Le arie che mi do – 2 (Rossini)

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GIANNINO BALBIS

La calunnia è un venticello

(Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia, atto I)

Don Bartolo, anziano dottore in medicina, quando si accorge dell’interesse del Conte d’Almaviva per la sua pupilla Rosina, non trova miglior medicina che prestare ascolto ai consigli del maestro di musica Don Basilio, dai principi morali tutt’altro che integri. Per Don Basilio il rimedio è la calunnia: screditare il Conte di fronte all’opinione pubblica e agli occhi di Rosina, perché, come dice Cervantes, “le ingurie sono le grandi ragioni di coloro che non hanno ragioni”. Tutto sta a mettere in moto la macchina della maldicenza: si inventa una calunnia e la si incomincia a sussurrar. Poi la macchina si alimenta da sé: il sussurro diventa ronzio, s’introduce nelle orecchie della gente, dalle orec-chie passa ai cervelli, scende nelle bocche, ne esce, fa schia-mazzo, rumoreggia come un tuono, fa tempesta.. e infine esplode come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale che fa l’aria rimbombar. Sappiamo come funzio-na, anche ai nostri giorni, la macchina del fango. Nel Barbiere di Siviglia, nell’aria di Don Basilio, la vediamo in piena azione, nel suo inarrestabile crescendo di parole, suoni e ritmo: un tipico crescendo rossiniano. 

Don Basilio e Don Bartolo sono due macchiette: calunnia e istigazione a delinquere sono reati, ma non nella terra franca dell’opera buffa. Per questo possiamo riderne, magari appioppando loro una delle più caustiche battute di Mark Twain: “Creare l’uomo è stata un’idea bizzarra, ma aggiungere la pecora è stata una vera tautologia”.

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Largo al factotum

(Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia, atto I)

Fra tutti i personaggi di Rossini, il più conforme al suo genio comico è certamente Figaro, in cui la gaia e spigliata satira sociale di Beaumarchais (da cui Cesare Sterbini trae il libretto del Barbiere di Siviglia) si intreccia con qualche filo dell’antica commedia dell’arte (l’esuberanza di Figaro ha un che di arlecchinesco) e del nuovo realismo goldoniano.

Ma da che parte sta Rossini riguardo all’astuzia e alla spavalderia di Figaro, al suo frenetico trafficare, al suo abile destreggiarsi con tutti, popolani, nobili e borghesi, al suo tuttofare senza remore morali e sensi di colpa? Rossini, figlio di un filo-rivoluzionario, ma anche buon amante degli agi borghesi e perfino nobile di San Marino, prima del lungo ritiro dalla mondanità e dell’esilio, infine,  dall’Italia risorgimentale?

Il rapporto è ambiguo. Strettissimo con il personaggio Figaro, fondamentale motore dell’azione; distaccato e sarcastico quello con l’uomo Figaro, al quale, in tono serio, Rossini potrebbe ripetere quello che dice Porzia nel Mercante di Venezia: “Se fosse facile fare quanto è facile dire ciò che va fatto, tutte le cappelle sarebbero cattedrali e le catapecchie palazzi principeschi”. Ma la potenza della vis comica rossiniana tutto riesce a ridicolizzare, tutto a riscattare al prezzo di un sorriso.

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Una voce poco fa

(Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia, atto I)

Chiede aiuto al factotum Figaro il Conte d’Almaviva per conquistare la bella e ricca Rosina, che vive con l’anziano tutore, don Bartolo, segretamente intenzionato a sposarla (anche per “amministrarne” meglio il patrimonio). Figaro consiglia al Conte di non presentarsi con la sua vera identità, ma di fingersi un semplice soldato ubriaco – Lindoro – perché, come dice la protagonista di Ciascuno a suo modo, “per una donna, una bestia è sempre meno irritante di un angelo”. E così il Conte si presenta a Rosina come falso Lindoro, falso soldato e falso ubriaco; poi diventerà anche don Alonso, falso maestro di musica. “Pretendiamo di essere amati per quello che siamo – dice Paul Géraldy – ma vogliamo sedurre con le menzogne”.

Rosina, che nulla sospetta, si innamora subito di Lindoro e spera, grazie a lui, di sottrarsi finalmente alla custodia del tutore. Perché è sì una donna docile, rispettosa, obbediente, amorosa, ma anche volitiva e, all’occorrenza, vendicativa, capace di ordire trappole come una vipera: caratteri che ne fanno un personaggio del tutto nuovo nel panorama del melodramma.

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A un dottor della mia sorte

(Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia, atto I)

Il piano suggerito da Figaro al Conte d’Almaviva per conquistare l’amore di Rosina non si è ancora messo in moto che già Rosina spasima per il proprio spasimante, presentatosi a lei  sotto il falso nome di Lindoro. A nulla serviranno le precauzioni di Don Bartolo, dottore in medicina, anziano tutore e innamorato della ragazza: perché è la giovinezza il tempo dell’amore, mentre in età avanzata, come teorizza Paolo Mantegazza nell’Elogio della vecchiaia, essere corteggiati è bellissimo, corteggiare è spesso ridicolo.

Comicamente ridicola, e un poco patetica, è la gelosia di Don Bartolo. Rosina ha appena scritto e affidato a Figaro un biglietto per il Conte, e Don Bartolo nota il suo dito sporco d’inchiostro, la mancanza di un foglio dalla scrivania e la penna temperata, e gliene chiede ragione. Rosina, colta alla sprovvista, inventa scuse maldestre: ha medicato una scottatura, ha incartato dei confetti, ha disegnato un fiore sulla tela da ricamare.

Don Bartolo non ci casca: rimbrotta aspramente la giovane e la minaccia, dando sfogo all’orgoglio ferito e ad una malcelata iraconda gelosia.


[1] Giurista, uomo politico, docente, librettista ufficiale della Scala per diciotto anni, giocoso amante degli pseudonimi (fra i quali i più memorabili sono Giordano Scannamusa e Gasparo Scopa-birbe).