Il gioco delle sinapsi

(da Wikipedia)

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GABRIELLA  VERGARI.

La schiavetta che mi introduce nel cubiculum  potrebbe benissimo uscire da una delle pagine delle Metamorfosi di Apuleio. Faccio dunque fatica a ricordare che non siamo sotto Adriano né, se è per questo, sotto i Flavi, benché la raffinata decorazione della domus sembri in qualche modo anticipare figure e motivi  pompeiani.
Fuggevole (com’è già di suo), mi percorre la mente l’immagine di Flora nell’affresco di Stabia mentre lieve sfiora l’erba, ma il ritratto di Appio Claudio Cieco che sullo sfondo campeggia, austero e severo (bieco?), mi riancora subito alla realtà.
Avverto un brivido: sto per incontrarla!
Riesco a stento a crederci e per questo sulle prime quasi non la scorgo.
Ciò che mi e la circonda è già un’emozione indescrivibile che eripit sensus mihi. Sono prossimo all’afasia ed al morire (ma questo non lo diceva Saffo?).
Mi  viene in mente il mio professore, il liceo, il profumo di una giornata d’aprile, il sole che filtra tra le stecche delle persiane slentate a baciare una nuca bionda, delicata e china a sfogliare l’IL con mano febbrile.
Chi sono? Sono un poeta.  Che c’entra adesso Palazzeschi?
Non sta andando affatto bene.
Devo tornare in me e riprendermi in fretta. Ma non è mai stato tanto difficile.
Mi sembra di essere entrato nel tempio stesso di Venere e che gli Eroti ed i Cupidi mi danzino intorno. Avverto perfino un cinguettio. Possibile mai? Che sia davvero quel passero, deliciae meae puellae, su cui avevamo un giorno ferocemente sghignazzato coi compagni, scanzonatamente inconsapevoli delle malae tenebrae, che l’avevano rapito insieme a tutto ciò che è bello?
Con la coda dell’occhio colgo un movimento ed un leggero frullio. Non si tratta allora di suggestione, un uccellino c’è davvero, a zampettare sul bordo di una piccola fontana di cui ora avverto anche scorrere l’acqua, insieme alla fragranza dei fiori che la profumano. Penso ad un cardellino (vivida, mi compare una  Madonna) ed infine la distinguo, adagiata sul triclinio con una grazia naturale ed insieme straordinaria, da cui non riesco quasi più a distogliere lo sguardo.  Il panneggio della  morbida tunica (in un fulmineo banner mentale mi scorrono davanti Fidia, il panneggio bagnato, i fregi del Partenone, il British Museum, persino Lord Elgin) non arriva a coprirle la caviglia bianchissima, fissata per sempre nella memoria  collettiva come un’immagine di pura luce e sensualità.
Mi sorride e davvero mi sento simile ad un dio, quindi mi fa cenno di accomodarmi, mentre dal nulla arriva una schiavetta con una coppa di Falerno (non poteva mancare Orazio, mi dico). Sorseggio il vino leggendario, estasiato di poterne scoprire una buona volta il sapore, e mi volgo in giro a scorgere il Soratte innevato o le lucerne, ma subito dopo rammento che non sto partecipando ad un simposio e che in teoria dovrei prendere in mano la situazione. Davvero però in presenza di questa donna non si può che lasciarsi trasportare.
«Vivamus, mea Lesbia, atque amemus» mi sento perciò di sussurrare mentre i suoi occhi si accendono in un lampo di fastidio. Che temperamento! Non oso immaginarla incollerita, eppure deve essere successo molte e molte volte. Malest Cornifici tuo Catullo: ahimé, povero Gaio Valerio, rifletto tra me e me, solidale.
«Ecco che ci risiamo!» Così, senza formule d’apertura o convenevoli, la sua esclamazione mi spiazza (ammesso che tutto il resto non l’abbia già fatto).
«Ci risiamo?» faccio eco perplesso, con buona pace di tutto il cappelletto che avevo preparato nel mio miglior latino similciceroniano  «Ma in che senso, scusi?»
«Lei non riesce a vedermi.»
Si sbaglia, assolutamente: non sto facendo altro da quando mi è apparsa e ad essere sincero mi piacerebbe non smettere più.
«Come tutti voi uomini, lei non sa vedere la Clodia persona, la donna che sono, al di là del desiderio, delle categorie e degli stereotipi di genere che avete creato. Puella o meretrix, madre o demonio, non è forse così?»
Stereotipi di genere? Dove diavolo l’ha sentita questa? E che ne sa di proto-, vetero- o neo-femminismo (veloce, mi si affaccia alla mente Olympe de Gouges). Decisamente quest’incontro sta mettendo le mie sinapsi a dura prova. Tento perciò con un approccio diverso, più morbido e vicino al mio intento iniziale: «Mi lasci ringraziarla: è con lei che io ed altre migliaia di adolescenti abbiamo scoperto l’amore.»
Scoppia in una risata argentina, una cascata di perle.
«Non c’erano compagne carine, ai suoi tempi?»
