I colori degli antichi. Opsine, pigmenti e parole oscure – seconda parte

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PAOLO LAMBERTI.

I colori di Plinio il Vecchio  e quelli del mondo classico

L’autore più influente per la nostra percezione dei colori del mondo classico è Plinio il Vecchio, che nella sua Naturalis Historia dedica il libro XXXV alla pittura, ma trattando dei metalli nel XXXIV tocca anche qui il tema dei pigmenti. L’opera è un mix di compilazione ed esperienza, e non è sempre chiara, anche nel latino, il che ha comportato la tendenza ad isolare passi più incisivi rispetto alle parti più tecniche.
Particolarmente significativi per la nostra percezione del mondo antico, ma ancor di più per la storia della pittura moderna, sono due passi.
Il primo diventa centrale sul tema del prevalere della linea: «Parrhasius Ephesi natus et ipse multa contulit. Primus symmetrian picturae dedit, primus argutias voltus, elegantiam capilli, venustatem oris, confessione artificum in liniis extremis palmam adeptus. Haec est picturae summa suptilitas. Corpora enim pingere et media rerum est quidem magni operis, sed in quo multi gloriam tulerint; extrema corporum facere et desinentis picturae modum includere rarum in successu artis invenitur».
[Parrasio, nato a Efeso, dette anche lui un grande contributo al­la pittura. Per primo le dette la simmetria, per primo curò i particolari del viso, l'eleganza dei capelli, la bellezza della bocca, e per riconoscimento degli altri artisti conquistò il primato nelle linee di contorno del corpo: e questo costituisce, in pittura, la massima raffinatezza. E infatti opera di grande perizia dipingere i corpi e le parti interne degli oggetti, ma in questo ambito molti hanno riportato la gloria; invece rappresentare i contorni dei corpi e racchiudere entro un limite la modalità di scorcio dell'immagine, là dove essa si va perdendo, questo è un risultato che si ottiene raramente nell'arte.] Plin. Nat. Hist. XXXV, 67
Grazie al prestigio dell’antichità, da Giotto al Rinascimento fiorentino sino al Neoclassicismo i sostenitori del primato del disegno sul colore hanno guidato la storia dell’arte moderna.
Ma il passo più curioso, che tanto ha contribuito alla nostra visione di un mondo classico in bianco, è: «Quattuor coloribus solis immortalia illa opera fecere – ex albis Melino, e silaciis Attico, ex rubris Sinopide Pontica ex nigris atramento – Apelles, Aetion, Melanthius, Nicomachus, clarissimi pictores».
[Con soli quattro colori fecero quelle opere immortali – dei bianchi il melino, dei gialli l’Attico, dei rossi la terra di Sinope del Ponto, dei neri l’atramentum – Apelle, Ezione, Melanzio, Nicomaco, famosissimi pittori;] Plin. Nat. Hist. XXXV, 50
Il quattro ha sicuramente ascendenze platoniche, e il passo ha sviluppato nella pittura occidentale una scissione tra il colore, disponibile in forme sempre più numerose, e l’uso accettabile della paletta cromatica. Culmine di questa scissione il “secolo di ferro” tra 1550 e 1650, con le tinte cupe dei Rembrandt e Van Dyck e l’approdo del costume maschile (ma non solo) al nero e al grigio. A cui il Settecento opporrà il bianco neoclassico di Winckelmann e Canova.
Eppure le odierne ricostruzioni dei monumenti antichi ci portano in un mondo multicolore sino a quella che oggi ci sembra volgarità e pacchianeria: si vedano i colori dell’Augusto di Prima Porta o dell’Atena di Fidia, oppure la ricostruzione del Partenone e del Tempio Capitolino, accostate ad esempio al Caesar’s Palace di Las Vegas.

