V come Vautier

FULVIA GIACOSA

Le opere più note di Ben Vautier, nato nel 1935 e morto suicida poco dopo la dipartita della moglie nel giugno 2024, sono quelle tra gli ultimi anni Cinquanta e il ventennio Sessanta-Settanta; esse costituiscono un tipico esempio di una tendenza, da parte degli artisti più giovani,  a “traslocare” dall’una all’altra corrente, generando un clima di frizzante sperimentazione generale in nome della libertà da strettoie troppo teorizzanti.  Averlo scelto per la presente scheda ci offre l’occasione di fare il punto su una stagione centrale dell’arte secondo-novecentesca.

Sul finire dei Cinquanta ancora imperversano grandi mostre di Informali americani ed europei, anche se la scomparsa di alcuni protagonisti, tra cui J. Pollock nel ‘56, e la tendenza alla ripetizione segnano l’inizio del tramonto, tant’è che si parla di un crescente accademismo. Contemporaneamente alcuni nuovi gruppi danno vita a un’arte di oggetti attualizzando il Dada storico. Così è, nel decennio 1958-1968, per il New Dada e la successiva Pop Art  degli USA e per il Nouveau Réalisme francese (di cui Ben Vautier ha fatto parte) che il critico e teorico Pierre Restany definisce “un nuovo avvicinarsi percettivo al reale”; essi prevedono la produzione e più spesso il prelievo diretto di oggetti usati, comuni e an-artistici tipici della effimera società consumistica che mettono all’indice proponendone un riscatto estetico. Contemporaneamente, in un coacervo sempre più diversificato, si assiste alla diffusione sia dei movimenti europei di Arte Programmata (Cinetica, Visuale, Gestaltica) che analizzano i rapporti tra arte scienza e tecnologia, sia dell’ Astrattismo Post-pittorico (USA) dal carattere più conservatore per la ripresa dell’arte astratta primo-novecentesca. Impossibile dar conto qui alla miriade di gruppi nati nel giro in pochi anni. Intanto una ricerca ulteriore, fortemente caratterizzata e alternativa, oltrepassa tanto le modalità oggettuali quanto quelle astratto-geomentriche in favore di una sostituzione dell’opera-oggetto (ancora riconoscibile come “prodotto” artistico) con l’agire diretto (happenings, environmental e performances), capace di colmare le distanze tra produzione e fruizione artistica, essendo ormai chiaro il difficile rapporto del vasto pubblico con l’arte contemporanea. Si tratta di Fluxus, gruppo internazionale fondato in Europa da George Maciunas proprio a indicare un flusso continuo di gesti, parole, immagini che si ritrovano nelle “azioni” multidisciplinari degli adepti, toccando questioni sociali politiche e culturali prima ancora che estetiche tant’è che il massimo di visibilità del movimento coincide con il Sessantotto (Fluxus produce molti slogan e manifesti per il movimento studentesco).  La compresenza di cinema, teatro, danza, letteratura, arte suggerisce a Maciunas e compagni di adottare per i propri interventi il termine popolare di “festival”, a partire dal primo svoltosi a Dusseldorf nel 1963, snobbando quelli più aulici usati per i singoli ambiti della cultura “alta” troppo seriosa e introducendo una prospettiva leggera e un po’ caotica, quasi festiva: da qui l’adesione di  Vautier (1965). Le arti plastiche dialogano soprattutto con la musica sperimentale di John Cage e il teatro povero di Grotowski che elimina scenografie costumi luci e persino il palcoscenico del teatro tradizionale per permettere una diretta relazione con gli spettatori. Centrale per Fluxus è l’idea di “anti-arte” che, rifiutando l’identificazione di questa con l’opera progettata e definita “stilisticamente”, si muta in processo, azione, improvvisazione continua.  D’altro canto la riflessione su questi problemi interessa anche la letteratura autre dei Sessanta; scrive Edoardo Sanguineti per la nascita del Gruppo 63: “L’avanguardia si costituisce, alle radici, nella forma della contestazione” e, contro l’imperante mercificazione estetica, “ lo sperimentalismo letterario e artistico trovano, storicamente, il loro punto di congiunzione”. Tra l’altro questa vicinanza tra i due campi ha significato una sempre più frequente presenza della parola nei lavori degli artisti, come avviene nella cosiddetta Poesia Visiva che punta all’ “espansione nello spazio della parola” (G. Dorfles) e anticipa la più concettuale Pittura Visuale dei Settanta. E qui mi fermo per dirvi poche parole su Ben Vautier.

Beniamine (Ben) Vautier è nato a  Napoli nel 1935 in una famiglia colta ma piuttosto conservatrice da padre svizzero e madre irlandese, ma possiamo considerarlo cittadino del mondo anche se, dopo molti spostamenti, a partire dal 1949 risiede principalmente a Nizza. Qui nel 1958 apre un magazzino sui generis di dischi d’occasione, apparecchi fotografici e oggetti vari, presto trasformato in centro di incontro tra artisti. Smantellato nel 1974, viene ricostruito e rinnovato continuamente dall’artista da quando (1977) è stato collocato al Centre Pompidou di Parigi: diventa così una macro-scultura in continua evoluzione, una stravagante “accumulazione” direbbe il suo amico Arman, affiliato come Ben al Nouveau Réalisme. Le pareti sono ricoperte di quadri il cui soggetto consta di brevi frasi in una scrittura corsiva grossolana e ottenuta spremendo direttamente il colore dal tubetto, il che le dà spessore materico, su fondi soprattutto rossi o neri; sono aforismi che registrano i suoi pensieri sulla vita e sull’arte, spesso alquanto ironici, o anche citazioni da testi altrui che lo hanno stimolato e che chiama “appropriazioni”, lavori che lo rendono famoso e ancor oggi immediatamente riconoscibile.l

Personaggio non convenzionale, è disponibile e generoso, come ha dimostrato nel 2002 quando ha partecipato alla mostra cuneese “Parole erranti”, titolo che gli è così piaciuto da realizzare appositamente uno dei suoi tableaux contenente tale scritta.