«Altroché, appunto per questo. Attraverso …» mi fermo in tempo e mi mordo la lingua. Accidenti, ha ragione. Non è Clodia che abbiamo conosciuto, ma Lesbia, la Lesbia di Catullo.
«Visto, che le dicevo?  Per quanto ne sappiate, potrei essere una finzione poetica, una mera proiezione dell’immaginario.»
«Impossibile!»  sbotto.
Sto cominciando ad irritarmi. Questa è una donna abituata a tener testa. La preferirei adagiata sul triclinio a giocherellare, languida, con un ricciolo (d’accordo, me la sono voluta, mi dico mentre aspetto, rassegnato, che l’evocazione di Berenice faccia il suo corso nella mia mente). «Mai vista una proiezione più viva. Noi la sua carne – mi lancia un’occhiata elequente – e le sue ossa – recupero in fretta le abbiamo sentite pienamente. E nessuna donna può dirsi d’essere stata amata di più…» quasi mi commuovo, odi et amo, mi sorprendo in pieno transfert emotivo.
«Ne è proprio sicuro?» Per un attimo le si velano gli occhi d’una nota malinconica. Com’è desiderabile e lontana!
«Lei lo ha maciullato, come ha potuto calpestarlo …»
«Velut prati ultimi flos …» dice in un soffio.
«Ed era malato…» aggiungo meticoloso, come depennandolo dall’elenco di tutto ciò che è dai tempi dell’adolescenza che vorrei rinfacciarle. Vorrei che la pagasse per Catullo e per tutto quello che gli uomini innamorati hanno subito dalle donne che li hanno distrutti ed annientati. Potrei divenire Cicerone che imperversa dal foro, accusandola di essere una donna ben nota. Mai come ora mi sento parte del branco maschile e potrei azzannarla. Faccio per alzarmi, ma la sua mano mi ferma. Resto sospeso, in balia di sentimenti contrastanti, eppure certo di una svolta del nostro incontro.
«Si calmi,» infatti mi esorta «e provi adesso a sentire semplicemente me, la donna che le sta davanti, non l’icona, la musa, la nemica, la puttana, solo la donna. Pensa di poterci riuscire?»
Confesso che non lo so. Aspetto.
«Di lui sapete: era un poeta. Magnifico, finissimo, raro. Ma era anche un uomo, giovane, passionale, e mi voleva per sé, in una forma che alla lunga mi stava soffocando. Ha notato quante volte mi chiama sua?»
«Ma le aveva offerto la fides, il valore più alto tra gli amanti, e lei l’ha  infranta» sottolineo incalzandola. Mi piacerebbe sentirla ammettere la sua superficialità, sentirla balbettare delle scuse. «Era in fondo un valore maschile, strappato dal mondo della milizia e dei tribunali e tradotto in progettualità quotidiana. Ha dimestichezza con gli epitafi?»
Con gli epitafi? Ma dove vuole arrivare?
«Perché mai dovrei averne?» rispondo sinceramente  incuriosito, mentre in un istante l’attenzione mi si sposta verso  un fiume americano.
«Basta che ne legga un paio dei nostri, per poter capire. Loro, gli uomini, condottieri, magistrati, letterati, ricoperti di gloria e di onori. Noi, le donne, a filare la lana ed allevare figli. Si è mai accorto di quanto silenzio ci abbia circondato? La nostra voce non vi è mai giunta diretta, sempre e soltanto filtrata, raccontata, interpretata dagli uomini. Che prospettive mi offriva, dunque, la sua fides? Sarei rimasta vincolata come in un matrimonio. L’avevo già provato e mi era bastato: non ero Lucrezia né univira. Aspiravo ad essere libera. Non potevo frequentare il foro o la Curia,  cimentarmi in politica. Ai maschi si concedeva di tutto, ed alle donne? Rischiavo di annoiarmi e lo temevo. Se lui mi avesse amato davvero avrebbe saputo accettare qualche mia … distrazione. Ma gli uomini si sbigottiscono davanti al libero esercizio della sessualità femminile. E tuttavia amare» risento la colonna sonora di Love Story  «non è certo imprigionare, chiudere, possedere.»
«Insomma …»
«Ḕ accettare l’altro per come vuole essere ed è. Non certo ricoprirlo di disprezzo e rancore. Non  infangarlo per sempre con quel simul complexa
Come darle torto? Risento piena la potenza dello spezzando le reni ai suoi trecento amanti mentre li abbraccia tutti insieme, che il nostro professore ci aveva tradotto non senza una punta di ritegno.
Accipicchia, non ci avevo mai pensato, questo potrebbe mutare le prospettive.
Non so più che rispondere e taccio un po’ impacciato.
Discreta, entra nella stanza una schiavetta a sussurrarle qualcosa all’orecchio. Percepisco un suono come De Bergerac, ma sono certo di sbagliarmi. Capisco che è arrivato il momento del congedo.  Difficilissimo alzarmi ma dopo un po’ riesco ad imboccare la porta.
Vale atque vale, mi affiora alle labbra, ma non è il carme per il fratello.
Decisamente oggi le mie sinapsi non ne vogliono sentire di funzionare a dovere!

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