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Eppure Plinio ci aveva avvertito di questo: basta un solo passo: «Sunt autem colores austeri aut floridi. Utrumque mixtura evenit. Floridi sunt … minium, Armenium, cinnabaris, chrysocolla, Indicum, purpurissum; ceteri austeri. Ex omnibus alii nascuntur, alii fiunt. Nascuntur Sinopis, rubrica, Paraetonium, Melinum, Eretria, auripigmentum; ceteri finguntur, primumque quos in metallis diximus, praeterea e vilioribus ochra, cerussa, usta, sandaraca, sandyx, Syricum, atramentum». [I colori poi sono austeri o floridi. L’uno e l’altro tipo si ha per natura o per mistura. Sono floridi … il minio, l’Armenium, il cinabro, la crisocolla, l’indaco, il purpurissum, gli altri sono austeri. In ogni tipo alcuni si trovano allo stato naturale, altri si fabbricano. Si trovano allo stato naturale la terra di Sinope, la rubrica, il bianco Paretonio, la terra di Melo, la terra di Eretria, l’orpimento; tutti gli altri si fabbricano, e  in primo luogo quelli menzionati tra i metalli, poi, tra i più comuni, l’ocra, la biacca e la biacca bruciata, la sandracca, la sandyx, il Siriaco, l’atramentum.] Plin. Nat. Hist. XXXV, 30
Si tratta di un elenco impressionante delle tavolozze antiche, ma soprattutto testimonia l’importanza della tecnologia dei colori; nell’edizione curata da Conte dell’opera pliniana vengono date le descrizioni moderne dei materiali:
minio (rosso) è solfuro di mercurio (HgS);
l’armenio è blu di azzurrite (2 CuCO3. Cu(OH)2);
cinnabaris è la resina rossa dei frutti del calamus draco W. e delle piante simili della famiglia delle palme
crisocolla è verde di malachite (CuCO3. Cu(OH)2);
l’indaco (blu-nero) è ricavato dal glu­coside di ingorifera (CI4HI7O6N 3H20) e da altre sostanze vegetali;
il purpurissum (rosso) è prodotto fissando  la sostanza colorante di murice sulla creta argentaria;
la terra di Sinope è un’ocra rossa con presenza predominante di ossido ferrico (Fe203);
la rubrica (rosso) è una terra rossa ricca d’argilla a base di  ossido ferrico;
il bianco Paretonio è un carbonato di calcio (CaCO3) con quantità di silicio (SiO2), Magnesio (Mg), fosfati (PO4) e sostanze organiche;
la terra di Melo (bianco) è carbonato di calcio di origine sedimentaria e formato da resti microscopici di organismi unicellulari;
la terra di Eretria  (bianco) è una creta silicea;
l’orpimento (giallo) è solfuro naturale di arsenico (As2S3);
L’ocra è limo raccolto nelle miniere d’argento;
la biacca (bianco) è costituita di carbonato basico di piombo (2 Pb CO3 Pb (OH)2);
la bruciata (bianco) è ossido salino di piombo (Pb3 O4);
la san­dracca è solfuro di arsenico (As2 S2);
la sandyx (rosso) è l’esito di sandracca e rubrica fuse in parti uguali;
il Siriaco (rosso) è costituito di sandyx e terra di Sinope;
l’atramento (nero) è solfato di ferro (Fe SO4. 7H20) o di rame (CuSO4 5H20):
La creazione e la stabilizzazione dei pigmenti nel mondo antico si basa sulla metallurgia e sulla tintura dei tessuti. La lavorazione dei metalli tramite arrostimento e macinazione è la fonte principale dei pigmenti di origine minerale. Ad esempio il diverso grado di calore produce prima l’ocra rossa poi quella gialla, mentre la finezza della macinazione aumenta l’intensità di tonalità dell’azzurrite dal celeste spento della macinazione grossolana al blu intenso di quella fine.
Per le sostanze invece di origine vegetale ed animale l’esposizione al calore è secondaria rispetto alla stabilizzazione dei pigmenti tramite mordenzatura, tecnica tipicamente tessile che usa prevalentemente l’allume e permette di fissare le tinture all’interno del tessuto. Mentre la tecnica dell’affresco, già presente nel mondo classico, usa la calce per formare con l’aria il carbonato di calcio, che ingloba il pigmento.
Le tecniche della metallurgia già nell’antico Egitto portano allo sviluppo di molti dei pigmenti fondamentali per il mondo antico, ma usati sino all’età moderna. Ad esempio dal piombo esposto all’aceto si otteneva l’acetato di piombo, che, esposto all’anidride carbonica prodotta dalla fermentazione del letame, si trasformava nel carbonato  basico di piombo, ovvero la biacca, il pigmento più diffuso per il bianco (anche per la cosmesi, purtroppo). Ma dalla biacca, arrostita, si ottenevano a bassa temperatura il litargirio, ossido di piombo giallo (PbO),a temperatura più alta il minio (Pb3 O4.)
Reazioni più complesse dettero origine al blu egizio (fritta), molto usato sino a tempi recenti perché meno caro non solo del lapislazzulo ma anche dell’azzurrite. Ottenuto fondendo silice (sabbia), malachite (rame) e calcio (gesso) diventa ancora per noi il colore simbolo dell’antico Egitto.

