e nei Tempi storici (v. Heidegger) narrano da sempre la “Gloria di Dio” nella forma percepibile a quel popolo, a quella civiltà, a quel tipo d’uomo, attraverso una simbologia a lui adatta (è, del resto, quella che infatti è stato in grado di elaborare…!), e che vede prevalere ora la figura della Potenza, ora quella della Misericordia e Tenerezza, l’Immanenza o la Trascendenza, il senso del Tragico o dell’Armonia… E tali Racconti mostrano tuttavia (l’inconscio collettivo di Jung!) un sotterraneo sistema di relazioni e comunicazioni con tutti i miti, i simboli, gli archetipi e i credo della vicenda umana e intelligente, cosa che all’animo di un saggio, di un illuminato, o di un alter christus si configura come esperienza della pace o riconciliazione dei contrari nel loro Fondamento Assoluto.
Per questo, mentre ammiro e condivido quasi tutto del metodo di Vito Mancuso nel proporre una teologia per l’uomo di oggi, fondata sulla antropologia ed uno sguardo non rigidamente confessionale, empatico e universalistico, meno comprendo la sua esigenza di definire come vero o falso, e cioè in modo univoco e rigidamente binario, il significato di un dogma che, per sua natura, si configura come una specie di ologramma interpretativo, un’espressione simbolica che focalizza un’area o dimensione della verità, una esperienza della realtà. Un po’ come per la fisica non è possibile definire l’esatta collocazione di un elettrone, ma l’area di probabile presenza, e non si può pensare all’atomo se non come espressione di onde, e quindi di un’ulteriorità semantico-ontologica rispetto all’immediatezza del “dato”, “Dio” è sempre “oltre” il dogma, ma lo sono anche il mondo e l’uomo, che dei dogmi ha bisogno come delle immagini dell’arte e dei concetti della filosofia per evocare il Mistero che abissalmente e gioiosamente lo circonda, invade, travolge e coinvolge.
Capite perché non si tratta di sostituire una presunta verità ad un’altra presunta verità, ma di evidenziare aspetti diversi della medesima verità o, anche, del medesimo Mistero. Altrimenti si rischia di opporre intolleranza a intolleranza, dogma a dogma, integralismo etico a integralismo etico. Prendiamo il peccato originale, immagine che esprime una specie di ambivalenza di fondo della natura e della condizione umana: se ne esasperiamo e storicizziamo eccessivamente il senso, cadiamo in un determinismo etico banale, inquietante e cinico (i bambini non battezzati che andrebbero all’inferno…), se però liquidiamo tale categoria interpretativa negandone ogni legittimità, arriviamo ad opporre un dogma intollerante (quello del non-peccato originale), che semplicemente dichiara assurdo quanto, in forme diverse, diversi popoli (e non solo ebrei e cristiani) hanno individuato come un “vizio d’origine” o “sostrato oscuro” della condizione umana. Ciò che è oggetto dell’esperienza umana e della sua capacità di interpretazione o trasfigurazione teoretica e poetica (e quindi teologica) non è mai falso e tanto meno assurdo. Semplicemente è rivelazione, coinvolge le domande, lo stupore, l’elaborazione pratica di configurazioni simboliche che si delineano, per così dire, come esclamazione, canto, metafora e amorosa contemplazione del reale.
È la religione come benedizione, quella degli spiriti miti, degli obbedienti alla vita e alle relazioni, all’autorità e alla gerarchia, anche se talvolta borbottano delle incongruenze della vita e delle gerarchie. Ed è la religione oggi più disattesa ed emarginata, perché si preferiscono i due estremi dell’appartenenza, e dell’appartenenza filistea (quella che acutamente denuncia Mancuso a proposito di coloro per i quali è conveniente dichiararsi cattolici, per motivi sociali, politici o economici, senza che loro nulla interessi di quanto parrebbe coerente a ciò dal punto di vista della vita etica e cognitiva), o al contrario della invettiva profetico-moralistica contro l’esistente (Chiesa, istituzioni, credenti dichiarati…) in nome di un purismo etico, di una utopia dai contorni spesso intolleranti e dogmatici (quella che piace a non-credenti, a un certo tipo di “progressismo culturale” e di giovanilismo spirituale, che accetta la fede solo quando contesta la fede o almeno le sue determinazioni storiche…).
È la solita esigenza della spaccatura (Est-Ovest, Islam-Cristianesimo, Nord-Sud, Destra-Sinistra…), appagante i narcisismi immaturi nella fede (integralisti e “progressisti”), nell’ambito etico (rigoristi e libertari), o politico (allo stato etico il ’900 ha gradualmente sostituito i partiti etici, che si lanciano reciproche scomuniche e perseguitano gli eretici…). Il futuro che viene mi auguro sia invece del pensiero olistico, ambivalente, misterico, circolare e redentivo. Un pensiero benedicente! Uno sguardo empatico e caldo. Un abbraccio di cuore e mente.
