“Spazio aperto alla cultura”: il convegno “Che cos’è il tempo”.

convegno-liceo-2017SIMONE MAMMOLA.
Assumendo per buona la tradizionale concezione della simultaneità temporale (principio tutt’altro che scontato, in realtà, come vedremo), al buon sant’Agostino – ovunque mai si trovi – avrebbero dovuto fischiare continuamente le orecchie, lo scorso mercoledì 29 novembre, una volta tanto non per via di antifone elevate in suo onore dal coro di un chiostro, non essendo peraltro giorno di memoria, bensì, più laicamente, in quanto autore di una delle più efficaci meditazioni sul tempo che la civiltà occidentale abbia mai prodotto, ricordata spesso soprattutto per il gioiello aforistico che vi risplende al centro: «che cos’è il tempo? se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so». Monito che non ha impedito appunto di riproporre ancora una volta quella stessa domanda (è il destino dell’interrogazione filosofica, che sia poi declinata in chiave scientifica o sapienziale), in occasione del convegno organizzato in quella data dal Liceo “Vasco-Beccaria-Govone” di Mondovì, come secondo appuntamento di un ciclo inaugurato un anno fa sotto gli auspici tutelari del nostro venerato GiBì Beccaria e promosso nel quadro del progetto “Apriti Liceo”, vincitore del bando nazionale MiBACT “Scuola: spazio aperto alla cultura”. Al tempo, del resto, è dedicato lo splendido laboratorio-museo allestito presso i locali del Liceo, con il suo ricchissimo fondo di strumenti scientifici che da un paio d’anni a questa parte è stato progressivamente valorizzato e reso accessibile al pubblico: che si sia ripreso il filo proprio di lì non deve perciò stupire.

Se tutto questo spiega l’insistente evocazione agostiniana, non si pensi però che essa esaurisca interamente il tema. Ci troviamo infatti all’incrocio di vari saperi, là dove l’indagine filosofica si intreccia con quella teologica, ma anche con quella fisica e biologica, senza che si possano trascurare le immagini via via escogitate anche dalla letteratura, classica e non, per provare a definire e imbrigliare ciò che per definizione sembra incessantemente sfuggire a ogni presa. Il convegno, ospitato presso la Sala Conferenze dell’Istituto Alberghiero “Giolitti” di Mondovì, ha cercato di mettere a confronto tutte queste voci, offrendo quantomeno un profilo di alcune delle principali questioni in gioco quando si affronta un problema di tale portata. Il breve resoconto che segue è un maldestro tentativo di renderne conto.

I segni del tempo è il titolo di un bel saggio di diversi anni fa, nel quale lo storico Paolo Rossi aveva ricostruito la scoperta della storia della terra e la presa di coscienza, tutta moderna, della smisurata dilatazione dei tempi promossa dagli studi geologici, fondamentale premessa, tra l’altro, per l’elaborazione della teoria dell’evoluzione. Muovendosi implicitamente all’interno di questo medesimo orizzonte, e corredandolo con indicazioni di tipo espressamente climatologico, il dottor Alberto Crosetto, funzionario della Soprintendenza archeologica regionale e archeologo egli stesso, ha effettuato una ricognizione virtuale di alcuni siti piemontesi segnati, appunto, da cicatrici che testimoniano gli effetti di eventi catastrofici dovuti per lo più a inondazioni fluviali. Particolarmente suggestiva, in tal senso, la sovrapposizione delle piante delle città romane di Industria, Asti e Acqui Terme con le carte prodotte in tempi recenti dall’Arpa sul rischio idrogeologico riscontrabile nei medesimi luoghi – da cui si evince, per esempio, che gli urbanisti di età imperiale furono talora estremamente lucidi nel limitare l’espansione urbana a zone ritenute a buon diritto sicure, talora invece assolutamente temerari nel ritenere di poter controllare possibili fenomeni di piena, anticipando così errori che pure noi continuiamo a fare, con la conseguenza che nello stesso posto è oggi possibile trovare rovine in pietra e in cemento imputabili alle stesse cause ma databili a duemila anni di distanza.