 Sinfonia in bianco e nero

Per noi il nero è assenza di colore, e il bianco, newtonianamente, la somma neutra dei colori.
Nel nostro simbolismo il bianco e nero è opposto al colore: già nell’arte incisioni e litografie sono un mondo a parte rispetto alla pittura, e cinema e fotografia hanno consacrato la dicotomia b/n-colore. Invece il bianco e il nero sono i due colori che compaiono in tutte le teorizzazioni dei filosofi antichi, sono il punto di partenza del concetto di colore.

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La ragione fondamentale è che questi colori esprimono meglio la dicotomia fondamentale degli antichi tra lucido ed opaco: infatti il latino ha due coppie antitetiche per questi colori. Invece il greco usa leukòs ad indicare soprattutto il brillare, ma ogni tipo di bianco, da quello della luce solare e della neve sino a quello del latte e della polvere, come in Omero (Il. V,503).
In latino invece esiste albus, il bianco opaco; più che l’idea di bianchezza trasmette quella di opacità: lo dimostra il nome dello stagno, album plumbum,(ma Plinio usa plumbum candidum: il lessico dei colori è sempre cangiante), di contro al piombo, Plumbum nigrum. Anche il vino è definito albus, come facciamo ancora noi, anche se i vini “bianchi” non lo sono mai.
Candidus è invece il bianco lucido e splendente, sono i fulsere tibi candidi soles di Catullo, è il bianco della luce del sole, qui candorem habet cum nitore conjunctum, come chiosa il Forcellini, mentre albus pallori conjunctum est. Di qui l’uso metaforico positivo ad indicare bellezza fisica (soprattutto femminile) e positività di carattere, dall’ingenuità all’ostentata onestà del candidatus; usi estranei ad albus.
A rafforzare il favore per il bianco è l’abbondanza di materiali e pigmenti che ne permettono l’uso: in primis il marmo bianco, soprattutto quello di Paro che influenza l’arte greca sin dalle statue delle Cicladi. Ma fondamentali sono la calce, materiale ancora oggi fondamentale nell’architettura mediterranea, e la scoperta della biacca, già scoperto dagli Egizi. Plinio ricorda anche varie terre, tra cui la la terra di Melo (bianco), carbonato di calcio di origine sedimentaria.
Se si aggiungono eburneus, niveus, lacteus  cereus si nota l’abbondanza di oggetti che impongono il bianco agli occhi dei romani. Manca l’aspetto sinistro del bianco, simbolo di morte e di lutto in Estremo Oriente, di vuoto per noi (la pagina bianca, andare in bianco, mangiare in bianco); nessun autore greco o latino avrebbe scritto il capitolo sul bianco in Moby Dick; né vi sono fantasmi in bianco: solo in miniature del XII/XIII secolo si vedono i primi morti caratterizzati in bianco.

