Guerre (forse un po’ meno di vent’anni fa)

francescoscopelliti

FRANCESCO SCOPELLITI.

Essere bambini in quel piccolo paese era divertente, non eravamo in città, non eravamo chiusi nel recinto. Le scuole elementari a tiro di passo, un piccolo bus che faceva il giro delle valli. Maestri unici, quello che ti capitava ti capitava. Insegnamenti tutti: italiano, storia, matematica e gioco del pallone. Pomeriggio in piazza, biciclette senza rotelle, irriverenza, dispetti, argento vivo.
Eravamo bestie, cuccioli, senza recinto, appunto, e come cani ammaestrati la sera si veniva richiamati con un urlo o un fischio dal balcone.

Non ricordo quale dissapore ci costrinse alla guerra. Forse, un malinteso nella tratta delle armi di cartone? Forse, quel furto di capitale legato al malloppo di soldi del Monopoli?
Non mi ricordo i passaggi diplomatici, ma la rottura tra noi di quinta elementare e quelli di quarta divenne insanabile. Ci eravamo dati appuntamento «al lampione», un luogo lungo il fiume, dietro la parrocchia, per le tre del sabato. Ricordo che i giorni precedenti allo scontro ragionammo intensamente sulla strategia e il tipo di armi da impiegare: bastoni, canne di bambù, legni in generale. Tutti convenivano che le pietre, che erano sicuro l’elemento più doloroso, non garantivano il giusto effetto scenico. Noi volevamo uno scontro organizzato tra milizie e non un semplice tafferuglio. Era necessario corazzarsi. Se era pur vero che noi eravamo più grandi e avevamo R., che in quinta elementare era già grosso come uno di seconda media, loro erano due in più e anche notevolmente più irrequieti. Quindi, abbozzammo con grande anticipo temporale una bardatura alla tuta bianca: cartoni e caschetti da bici, polsini e plastiche, tutto ciò che si trovava.
Il clima era elettrico, ci eravamo visti un po’ più su rispetto al campo di battaglia, sul rampone per San Paolo. Coperti, sotto le volte dei caruggi, preparavamo i nostri corpi e le nostre menti allo scontro. Io avevo un bastone molto duro, lo avevo trovato nei paraggi di casa, era un ulivo. Non il casco, che non possedevo, ma alcuni polsini corti e uno lungo sul gomito destro.
Il campanile suonò le tre. Ten! Ten! Ten!
Scendemmo di carruggio in carruggio in fila indiana, silenziosi. Nella cianca, il piccolo lungo-fiume dove si trovava il lampione, non c’era nessuno. Il secco sole primaverile si spandeva a piacimento sui ciottoli. Restammo in fila, allineandoci lungo la strada e formando un cordone. La faccia da piccola teppa intenta a guardarsi attorno. All’improvviso si sentì un coro lontano che si faceva via via più forte: –
A quelli di quinta gli facciamo il culo! A quelli di quinta gli facciamo il culo! –.
Comparvero un centinaio di metri subito dietro la curva, venivano giù dalla strada degli orti. Intruppati tipo testuggine. Brandivano bastoni e canne, roteavano corde. Neanche il tempo di salutarsi e fu subito scontro.
Non ricordo bene le dinamica, ma divenne subito un fuggi fuggi, un comporsi e un ricomporsi. Poi si finì sull’uno contro uno, poi di nuovo lotta di massa. Dal duello antico alla guerra dei trent’anni, senza soluzione di continuità, lo scontro risalì lungo il fiume e finì quasi oltre il paese. Erano stati più fantasiosi quelli di quarta, molti di loro avevano cappelli militari, forse rubati ai padri cacciatori, forse, e B. si era portato un sacchetto di farina che cercava di soffiare negli occhi dei nemici per accecarli.
Vincemmo noi. L’ultimo atto fu quello di me, R. e K. che minacciavamo di buttare D. e B. nel fiume.
Piccole esperienze di guerra.

laviadellagave

“Guerre” è uno dei racconti di “La via dell’agave”, di Federico Scopelliti, pubblicati in eBook dalla casa editrice digitale Matisklo Edizioni.
La Via dell’Agave è il Ponente ligure, quella striscia di terra schiacciata tra il mare e la montagna; quella terra arsa, piena di agavi e di piante grasse messe in ogni dove, quel western mancato, dove moderni indiani e cowboy combattono per avere dignità, una casa, un lavoro.
La Via dell’Agave, però, è anche il ritratto di un paese, l’Italia, che pare vagare totalmente allo sbando senza direzione e di una generazione rimasta senza appigli, schiacciata tra le memorie del posto fisso e il miraggio di un futuro sempre più incerto. Una generazione che resiste, nonostante tutto; resiste all’incertezza, alla precarietà, allo sconforto. Resiste a se stessa e alla tentazione, troppo facile, di lasciarsi andare. Una Generazione Agave che cerca di fiorire nonostante il paesaggio, attorno, le sia ostile.
“In questo tempo postmoderno, che non sarà neppure ricordato come un periodo buio; con la dignità di un medioevo ridimensionato, che non conosce sovrani al di fuori delle banconote, ci resta da recuperare solamente qualche ricordo. Tanti racconti che non insegnano nulla, se non la loro stessa memoria.”
Geraldina Colotti li definisce nella prefazione “acquerelli di bosco e di frontiera, piccoli tocchi in punta di penna: come quelle ferite minuscole che però poi non smettono di sanguinare.”

Francesco Scopelliti nasce ad Imperia il 21/12/1982. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Dolcedo, piccolo borgo dell’entroterra. Escluso il periodo universitario svoltosi a Torino è sempre stato in Liguria, territorio che ancora oggi lo stupisce, affascina, ispira, ferisce, benché ne sia un figlio bastardo in quanto calabrese da parte paterna. Di professione contadino e giardiniere, il CSA La Talpa e L’Orologio è la sua casa. Ha pubblicato i romanzi “L’Impero e l’imperatore” e “Amarti da morire” per ennepìlibri, il racconto “Un passo, un altro” nella raccolta “Parlami d’Aurelia” per Diabasis edizioni ed il racconto “Manetta” nella raccolta Papel n.2 per edizioni Zem, più svariati racconti auto­prodotti grazie ad amici e compagni.

Matisklo è la parola