Storie di anelli, crociate e uomini illuminati

Frederico II, a sinistra, incontra il sultano al-Kamil, a destra (pubblico dominio).

Frederico II, a sinistra, incontra il sultano al-Kamil, a destra (pubblico dominio).

LAURA BONFIGLIO

Nella prima giornata del Decameron la giovane Filomena introduce la novella che sta per raccontare evidenziando come un comportamento sciocco e superficiale porti a gravi conseguenze per sé e per gli altri; diversamente la saggezza e l’intelligenza aiutano gli uomini a vivere meglio evitando grandi pericoli.
La storia allegorica raccontata dalla giovane fanciulla affronta il tema della tolleranza religiosa e dell’uguaglianza delle fedi e narra del Sultano Saladino, il quale in gravi difficoltà finanziarie, cerca di ottenere denaro da Melchisedech, un ricco ebreo, ma conoscendo la sua grande avarizia e non volendolo fare con la forza, gli pone una domanda trappola, chiedendogli quale sia la religione più vera tra l’ebraica, la mussulmana e la cristiana.
Melchisedech, per evitare di offendere il Sultano scegliendo una fede a discapito delle altre, racconta la storia dei tre anelli, la storia cioè di un uomo che, avendo tre figli e volendo alla sua morte lasciare loro un prezioso anello, lasciato a lui in eredità, anello incastonato di gemme e dotato di poteri taumaturgici, ne fa fare due copie identiche tanto che nemmeno lui era più in grado di distinguere l’originale e ne dona uno a ciascuno.
Alla morte del padre ognuno dei tre fratelli rivendicò di essere il vero erede perché in possesso dell’anello ma quando capirono che tutti avevano ricevuto in eredità lo stesso anello rimase pendente la questione.
La storia insegna che, così come non si può distinguere l’anello originale, non si può stabilire con certezza quale sia la religione vera, e che tutte le fedi meritano rispetto.
Il sultano Saladino comprende l’astuzia di Melchisedech e, colpito dalla sua saggezza, non solo rinuncia a estorcergli denaro con la forza ma gli espone le sue difficoltà con grande sincerità ricevendo la somma che fu poi interamente restituita; non solo ma stringe con lui un’amicizia basata sulla stima reciproca.

La novella dei tre anelli è un esempio di come nel Decameron Boccaccio riesca a veicolare messaggi di tolleranza e rispetto, superando i pregiudizi e le divisioni religiose del suo tempo, un periodo storico in cui erano da poco finite le crociate, quella serie di campagne militari promosse dalla Chiesa cattolica tra l’XI e il XIII secolo, con l’obiettivo principale di riconquistare la Terra Santa, in particolare Gerusalemme, e i territori circostanti, dalle mani dei Mussulmani. Queste spedizioni, spesso definite guerre sante, coinvolsero cavalieri, nobili e popolazioni europee, lasciando un’impronta significativa nella storia del Mediterraneo e nei rapporti tra Occidente e Oriente. In una sua conferenza, Roberto Celada Ballanti ricostruisce la Parabola dei tre anelli perché è una storia non solo ricca di fascino ma perché parla a ciascuno di noi, uomini del ventunesimo secolo, delle tre religioni del Libro: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. E lo fa rilevando che la lacuna lasciata dall’ anello autentico confuso con le copie, insinua il dubbio su chi possegga l’originale: ci parla di quel vuoto, che esclude la pretesa di possedere l’originale, di avere in tasca la verità, l’unica verità e ricordando la vanità della chiusura e dell’intolleranza.
Di questa novella molto si è parlato nei secoli e in vari luoghi, dal secolo VIII a Baghdad fino al dramma di Gotthold Ephraim Lessing Nathan il Saggio.
Ha origine quasi certamente orientali ed è giunta in Europa attraverso la Spagna islamica, contaminando cultura ebraica e cristiana; nel periodo storico in cui visse Boccaccio, la peste nera, che arrivava dall’Oriente, dilagò in Europa mettendo in discussione il senso dell’esistenza e pure l’idea di Dio poiché nessuna preghiera o processione servì a frenare la morte, la tragedia che colpì tutti, uomini ed animali.
Dice Celada Ballanti: “la peste è il male che conduce a ripensare all’esistenza”, ma Boccaccio non ci dice se è un castigo divino per le azioni malvagie degli uomini lasciando la questione senza risposta; nessuno trova una giustificazione di fronte al male.
La parabola ci indica una strada possibile cioè quella di ospitare il dio straniero nella nostra coscienza, di esporsi al dio dell’altro e farlo proprio se siamo credenti. Questa concezione esalta il pluralismo perché ci dice che ogni religione ha un pezzetto di verità ma ha come conseguenza una sorta di relativismo perché i tre figli devono considerare tutti gli anelli come autentici ma la leggenda dice che solo uno lo è.
L’eredità, il peso dei Padri, è una grande responsabilità e in alcuni casi può portare anche in errore facendoci dimenticare di tornare alle cose stesse, a noi stessi e agli altri e non alla guerra e alla morte.