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Anche per il nero il greco se la cava con un unico termine fondamentale, mélas, che indica l’idea di oscuro, opaco, cupo più che di nero: indica il vino (uso rimasto anche per l’italiano o il tedesco, non per francese o inglese) , il sangue, la notte, la terra, metaforicamente la morte.
Il latino invece ripropone una coppia, ater, il corrispondente di mélas, ma anche niger, il nero lucido, quello degli occhi. Tuttavia in questo caso l’opposizione è molto meno netta, i termini sono spesso intercambiabili e hanno lo stesso valore metaforico negativo.
La ragione può essere spiegata ancora con i pigmenti disponibili: quasi sempre quelli minerali sono nerastri (con l’eccezione dell’ossidiana), e le tonalità ricavabili per il nero di solito sono opache, nerastre, tendenti a sbiadire in fretta. Fondamentale per millenni è il nerofumo, ottenuto dal carbone vegetale; in particolare i romani apprezzavano quello ottenuto dalla vite; ancora più pregiato e costoso è quello ottenuto bruciando avorio o comunque sostanze eburnee: ma il suo uso è raro.
Invece per tessuti ed inchiostri si usava l’atramento : è solfato di ferro (Fe SO4 7H20) o di rame (CuSO4 5H20); anche il piombo era usato, sia traendo dalla galena una sorta di matita nera, sia usando il biossido di piombo. Tra gli scritti alchemici di età alessandrina Zosimo parla del tetrasoma, una lega di piombo, stagno, rame e ferro che forma l’opera al nero del lessico alchimistico.
In tutti questi casi si ottiene un colore opaco che vira verso il verdastro, il bluastro, il porpora, il marrone o il grigio, a seconda dei componenti. E tutti queste tonalità, che noi distinguiamo, sono per gli antichi un’area indistinta.

Rosso è bello

Il rosso più famoso del mondo classico è certamente il rosso pompeiano. A lungo si è creduto che fosse ottenuto dall’ematite, ovvero ossido di ferro (Fe2O3): si tratta del più antico colorante conosciuto, non solo nelle pitture del Paleolitico, ma ritrovato come pigmento addirittura 300.000 anni fa in Africa, prima ancora dell’origine dell’Homo sapiens. Analisi più recenti avevano individuato il cinabro, ovvero solfuro di mercurio (HgS), altro pigmento ottenuto per macinazione. Tuttavia oggi si pensa che il rosso pompeiano fosse in origine … giallo. Sarebbe stato il calore dei gas eruttivi a produrre il cambio di colore, con un effetto analogo a quello che muta il giallo del litargirio nel rosso del minio. Alcuni angoli di parete, più riparati, testimoniano il fenomeno ancora incompiuto.
Comunque i rossi sono i colori per eccellenza, come dimostra la sinonimia tra rosso e bello già evidente nell’ebraico biblico ed oggi ancor viva nelle lingue slave. Per i greci il bianco è l’incolore, il nero lo sporco, il rosso il colore vero, come ricorda Pastoreau.
A favorire il successo dei rossi è anche l’abbondanza di pigmenti: innanzitutto gli ossidi di ferro, onnipresenti, che forniscono le ocre rosse che dominano la pittura paleolitica; ma recenti ritrovamenti permettono di attribuire anche all’Homo neanderthalensis l’uso di pigmenti per colorare, allargando così l’uso simbolico dei colori al di fuori della nostra specie. Plinio ricorda come ocre rosse la rubrica (usata per bordi ed iniziali nei manoscritti, da cui il nostro termine) e la terra di Sinope (da cui il nostro sinopia). Non è un caso che l’ocra rossa sia associata a sepolture, è il colore del sangue.
In Omero il sangue è descritto con ben cinque termini: : gran parte di essi indicano il sangue cupo delle ferite e della morte, un colore opaco come quello indicato dall’ocra rossa. Anche il celebre tappeto rosso che accoglie Agamennone nell’omonima tragedia eschilea rafforza il legame con il sangue ed il potere, che si ritrova anche nell’uso della porpora.
Di conseguenza è anche il colore dei soldati: in particolare le più formidabili macchine da guerra antiche, gli eserciti spartano e romano, abbondavano di rosso. Le Armate Rosse del mondo classico.
Rossi erano i mantelli, tinti probabilmente con la robbia, e rossa era la lambda maiuscola sugli scudi spartani. Ma soprattutto a Roma il rosso dominava: rosso era il mantello dell’imperator, tinto in scarlatto o porpora brillante, rossi i cimieri (trasversali) dei centurioni, rossi i mantelli e soprattutto gli scudi che caratterizzavano i reparti. Testimoni ne sono i ritrovamenti di Doura Europos e i disegni conservati nella Notitia dignitatum della tarda antichità.