Uno dei tanti tesori custoditi nelle aule del Liceo ha offerto lo spunto di partenza alla relazione del professor Paolo Lamberti: trattasi di un “orologio dantesco”, ovverosia di un marchingegno costruito a fine Ottocento (con lo zampino del monregalese Mercurino Sappa) e orgogliosamente esibito all’Esposizione Universale di Parigi, attraverso cui è possibile seguire passo passo l’itinerario ultraterreno di Dante, alla luce degli indizi astronomici ampiamente distribuiti nelle terzine della Commedia (ora se ne farebbe un’app per la LIM, anche se detta così suona un po’ come uno scioglilingua). Ad ogni modo, proprio una meticolosa analisi di tali passi cronografici, messi in relazione con le indicazioni fornite dai primi commentatori dell’opera, ha indotto Lamberti ad avanzare l’ipotesi che si debba forse posticipare di un anno la datazione del viaggio rispetto al canonico 1300 riportato in tutte le introduzioni attualmente in circolazione (e niente da fare, se così fosse sarebbe l’ennesima stilettata velenosa di Dante a Bonifacio VIII e al suo Giubileo).

Alla nuova concezione del tempo (nuova si fa per dire, perché ha più di cent’anni) elaborata dalla fisica moderna ha dedicato invece la sua relazione il professor Vincenzo Barone, fisico teorico dell’Università del Piemonte Orientale e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ma anche apprezzato divulgatore (sua la recente e consigliata biografia Albert Einstein. Il costruttore di universi, il cui sottotitolo è un implicito riconoscimento del carattere “poetico” della fisica). Non mi avventuro neppure in quella che sarebbe una riproposizione meramente didascalica dei vari passaggi che dalla relatività speciale di Einstein hanno condotto al teorema di Noether e all’equazione di Dirac: il succo è che, per la fisica, il “tempo” come contenitore vuoto e omogeneo non esiste più, giacché esso scorre con ritmi diversi a seconda, per esempio, della velocità degli osservatori (di qui deriva il celebre esempio dei gemelli e una fetta non indifferente di paradossi fantascientifici). Credo però valga la pena richiamare il suggerimento proposto da Barone, in coda al suo intervento, per trovare una qualche connessione tra questo tempo “scientifico” e il tempo del senso comune. «Il tempo della relatività rende impossibile definire un presente. Ma noi uomini – dice Barone – non siamo solo riconducibili a sistemi fisici. Siamo anche una particolare categoria di sistemi naturali, che raccolgono e usano informazioni», per attaccare le prede e difenderci dai predatori, prima ancora che per elaborare complicate teorie sulla materia (siamo nel quadro della teoria della complessità elaborata da Murray Gell Mann, uno degli scopritori dei quark, del quale si veda, nonostante il titolo vagamente bersaniano, Il quark e il giaguaro, edito in Italia da Bollati Boringhieri). Sistemi di questo tipo hanno bisogno di un presente per strutturare una raccolta di informazioni secondo una successione temporale, e tale processo di decodificazione della realtà si è rivelato fin qui vincente sul piano adattativo, per cui non ha senso rinunciarvi. Il fatto che non vi sia un tempo assoluto ha conseguente – per così dire – “liberali”, rendendo legittimo l’impiego di molteplici possibili criteri per gestire il tempo. Detto altrimenti: «la fisica non determina, ma neanche proibisce».

Spostandoci nuovamente sul piano filologico-letterario, il professor Stefano Casarino ha quindi intrattenuto il pubblico con una vera e propria «scorribanda» (la definizione è sua) nella cultura classica, finalizzata a mostrare le diverse sfumature con cui la tradizione greca, in particolare, ha delineato la propria immagine del tempo. Alle spalle dell’oratore, per tutta la durata del suo intervento, è stata proiettata la riproduzione del Kairòs di Lisippo conservata in un bassorilievo funerario attualmente custodito presso il Museo di Antichità di Torino: un giovane alato con la nuca completamente rasata ma provvisto di folta chioma sul viso, pronta per essere afferrata – proprio “afferrata”, non semplicemente e graziosamente “colta”, come nota Casarino, proprio a sottolineare l’atteggiamento persino aggressivo di chi intende giocarsi bene il proprio tempo acciuffando l’occasione propizia. Esistere nel tempo, per i greci, è al tempo stesso un privilegio e una condanna. Questa nota è stata nuovamente intonata da un grande greco moderno, Constantinos Kavafis: «E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo | per quanto sta in te: non sciuparla / nel troppo commercio con la gente / con troppe parole in un viavai frenetico. | Non sciuparla portandola in giro / in balia del quotidiano / gioco balordo degli incontri / e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea».

