Elvis Presley ritratto da Claudio Sottocornola

elvis-presley-10

CLAUDIO SOTTOCORNOLA.

Si fa un gran parlare del rock e dei suoi miti, forse perché la cultura americana è una cultura di massa, e chi voglia capire il mondo in cui viviamo non può ignorarla. Lo aveva intuito Andy Warhol, profeta della pop art, con le sue reiterate icone di Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Elvis Presley. Lo hanno capito oggi quelli della Avon Books, in America, realizzando un mastodontico catalogo della cultura di massa, «The whole pop catalogue», in cui ne figurano gli archetipi, da James Dean a Betty Boop, da Elvis Presley a Nembo Kid e alla Coca Cola. Ma è il volto di Elvis a dominare incontrastato la scena della cultura pop-rock, tanto che sarà stampato su un francobollo da 29 centesimi il prossimo 8 gennaio, cinquantottesimo anniversario della sua nascita, naturalmente negli Stati Uniti. Pensate che per la scelta dell’immagine migliore è stato indetto un referendum cui hanno partecipato 1.200.000 persone, schierati in campo anche Bush e Clinton. A quindici anni esatti dalla scomparsa, il mito del «re del rock» continua a vivere.

Una ragione c’è. Carl Perkins, l’autore della mitica «Blue Suede Shoes», alla morte di Elvis, avvenuta nel 1977, ebbe a dichiarare: «Con lui è morta una parte d’America. Era stato accettato come l’Empire State Building e la Statua della Libertà». E anche quest’anno, nell’anniversario della scomparsa, Graceland Maison, la residenza dove il cantante visse e morì alle porte di Memphis, è stata oggetto di un pellegrinaggio ininterrotto, con cortei notturni di lumini accesi, corone di fiori coloratissimi e santini con la faccia di Elvis. Per l’occasione la Rca ha messo in commercio un cofanetto, che raccoglie 140 incisioni del cantante, «Elvis: the Complete 50’s Master». Intanto la letteratura sul «re del rock», genere biografico, si moltiplica in modo ipertrofico.

La biografia più nota è quella di Greil Marcus, «Dead Elvis», pubblicata negli States dalla Doubleday: sottolinea che il vero Elvis è formato da «…echi, non fatti», e afferma che gli Elvis Presley dell’immaginario collettivo sono tanti e diversi, ma che tutti ridisegnano una nuova immagine dell’essere americano. Quella di Goldman è demistificante: Elvis non si lavava, negli ultimi anni aveva comperato 250 pistole, ossessionato dalla fine di Sharon Tate, viveva praticamente blindato. Dal canto suo, la matrigna, Dee Presley, lo dipinge come amante senza scrupoli, morbosamente attaccato alla madre, assuefatto agli stupefacenti.

Il fatto è che Elvis aveva tutto e il contrario di tutto per regalare all’America degli anni ’50 e ’60 l’immagine di un moderno «eroe mitologico». Nato a Tupelo, nel Mississipi, il giovane Elvis cresce in un quartiere dove è forte la presenza della gente di colore; subisce così l’influenza del rhythm and blues e dei gospel, insieme alla musica di Frank Sinatra diffusa dalle radio. Presto la famiglia si trasferisce a Memphis in cerca di benessere, Elvis fa l’autista di camion e canta per divertimento. Quando, ancora diciottenne, incide il suo primo disco a proprie spese, presso gli studi della Sun Records, è notato da Sam Phillips, che si accorge di avere un asso nella manica: un ragazzo con la pelle bianca e la sensibilità da nero.

Elvis, soprattutto, appare dotato di un magnetismo irresistibile: immagine accattivante, sguardo languido e intenso, movimenti maliziosi delle gambe e del bacino (lo chiamano «The pelvis»). Nel ’56, ingaggiato dalla Rca Victor, viene preso sotto la protezione di Tom Parker, abile e dittatoriale manager che, semplificandone l’immagine troppo «arrabbiata», sottolinea il lato romantico della sua personalità, la voce calda e suadente. Ed è presto ai vertici della hit parade (ricordate «Love me tender»?).

Presley non è solo un mito discografico, ma anche cinematografico, come testimonia la lunga serie di film che la televisione italiana ha recentemente ritrasmesso, per la delizia dei fans, armati di videoregistratore.

Dopo il servizio militare presso la base Nato di Friedberg, in Germania, Elvis fa ritorno in un’America cambiata: sono gli anni ’60, il rock and roll è in crisi, incalzato da nuove mode, e al suo «re» non resta che adattarsi a un repertorio più melodico infarcito di classici, celeberrima «It’s now or never», versione americana di «O sole mio». Ma è proprio il cinema, con i 27 film di successo girati, a diventare il trampolino di lancio di tanti Lp: precorrendo i tempi, immagine e suono si fondono per creare un mito di massa. Elvis vive come qualche protagonista delle sue pellicole, diviso fra la lussuosa villa di Hollywood e luoghi esotici da sogno come Honolulu, mentre le esibizioni dal vivo cessano.

Gli anni ’70 vedono il «re» ingrassato e un po’ invecchiato, tornare «on the road», partenza da Las Vegas, con più di mille esibizioni nel circuito dei grandi hotel, anche se il repertorio scivola inevitabilmente verso cliché più tradizionali e di consumo. Lo spettacolo continua, con pallettes e anelli d’oro, fino al 1977, anno della repentina scomparsa per attacco cardiaco. Da tempo il cantante aveva preso ad abusare di farmaci, droghe, alcool, per combattere lo stress e la tendenza a ingrassare.

Elvis, moderno mito del rock, ha vissuto in sé le contrastanti aspirazioni dell’America di questo secolo, e ha prestato loro il suo volto ambiguo: gusto per la trasgressione e attrazione per le forme vili dell’esistenza (forse, tutto il rock sarebbe piaciuto a Rimbaud), energia barbara e priomordiale; ma anche, immagine di «bravo ragazzo» offerta, nel cuore degli anni ’50 e ’60, alle nostalgie e alle speranze dei giovani della middle class americana. Il suo inveterato patriottismo poi non può che essere la naturale e orgogliosa espressione di un popolo che vede rafforzarsi il proprio ruolo di superpotenza mondiale, sullo sfondo della «guerra fredda».

Pensate che il «re del rock» sognava di diventare agente dell’Fbi. Nel ’70, chiese di essere ricevuto da Nixon, ottenendo la promessa di poter collaborare alla sezione narcotici con lo pseudonimo di «colonnello Jon Burrows», ma pare che nessuno lo prese mai sul serio.

La storia di Elvis sembra uscita da un fotoromanzo della serie «belli e dannati»: c’è tutta la migliore mitologia americana, compresa la filosofia spicciola che ogni cosa ha un prezzo.

(da: Claudio Sottocornola, Varietà. Taccuino giornalistico: interviste, ritratti, recensioni, approfondimenti, ricerche su costume, società e spettacolo nell’Italia fra gli anni ’80 e ’90, Marna editore, 2016. Margutte ne parla QUI)

articolo pubblicato originariamente nella rubrica di musica “Il pentagramma di Orfeo” il 16 agosto 2017