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Ma il rosso è anche colore della vita, del fuoco, e questo simbolismo è rafforzato dall’abbondanza di tinture e pigmenti che tendono verso un rosso vivace e chiaro. Non a caso la sposa romana si vestiva di un rosso aranciato, che richiamava la fiamma.
I rossi sono soprattutto adatti a tingere i tessuti, unendo così la forza del simbolismo e la praticità della durata e della stabilità. La stabilità della robbia è proverbiale: dal suo altro nome, provenzale, garance o garanza, deriva il termine garanzia. L’alizarina, molecola tratta dalla Rubia tinctorum, non a caso sarà la prima molecola riprodotta artificialmente nel 1858 per ottenere uniformità; pur abbondante in natura, la robbia contiene anche porporina e chinizarina (forma isomerica dell’alizarina), quindi spesso le tinture non sono omogenee, come dimostra la presenza di abrash sui tappeti orientali (ovvero sfumature diverse dovute a diversi bagni di tintura della lana).
Ma ancora più prezioso è lo scarlatto, che si ricava da millenni dagli insetti della famiglia delle cocciniglie: prima dell’arrivo della cocciniglia americana, specie affini fornivano, soprattutto in Medio Oriente, la materia prima per il Chermes (da cui il nostro cremisi e carminio): in entrambi i casi le tinture venivano mordenzate con allume e offrivano colori luminosi e stabili.
Per pittori ed architetti erano disponibili anche pigmenti di origine minerale; oltre alla Sinope, soprattutto il cinabro (solfuro di mercurio), la san­dracca (solfuro di arsenico As2 S2), e il minio (ossido di piombo (Pb3 O4): fare il pittore non è mai stato molto salutare, comunque nel mondo romano, tra acquedotti di piombo e cosmetici a base di biacca le malattie professionali si notavano meno.
Il gusto del rosso sembra più sviluppato nel lessico latino: in greco il rosso brillante è erythròs, poi abbiamo la radice phoinik- del porpora, mentre il latino va dal rosso scuro/ocra di rubrica, vicino a robigo, a rubidus/rubeus, rosso cupo, rossastro, verso ruber, il rosso pieno, rutilus il rosso splendente, infine rufus, il rosso/biondo del colore dei capelli dei Celti, ma anche di romani come Pompeo.