Vautier è un autodidatta e il suo modello di riferimento è inizialmente Marcel Duchamp con cui condivide l’idea dada che “tutto è arte”, negando l’identità arte-rappresentazione, dunque esperienza meramente ottica (la pittura illusionistica) per aprire la strada all’arte comportamentale (l’azione scenica); Ben teorizza l’anti-arte, anti-intellettuale e anti-borghese, utilizzando un registro ironico e un po’ anarchico. A fine anni Cinquanta si lega agli artisti della “scuola di Nizza” o Nouveau Réalisme (in particolare al citato Arman e a Spoerri); poi da metà Sessanta si avvicina al gruppo Support-Surface (D. Dezeuse, C. Viallat), attento – come dice il nome – alla struttura del supporto e della superficie considerati elementi auto-significanti. Inoltre conosce Maciunas, uno dei primi performers europei, e partecipa alle azioni di  “Fluxus” in diverse occasioni contribuendo alla sua diffusione in Francia. Nei Settanta apre a Nizza alcune gallerie e pubblica la rivista “La Différence” in difesa delle minoranze etniche e sulle questioni aperte del post-colonialismo, temi a cui resterà fedele negli anni. Al di là degli effettivi risultati, Vautier vede nel Nouveau Réalisme il superamento dell’aura che per secoli ha caratterizzato l’opera d’arte unica, sublime creazione di un genio ispirato, idea che ancora vive sottotraccia (il mito informale del “tocco individuale” non è del tutto defunto); di Fluxus ammira l’entusiasmo e la vitalità con cui propugna l’abbattimento delle frontiere tra le arti oltre che tra arte e vita: il suo negozio-scultura è lì a dimostrarlo. Rompere con forme sclerotizzate è l’assillo di questa generazione e Ben Vautier ne è partecipe, prima con i suoi tableaux pieni di scritte poi con le sue installazioni e azioni performative. D’altronde sono gli anni de “La società dello spettacolo” (1967), famoso saggio sulla società mass-mediale di Guy Debord, filosofo-saggista-cineasta e fondatore del “Lettrismo” nel 1952 confluito cinque anni dopo nell’ “Internazionale Situazionista”, due movimenti che Vautier ha frequentato ai tempi del maggio francese (1968) per i quali l’arte contemporanea deve farsi “situazione”, evento, comunicazione  immediata. L’arte di Vautier si caratterizza per una libertà interpretativa delle varie estetiche con cui è venuto a contatto evitando eccessi dogmatici. Sembra che l’artista non voglia prendersi sul serio ma piuttosto offrire un intervallo scherzoso, ironico e autoironico, insomma demitizzante, a visitatori che si possono rilassare e anche divertire, dimenticando la durezza dell’esistenza e la seriosità di un’arte eccessivamente concettuale e poco democratica che finisce di rivolgersi ai soli addetti ai lavori. Ciò avviene grazie all’abolizione dei confini tra esperienza estetica e dimensione quotidiana che recupera il piacere di leggere, vedere, partecipare, immaginare. L’arte si fa gioco (non a caso nelle sue installazioni compare spesso una culla, si veda quella su cui sta scritto “Je n’ai rien à dire”) e tentativo di recuperare l’innocenza infantile, impresa ardua -ahimè- eppure urgente. Con le sue scritte l’autore parla della propria quotidianità e soprattutto dell’arte in un modo così schietto che chiunque la comprende; le sue frasi, anche quando non hanno il punto interrogativo, paiono una raccolta di “forse” più che di dichiarazioni (“il materiale con cui lavoro sono i dubbi”, dice): l’arte è “solo domande”, non c’è alcuna verità assoluta, o almeno non c’è più nell’oggi. Qualche esempio tra i tanti possibili: “mots ou peinture?”, pourqua je ecrire”, “l’art est partout”. In alcune opere tridimensionali si sente l’influsso dei ready-made duchampiani: lo si nota esplicitamente in “Tout à 10F. le destine de l’art” che ripropone la “Boîte en valise” del maestro francese, una scatola in cui Duchamp aveva messo immagini in miniatura delle proprie opere, mentre Ben la riempie di cianfrusaglie a poco prezzo: “tutto è arte”, solo la firma dell’autore e la sua sistemazione in un museo conferiscono lo statuto di opera. Una delle prime performance di Ben, svoltasi sulla Promenade des Anglais di Nizza (1962), è una porta che i passanti sono invitati ad attraversare dalla scritta entrez (“tutte le persone che passeranno attraverso la mia porta diventeranno opere d’arte” assicura l’autore!). A Duchamp e al Nouveau Réalisme (ancora produttori di oggetti che finiscono nelle gallerie o nelle collezioni private) si aggiunge qui il tipico atteggiamento di Fluxus nel favorire l’accesso diretto all’arte, al di là dei luoghi comuni e delle letture erudite. Giustamente la critica gli ha riconosciuto di aver influenzato, fin dai primissimi anni Sessanta, la nascente Pop art per l’eliminazione dei confini tra originale e copia (le “appropriazioni” di frasi altrui), tra popolare e colto (modi di dire-frasi fatte-proverbi vs citazioni letterarie). Il tutto governato da humour e ironia, impegno ed evasione di fronte all’insensatezza del mondo.

Insomma una ventata d’aria fresca, facilmente godibile da chiunque, l’amore per la vita sempre e comunque.

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