Nella storia delle Crociate una si distingue dalle altre: la Crociata della pace, quella portata avanti da Federico II di Svevia tra il 1228 e il 1229.
A differenza delle altre crociate, ci racconta Fulvio Delle Donne, professore di Letteratura latina medievale ascoltato ad una sua conferenza, questa si concluse con un accordo diplomatico con i Mussulmani, evitando lo scontro armato, e portò alla riconquista di Gerusalemme senza spargimento di sangue.
La sesta crociata, guidata da Federico II, fu un evento unico nel suo genere: infatti l’Imperatore svevo, nonostante fosse stato scomunicato dal Papa, riuscì a negoziare con il sultano ayyubide al-Kamil, ottenendo la restituzione di Gerusalemme e altri territori cristiani. Questo accordo diplomatico, noto come Pace di Giaffa, permise ai crociati di rientrare in possesso della città santa senza combattere. L’impresa di Federico II fu considerata straordinaria per l’assoluta assenza di violenza e fu l’unica crociata a concludersi senza battaglie: da scomunicato ottenne ugualmente risultati significativi, quali la restituzione di Gerusalemme tramite trattative, non con la forza. Peccato che, nonostante il successo diplomatico, la Pace di Giaffa fu di breve durata. Nel 1244, i Corasmi, popolazione in fuga dall’avanzata dei Mongoli, invasero e saccheggiarono Gerusalemme, mettendo fine al controllo cristiano sulla città.
Ma la crociata della pace di Federico II rimase nella storia come esempio di intelligenza politica e di come la diplomazia possa essere utilizzata per risolvere conflitti e raggiungere obiettivi, anche in contesti storicamente segnati dalla violenza come le crociate. Federico II di Svevia, durante il suo regno, fu visto come una minaccia dal Papa e fu coinvolto in una serie di conflitti culminati con la scomunica, che gli impedì di partecipare alle cerimonie religiose: Gregorio IX arrivò a vedere in lui l’anticristo. Dante, nella Divina Commedia, lo collocò nell’inferno, canto XIII, tra gli eretici.
Quella di Gregorio IX fu essenzialmente una “crociata contro Federico II” perché il Papa non gradiva l’amicizia che l’Imperatore coltivò con il sultano Al-Malik al-Kamil, sovrano dell’Egitto della dinastia ayyubide.
La loro amicizia, o meglio, la loro relazione diplomatica, fu fondamentale per la conquista e la successiva restituzione di Gerusalemme ai cristiani durante la Sesta Crociata.
Al-Malik al-Kamil e Federico II si scambiarono ambasciate e lettere, arrivando ad incontrarsi nel 1229 a Giaffa. Questo incontro portò alla firma del Trattato di Giaffa, che garantiva ai cristiani il controllo di Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, pur mantenendo la libertà di culto per i Mussulmani nei loro luoghi sacri.
L’Imperatore e il Sultano furono due figure di spicco del mondo medievale, nonostante le differenze religiose e culturali.
Dotato di grande fascino, ammantato di un aura mistica, Federico II fu considerato l’Imperatore della fine dei tempi fin dalla sua nascita, l’uomo che avrebbe unito Occidente ed Oriente, dopodiché avrebbe deposto la sua Corona e la sua spada sul Golgota, ai piedi della croce di Cristo, portando la pace in tutto l’Universo. Questa profezia fu fatta da Gioachino da Fiore, monaco e teologo, che studiò le Sacre Scritture e l’Apocalisse di Giovanni; viaggiò molto in Terra santa e calcolò che la fine dei tempi sarebbe arrivata durante il regno di Federico II.
Mentre Dante Alighieri inserisce il monaco nella Divina Commedia tra i beati sapienti, Papa Francesco lo ha citato nel 2024 perché seppe indicare l’ideale di un nuovo spirito capace di prendersi cura del creato.