I gemelli separati: blu e porpora

Dal punto di vista chimico il colorante tratto dal murice, che origina la porpora, è quasi identico a quello che si trae dall’indaco e dal guado: un paio di atomi di bromo al posto di quelli di idrogeno distinguono la molecola del porpora dal secondo. Si tratta di un fenomeno inconsueto, ma non unico, quello di due sostanze quasi identiche prodotte da una specie animale e da una vegetale: un avvertimento a quanti credono che animali e vegetali siano tanto diversi, un memento sull’unicità del DNA.
Dal punto di vista culturale invece per il mondo antico siamo agli antipodi: tanto il porpora è il colore più prestigioso, tanto il blu è inquietante. Il porpora si otteneva mescolando il liquido tratto dalla ghiandola di più specie di gasteropodi, in particolare del Thais Haemastroma, in latino buccinum, e del Murex brandaris o Bolinus brandaris, in latino murex.
Plinio ne descrive la specie e il procedimento di estrazione: «Sed purpurae florem illum tingendi expetitum vestibus, in mediis habent faucibus. Liquoris hic minimi est in candida vena, unde pretiosus ille bibitur nigranti rosae colore sublucens». [Ma le porpore hanno in mezzo alla bocca quel fiore ricercato per tingere le vesti. Qui si trova una candida vena con pochissimo liquido, da cui nasce quel prezioso colore di rosa che tende al nero e risplende.] Plin. Nat. Hist. IX, 60
In realtà proprio il passaggio dal colore pallido (e quindi per i classici opaco) a quello lucido (sublucens) deve aver contribuito al prestigio della tinta, che però si presentava in modi diversi, dal rosso cupo al porpora al blu/nero, ma sempre colori forti, lontani dal porpora/violetto che vediamo oggi: pare che i greci preferissero le tinte più sul rosso, i romani tonalità più scure, viranti verso il nero.
Invece il blu è un colore sgradito. Le civiltà egizia e babilonese lo amano, producendolo però con pigmenti minerali, azzurrite (2 CuCO3. Cu(OH)2) o più spesso il blu egizio (o fritta): verrà usato anche dai pittori romani, come Fabullo, l’affrescatore della Domus Aurea; è molto usato nelle mattonelle e soprattutto nei vetri: il termine latino vitrium indica, al pari del celtico glas, una sfumatura verde-azzurra. Né manca l’uso del cobalto per i blu più profondi, mentre l’uso del lapislazzulo, il blu per eccellenza della pittura medievale, è testimoniato ma è raro, dato che il materiale proveniva per lo più dall’Afghanistan.
Le tonalità sull’azzurro (termine però arabo) verdastro sono doppiamente inquietanti: le dee come Atena o Era hanno occhi azzurro/verdi (glaukòpis, ma il termine sembra indicare in Omero lo scintillio dell’occhio; in Bacchilide però un’oliva, in Teofrasto lo smeraldo) o blu (kýanos di Anfitrite in Omero); Lucrezio nel suo catalogo di donne sgradevoli scrive appunto caesia Palladium (DRN, V,1161), ovvero per chi ha brutti occhi azzurro/verdi l’unico complimento è paragonarla ad Atena.
A rafforzare il pregiudizio per i Romani è l’incontro con Celti e Germani: questi popoli usano dipingersi di blu con tinture tratte dal guado, Isatis tinctoria: la pianta fu coltivata sino al Sette/Ottocento soprattutto nel sud della Francia, usa la stessa molecola dell’indaco ma produce una tinta meno profonda, il nostro turchino: lo ricorda Cesare dei Britanni: «Omnes vero se Britanni vitro inficiunt, quod caeruleum efficit colorem, atque hoc horridiores sunt in pugna aspectu». Caes DBG V,14. Lo potrebbe ripetere anche oggi, guardando gli hooligans.
Tuttavia le tonalità più profonde dell’indaco, perché ricondotte al porpora, vengono lodate da Plinio: «Ab hoc maxima auctoritas Indico. Ex India venit harundinum spumae adhaerescente limo. Cum cernatur nigrum, at in diluendo mixturam purpurae caeruleique mirabilem reddit. Alterum genus eius est in purpurariis officinis innatans cortinis, et est purpurae spuma». [Dopo questo il massimo prestigio va all'indaco. Proviene daII’India come un fango che si attacca alla schiuma delle canne di bambù. Quando lo si stacca è nero ma poi, diluendolo, produce uno stupendo colore misto di porpora e di azzurro. Un'altra specie di indaco è quella che, nelle tintorie di porpora, galleggia nelle caldaie ed è la «schiuma di porpora».] Plin. Nat. Hist. XXXV, 46

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Dunque le tonalità dal celeste azzurro al blu sono per gli antichi un’area poco distinta, tanto che si fa derivare il germanico blau, da cui il nostro blu, dal latino flavus: può sembrare assurdo, ma il non distinguere il biondo/giallo dal blu/azzurro si ritrova in alcune lingue e nei manuali medievali di pittura; né esistono termini specifici in egizio per blu o giallo, ma solo termini riferiti ai pigmenti di questo colore.  Omero ci fornisce forse la chiave di questa indeterminatezza: se per noi il mare è blu, per lui è porphyreos: non tanto color porpora, quanto continuamente in cambiamento a seconda del moto ondoso; Platnauer dice che più che un colore indica una nozione di movimento. Infatti lo pseudo aristotelico De coloribus lo definisce come il colore di quando le onde mosse gettano ombra. Quindi l’area del blu si avvicina ai colori incerti ed indeterminati per gli antichi, come grigio e marrone, che non hanno termini precisi ed indicano tonalità smorzate, lontane dal gusto per i colori netti e lucenti. Oppure nelle tinte più cariche si avvicina al nero, al porpora e al rosso; l’esatto contrario dell’oggi, che vede blu e rosso come colori complementari.