Ecco perché il Sacro, con il suo carico di teoremi e visioni, di emozioni e passioni, di speranza e timore mi attira a sé, e costituisce la mia vocazione più intima, radicale, irreversibile. Ecco perché – da praticante pluridecennale della filosofia – lo colgo nelle “statue vestite e da vestire” di Verdello, e delle sue tradizioni domestiche e contadine, nel suono delle campane la mattina, nelle processioni e nelle benedizioni eucaristiche della mia infanzia, nel dogma dell’Assunta e, anche, in quello più oscuro e tormentante del “peccato originale”, negli stendardi e nei drappi, nei santi di gesso, legno e cartapesta delle devozioni popolari, nelle indulgenze e nell’acqua santa…
Un grande circo, per qualcuno, quello dell’immaginario cattolico. Una grande theoria della contemplazione per altri e per me – che mi conduce alle soglie del Mistero, ove lecito è soltanto il silenzio e lo stupore, il canto muto della lode.
Non a caso, respiro la stessa atmosfera “circense”, evocativa, fantastica e infantile nell’immaginario del mio “popular”, di quel mondo che indago e da cui mi lascio affascinare sin da bambino, quello della canzone, del varietà, della televisione, dei rotocalchi, del cinema. Ma fatico a fare sintesi immediate, viviamo nel mondo della dicotomia ove sacro e profano si contrappongono. E il “popular” che io vado studiando appartiene indubbiamente a quel “profano”… Dunque, da dove partire?
Proviamo a partire da Gesù, che ispira da sempre la mia spiritualità, ricordandoci che lui amava il “popular”, si rivolgeva ai marginali del suo tempo, alla gente semplice, a pastori, pescatori, contadini, esattori delle imposte, prostitute, centurioni romani, lebbrosi, malati, emarginati e stranieri, donne alla base della piramide sociale, magari scoperte in flagrante adulterio e punite per legge. E non aveva alcun feeling per intellettuali e teologi del tempo (farisei, scribi, sadducei…), per le loro sottili disquisizioni “radical chic” e “politically correct”; detestava proprio il purismo, l’eccesso di formalizzazione, la lontananza astenica dalla vita e dalle sue passioni, insomma quelle qualità o caratteristiche che ancor oggi contraddistinguono spesso le classi dirigenti (europee e occidentali in genere…) e la loro presunta sobrietà, che è spesso mancanza di energia vitale e di autenticità morale.
Forse per questo Pasolini ha dato una memorabile interpretazione del “Vangelo secondo Matteo”, don Lorenzo Milani ha fornito il meglio di sé nella elaborazione di una esperienza popolare di scuola a Barbiana, mentre Giovanni Paolo I, nei suoi pochi giorni di pontificato, ha parlato ai fedeli di un Dio che è Madre con la semplicità del Curato d’Ars, e Madre Teresa in India è stata folgorata dalla bellezza dei moribondi che ha raccolto per le strade di Calcutta…
Sì, anche io preferisco l’ibrido, l’impasto di materia e spirito, di pensiero e vita, di emozione e fantasia, l’eccesso sprigionato dalla speranza, l’esubero dello slancio e quindi la materia che si configura come maschera, ricettacolo, calco dello spirito. Condizioni che il “popular” – nel suo vibrare all’unisono con la vita concreta e le sue molteplici, magmatiche e imprevedibili manifestazioni attuali e reali – rispetta, valorizza, promuove, e di per sé sempre esprime in modo e in forma eminente, paradigmatica, esemplare. E basterebbe riandare al Discorso della Montagna o delle Beatitudini per avere di ciò una ricca e articolata fenomenologia antropologica.
Ecco perché l’arte è sempre “popular”, da Omero a Verdi, da San Francesco e Dante a Walt Whitman, da Giotto a Basquiat, da Johan Sebastian Bach a Bruce Springsteen… Ecco perché non ho trovato contraddizione nell’occuparmi tanto di teologia e spiritualità quanto di musica leggera, televisione e intrattenimento. I giullari di Dio sono come i bambini che bisogna diventare per entrare nel Regno dei cieli. E ciascuno di essi è come una maschera di Dio, un gesto del suo amore, uno sguardo della sua benevolenza, una manifestazione della sua gloria e della sua gioia…
Ecco perché – considerato quanto poco la Chiesa Cattolica in Italia riesce a valorizzare i laici con una preparazione teologica e una motivazione spirituale – lo spectaculum (a qualcuno ciò accade in riferimento a quello “naturale”, a me è accaduto rispetto a quello “artificiale” dell’intrattenimento) mi ha attratto a sé come un ambito in cui la meraviglia della bellezza – o quantomeno la sua ostinata, a volte ingenua, ma autentica ricerca – non di rado si fa cifra, manifestazione di quella Gloria che von Balthasar, il grande teologo da poco scomparso, vede appunto come epifania estetica ed estatica. Lo spectaculum, nello spettacolo umano di arte varia (musica, poesia, immagini, danza…), si configura allora come paradigma trasfigurato o theoria della Storia, proprio come la liturgia è, nello specifico linguaggio istituzionale del sacro, theoria escatologica o della Trascendenza… L’ordine che lo spectaculum del “popular” produce diviene quindi parte di quel processo di organizzazione, elevazione, sublimazione della natura e del mondo (o materia…), che è compito specifico di ogni uomo e di ogni uomo che sia anche cristiano…
Ecco perché il “sacro” è “popular” e lo “spectaculum” è “teologia” nel senso più forte di una prassi rivelativa (secondo la visione giovannea o dei Vangeli dell’infanzia di Luca), e al contempo attuativa dell’imperativo paolino “ut Deus erit omnia in omnibus”.

(Da C. Sottocornola, Stella Polare, Marna 2013)

Foto di Enzo Giacone.