E che per certi aspetti la letteratura sia in grado di illuminare strettoie in cui la filosofia rischia di perdersi è un possibile corollario desumibile dall’ultima relazione di giornata, quella condivisa dal professor Enrico Pasini, docente di Storia della Filosofia e di Storia della Scienza presso l’Università di Torino. Il suo intervento ha cercato infatti di individuare una casistica di possibili questioni prettamente filosofiche incentrate sul tema del tempo, spesso e volentieri giocate sul filo del paradosso (alcune di esse vengono richiamate proprio da Agostino nel passo sopra menzionato). Ci sono momenti della storia in cui i filosofi di professione si sono infatti accapigliati su problemi estremamente tecnici, al limite del comprensibile, producendo una letteratura che ha avuto e ha poco impatto al di fuori di un ristretta comunità di studiosi (le scuole epigoniche della tarda antichità, la scolastica tardomedievale, certe branche della filosofia analitica contemporanea): è all’interno di questi mondi che ci si interroga, per esempio, sulla possibilità di alterare il passato o di effettuare viaggi nel tempo (lo ha fatto di recente Giuliano Torrengo in un volume intitolato appunto I viaggi nel tempo. Una guida filosofica). Rompicapo intellettuali – si dirà. Ma è anche vero che quando si esce da questo orizzonte i filosofi finiscono non di rado per ideare, anche in relazione al tempo, categorie un po’ generiche e non particolarmente significative.

A risollevare le sorti della disciplina ci han pensato, a conclusione dei lavori, gli studenti delle classi quarte del Liceo, i quali – guidati dalla professoressa Angela Cucchi, con la collaborazione del professor Lorenzo Vacchetta – hanno allestito un intelligente dibattito intorno all’ulteriore curvatura che la questione del tempo subisce se riletta attraverso l’esperienza ormai totalizzante dei nuovi social media: la tendenza a rendere tutto istantaneo sta infatti provocando un’autentica mutazione antropologica, con la progressiva perdita di pause e tempi morti e una riproposizione in chiave digitale della “mobilitazione totale” di cui parlava Junger ai tempi della Prima Guerra Mondiale (un ultimo consiglio di lettura e poi smetto: Il Cerchio di Dave Eggers). Ma anche questo non è che l’ennesimo rialzo della posta in una discussione per esaurire la quale il tempo che ci è dato non è e non sarà mai abbastanza.

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Simone Mammola è nato e vive a Mondovì con sua moglie Anna, a cui deve di non essere ancora diventato un mero pantofolaio. Dopo una tesi di laurea in filosofia sul medico scettico cinquecentesco Francisco Sanchez, nei tre anni di dottorato ha seguito tra alti e bassi una pista di ricerca confluita infine nel volume La ragione e l’incertezza. Filosofia e medicina nella prima età moderna (Franco Angeli 2012). Se quel titolo non è sparito, potrebbe risultare tuttora cultore della materia presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, dove collabora – anche se ormai un po’ saltuariamente – con il GiSi (Gruppo Interdisciplinare di Storia delle Idee), il Research Group on Early-Modern & Modern Philosophical & Scientific Thought e il Journal of Interdisciplinary History of Ideas (qua e là in rete si possono trovare tracce di questa militanza). Insegna storia della filosofia presso lo Studio Teologico Interdiocesano e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fossano. Per anni si è guadagnato la paghetta scrivendo di calcio locale su L’Unione Monregalese, ma dal 2017 è finalmente professore di ruolo di storia e filosofia presso il Liceo “Arimondi” di Savigliano.