Dal luminoso all’opaco

Tra i colori più amati dagli antichi, che però per lo più li considerano secondari, spiccano le tonalità giallo/arancio, che il greco definisce con il termine xanthòs. Il punto di partenza è probabilmente il rosso, spesso aranciato sia nelle terre che nei composti di piombo; non a caso Platone, sopra citato, considera lo xanthòs «lo splendente mescolato col rosso e col bianco». L’ematite, ossido di ferro, se idrata offre un giallo arancio; parimenti la biacca scaldata moderatamente produce il litargirio. Terzo pigmento antico è  l’orpimento (solfuro naturale di arsenico (As2S3) che produce un giallo dorato: la sua etimologia è appunto auri pigmentum. Infine l’antimoniato di piombo (PbSbO4), noto come giallo egizio, o in età moderna come Giallo Napoli o giallolino; si otteneva dalla trasformazione dei carbonati come il gesso o la malachite in ossidi tramite arrostimento.
Due termini greci rimandano a due tinture di origine vegetale: sandaràkinos rimanda alla sandaràke, su cui si nota un’ambiguità lessicale. Infatti di norma indica una resina ottenuta da una conifera, la Tetraclinis articulata, che dà un giallo citrino; tuttavia Plinio usa il termine per il realgar, a sua volta tinta rosso/aranciata tratta dal minerale d’orpimento. Finalmente chiaro è il termine krokōtòs, che indica l’uso dello zafferano come colorante per i tessuti; anche qui rosso e giallo sono interconnessi, e probabilmente in questo modo veniva tinto il flammeum, il velo da sposa romano.
In latino il termine fondamentale è flavus, cui corrisponde il greco pyrròs: in entrambi i casi il colore sembra indicare in primis i capelli biondo/rossi di tanti eroi greci e romani; altrimenti si usa aureus per l’oro, o pallens per un giallastro da ammalati; curioso e raro è il termine helvus che Varrone usa per indicare il miele, intendendo un giallo/rosato, e che Catone il Vecchio e Plinio usano per una varietà d’uva e il suo vino, probabilmente affine ai nostri rosati.
Se Democrito inserisce il verde tra i colori fondamentali, rimane anche in questo caso abbastanza isolato: una delle ragioni è una certa instabilità della tinta, che spesso emerge come tonalità di blu e neri che sbiadiscono; inoltre i pigmenti antichi producono tinte opache, i verdi luminosi si ritrovano al più nelle pietre preziose. Comunque a nessuno nel mondo classico sarebbe venuto in mente di ottenere il verde da blu e giallo.
In greco il termine base è pràsinos, che etimologicamente indica il colore del pràson, l’umile porro: dunque un verde chiaro, che indicherà anche la fazione del circo dei Verdi; termine non omerico, a differenza di cloròs, che indica però qualcosa di fresco, pallido: un monte, ma anche il sangue; il pallore è espresso anche con ōchròs, che indica però anche le rane in Aristofane.
In latino domina il termine viridis, mentre il nostro “verde” nel senso di acerbo è crudus; ma la vita urbana di Roma spingeva a cercare il verde, come testimoniano le celebri pitture della villa di Livia moglie di Augusto.
Mancano vere tinture verdi per i tessuti antichi, quelle a base di foglie o cortecce non aderiscono ai tessuti; qualche pigmento però esiste, a partire dai silicoalluminati di ferro come la glauconite, disponibile anche in Italia; oltre a ciò la malachite offriva pigmenti verdeazzurri, mentre era già noto il verderame (acetato basico di rame).
Il punto di arrivo dell’opaco nel mondo antico più che il nero era l’area di colori che oggi affolliamo con i grigi e i marroni, per i quali vi sono pochi termini, ed ambigui.
In greco il grigio sembra essere indicato come sfumatura da glaukòs in latino caesius, mentre poliòs, usato da Omero anche per la schiuma del mare, indicherà poi i capelli grigi e bianchi, come il latino canutus. Invece àithōn può indicare un cavallo, un’aquila, ma anche lo scintillare del bronzo o addirittura la fierezza del guerriero.
In latino grigio e marrone si confondono nel concetto di opaco, fumoso, indistinto: così cinereus è solo il color della cenere, caliginosus della nebbia, fuscus indica i marroni spenti: Orazio userà ravus per il mantello di un leone, un grigio giallastro che Ovidio, poco cavallerescamente, attribuirà agli occhi di una donna, da indicare comunque come Minerva, se la si vuole sedurre; evidentemente non lo sentiva lontano, come termine, da glaukòs/caesius. La confusione era grande sotto il cielo.
Anche qui alla confusione linguistica corrisponde una povertà di pigmenti: essenzialmente terre d’ombra ricche di manganese (ferro idrato con silicio, alluminio e biossido di manganese) oppure ocre scure; per i tessuti, si usavano filati non tinti, in vari toni grigiastro/marroni.