Un uomo che vogliamo ricordare come esempio di questo nuovo spirito è certamente Padre Dall’Oglio, che fondò in Siria la comunità monastica cattolico siriaca Al Khalil a Mar Musa, monastero ubicato nel deserto a nord di Damasco; impegnato nel dialogo interreligioso con il mondo islamico viene rapito e scompare il 29 luglio 2013. Di lui rimangono alcuni scritti tra cui “Lettera di Paolo Dall’Oglio” in Sotto la tenda di Abramo di Ivo Saglietti.
Nei secoli che seguirono le Crociate il dialogo interreligioso assunse approcci molto diversi: dal Milleseicento in avanti molte guerre religiose si susseguirono a cominciare dalla guerra dei Trent’anni che coinvolse i Cristiani, ma contemporaneamente si sviluppò un grande interesse per altre fedi quali Giudaismo e Islam, interesse alimentato dagli scambi commerciali.

Nel XVIII secolo, con la nascita dell’Illuminismo alcuni studiosi razionalisti misero in discussione le religioni tradizionali e studiarono le filosofie orientali mentre nell’Ottocento il colonialismo portò a conoscere altre culture, soprattutto asiatiche ed africane: il buddismo e l’induismo in primis, mentre le missioni cristiane si diffusero ovunque portando anche a conflitti con le popolazioni locali.
Nel Novecento, nonostante il colonialismo francese in Algeria creò tensioni che sfociarono prima nella guerra, dal 1954 al 1962 e poi nell’indipendenza del paese, alcuni monaci trappisti fondarono il monastero di Tibhirine, a sessanta chilometri da Algeri, instaurando rapporti con la popolazione locale, a volte buoni a volte difficili.
Ma nel 1989 il cambiamento politico strutturale ha delle ripercussioni anche sulla vita dei monaci del monastero che, dopo un periodo difficilissimo di continue perquisizioni, vengono rapiti e uccisi nel maggio 1996. Scoppia la guerra civile e gli stranieri devono lasciare il paese. Da un’inchiesta iniziata nel 2013, gli esperti francesi sono arrivati alla conclusione che i monaci sono stati decapitati. I loro corpi sono stati restituiti finalmente alle famiglie.
Ci auguriamo che il rapporto tra il monastero trappista e il mondo mussulmano continui per non rendere vano il sacrificio di quegli “uomini di Dio” che volevano solo conoscere l’altro, semplicemente, condividendo lo spirito di servizio e la ricerca di un dialogo pacifico con l’Islam.
Guido Dotti, monaco di Bose, comunità monastica biellese, ha parlato durante una conferenza della rassegna “Rotte di medio mare” del tema del dialogo tra le sponde del mediterraneo e della solidarietà verso tutti i naufraghi della storia e degli scambi avvenuti tra i popoli di questo Mare.

(A cura di Silvia Pio)