Ingmar Bergman ed i tragici greci

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ANTONIO VIGLINO

Eschilo, Sofocle, Euripide, poi il nulla — salvo per chi consideri il Bardo un tragediografo più che un caratterista.

Ingmar Bergman raccolse il loro testimone, invece, cantore di situazioni psicologiche, di drammi laceranti come di sottili invaghimenti, con la stessa forza dei tre grandi tragici.

I film svedesi, scritti da Bergman nelle pause del suo impiego quale regista teatrale, diretti nella breve estate nordica attraverso attori di caratura squisitamente teatrale, sotto l’occhio della fotografia plastica e unica di Sven Nykvist, costituiscono probabilmente ciò che di più prossimo alle tragedie greche il pensiero occidentale abbia prodotto. Certo a uno sguardo superficiale il paragone suona più assurdo che ardito, ma se si rivolge ai film di Bergman la stessa devozione che esigono i tragici, allora le cadenze cantilenanti dei dialoghi, naturalmente in lingua originale, riecheggiano i giambi, i tradimenti amorosi e le ansie le vicende guerresche, la quotidianità il mito.

E se la magia delle riprese, la forza evocatrice dei primi piani (tecnica proprio da Bergman creata, sul viso di Harriet Andersson, in Monica e il desiderio, 1953), la capacità espressiva ed introspettiva dei film svedesi non riescono a smuovere i paladini della grecità ad ogni costo, ci si focalizzi allora sul considerare come la differenza tra le tragedie greche e le pellicole di Bergman sia solo questione di quantità, per dir così. Può sembrare una boutade avvicinare film, per quanto maestosamente profondi, alle tragedie, perché le vicende psicologiche di Oreste e di Edipo come le ambasce viscerali di Antigone e di Medea, afferiscono a temi radicali, decisivi, germinali della condizione umana e fondativi del pensiero occidentale stesso. Prevale la legge della consuetudine o la legge naturale? È lecito violare un legame genitoriale per vendicare l’altro genitore? Certamente questi sono quesiti che hanno contribuito in modo decisivo a formale la morale dell’Occidente, e l’aver individuato ed espresso questi gangli esistenziali rende giustamente immortali i tragici. Ma essi, in verità, di più non fecero che tradurre in versi quelle che erano le domande basiche che la civiltà di allora si poneva. Il nascente mondo greco, e poi europeo, proprio in quanto in via di formazione si poneva le questioni cruciali della sua stessa condotta fondamentale. Ed è esattamente allo stesso modo, trasfigurando e trascendendo le pulsioni, che Bergman interpreta la realtà della società in cui vive, una società che si è evoluta grazie alla visione del pensiero dei tragici, che ora si pone nuove domande.

Le tre pellicole che costituiscono la cosiddetta trilogia sul silenzio di Dio, Come in uno specchio (1961, il titolo è citazione del celebre passo paolino della Lettera ai Corinzi), Luci d’inverno (1962), Il silenzio (1963), non trattano certo apertamente di una tematica così scabrosa, ma proprio solo questo, il perché Dio paia non rispondere agli uomini, è il tema unico di questi tre film, che fa da sfondo a temi e schemi di relazioni interpersonali di una profondità psicologica, ed anche psicanalitica, stupefacente. E il silenzio di Dio è il motivo fondamentale anche del Settimo sigillo, pellicola dai più lodata per tutti gli altri mirabili motivi estrinseci, tra i quali l’essere cantato dai medievali penitenti il testo del Requiem di Tommaso da Celano; la celeberrima partita a scacchi di Max von Sydow con la Morte è già solo un’icona, immaginifica e di confezione extra-ordinaria, che riflette in verità temi che per l’uomo sono propriamente decisivi;  Persona (1966), sin dal titolo e sin dai singoli elementi narrativi, Liv Ullmann che si chiude nel mutismo recitando l’Elettra, il di lei marito cieco come Tiresia, ad esempio, è di nuovo pellicola che scandaglia motivi radicali e profondi della psiche ben di più, o quanto meno alla pari, dei testi dei tragici. L’ora del lupo (1968), un capolavoro monolitico sulla paranoia ossessiva, non è di minor peso delle Memorie di un malato di nervi del giudice Schreber, che diede a Freud la materia per studiare questa malattia mentale; e come non dire l’uso dei colori in Sussurri e grida (1972), il primo film di Bergman a colori, dove appunto sono usati tre colori, il bianco, il rosso e il nero, a segnare gli stati emotivo-psicologici delle tre donne protagoniste; fino a Sinfonia d’autunno (1978), una toccante ed esasperante disamina impietosa dei rapporti tra madre e figlia; e tante altre pellicole che è davvero troppo riduttivo il mero inanellare. Ed anche della musica Bergman era maestro, in quasi tutte le sue opere compare ricorrente un movimento di J.S. Bach, le cui suites per violoncello sono peraltro il vero protagonista del surreale e delizioso A proposito di tutte queste signore (1964) — per quanto di opere liriche il regista svedese mise in scena il Flauto magico (1975), rifiutando alfine, sventura per i wagneriani, la regia dell’Anello del Nibelungo a Bayreuth.

Dopo esordi quasi neorealistici, Bergman si espresse in varie forme, fino al tripudio di Fanny e Alexander (1982), che sarebbe bene assaporare nella originale versione televisiva di sei puntate di un’ora e non in quella cinematografica (e lo stesso avvertimento vale per Scene da un matrimonio, 1973). Fanny e Alexander è una pellicola che per un verso ricorda il Visconti del Gattopardo, anche se il dominio di Bergman sulla materia scenica è di livello superiore perché un’opera di Bergman è Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale), concepita in ogni dettaglio, in ogni aspetto, dalla sua sola mente.

Egli raggiunse il grande pubblico guadagnando un premio speciale al Festival di Cannes nel 1956 con Sogno di una notte di mezza estate, una commedia fresca, frizzante, dove la mano di Bergman si rivela, come sempre, ferma e ossessiva nel ritrarre piani fissi, teatrali, scene di palcoscenico racchiuse in uno schermo, in sé conchiuse e perpetuate come nell’Invenzione di Morel (E. Greco, 1974) dove i personaggi si muovono come nel Sogno di Strindberg — una delle vette della produzione teatrale di ogni tempo, pièce da Bergman particolarmente amata.

Ed infine, la cuspide dei film svedesi fu una pellicola non diretta da Bergman ma da lui voluta, Sacrificio (1986) forse il capolavoro dell’unico regista che a Bergman non fu inferiore per sensibilità e profondità, Andrei Tarkovsky. Fuggito dalla Russia sovietica, dopo una breve parentesi in Italia, Tarkovsky diresse la pellicola profetica e attuale quant’altra mai, nonché suo effettivo testamento, presso la Svensk Filmindustri, ambientata sull’isola di Farö, dove Bergman viveva, dirigendo attori svedesi tra cui lo stesso Erland Josephson, uno degli alter ego di Bergman.

Eschilo, Sofocle ed Euripide ancora oggi sono letti perché esprimono moti dell’animo universali e atemporali per gli uomini gettati nel mondo; lo stesso mostrano le pellicole di Bergman. È soltanto il “pregiudizio della classicità” che impedisce di riconoscere in Bergman il tragico dell’età contemporanea.