Un mondo luminoso

Gli occhi degli antichi vedevano esattamente come i nostri: anche i cervelli pensavano nello stesso modo. La neuroestetica ci permette di unificare la visione fisica della luce, perennemente variabile nelle sue lunghezze d’onda, e l’elaborazione soggettiva che ne fa il nostro cervello: a fianco dell’elaborazione della corteccia visiva, si attiva una parte della corteccia orbito-frontale mediana, che è associata all’emozione del piacere, e si attiva non solo dinanzi alla bellezza fisica, come quella del colore o della musica, ma anche dinanzi alla bellezza matematica; segno che la bellezza è insieme oggettiva e soggettiva, e dominata dall’apprezzamento per la simmetria, la regolarità e l’armonia.
In un mondo meno colorato del nostro, ma soprattutto in un mondo meno antropizzato, gli uomini sentivano il bisogno di distinguersi con i colori: Nietzsche sosteneva che i greci non apprezzavano blu e verde perché “disumani”; in realtà il mondo naturale è soprattutto nei colori opachi, per cui gli antichi non hanno nomi precisi.
Ma soprattutto avevano a disposizione una gamma di pigmenti, pur sofisticata, meno ricca della nostra, e soprattutto meno stabile e costante delle nostre tonalità artificiali. Ecco perché privilegiavano la luminosità e l’intensità dei colori rispetto alle tonalità.
I colori forti si staccano da un mondo naturale che privilegia le mezze tinte; la luminosità esalta la luce mediterranea e insieme contrasta con essa, segnala la presenza umana. L’ambiguità del lessico rispecchia sia la mutevolezza della luce o del mare, ma anche l’instabilità dei pigmenti: non solo tendevano spesso a scolorire in fretta, ma la loro produzione artigianale escludeva la coerenza tonale, come dimostra la molteplicità delle tinte definite porpora.
Per noi oggi gran parte di quei colori e di quella sensibilità è perduta; anzi, credo che saremmo in disaccordo con loro sull’estetica dei colori. Tuttavia almeno un poco del loro gusto è sopravvissuto, nei marmi, nei cammei e nelle pietre colorate tanto amati dai Romani, soprattutto quando l’impero permise loro l’accesso ad una vastissima gamma di pietre. Nei musei, nelle chiese, nei mosaici o in mostre come quella del 2002 a Roma, I marmi colorati della Roma imperiale, possiamo rivedere nei colori indelebili delle pietre la bellezza classica, a partire dal perfetto gemello del porpora, il porfido.

(2 – FINE)

QUI la prima parte del saggio

Bibliografia

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Adriano Zecchina, Alchimie nell’arte. La chimica e l’evoluzione della pittura, Bologna 2012.
Semir Zeki, Sesso, bellezza ed equazioni, Il Sole 24 Ore 23 aprile 2017.

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