È a tutti nota la descrizione che Giacomo Leopardi fa di un giardino, all’apparenza luogo di armonia e vita, come di un “vasto ospitale”, attraversato da indicibili sofferenze, come metafora di tutta la natura, concezione che lo avvicina alla visione del contemporaneo Schopenhauer, per il quale l’istinto naturale o volontà di vivere non ha alcuna finalità se non quella di perpetrare se stesso, producendo altro dolore, prospettiva a sua volta affine a quella della tradizione buddista, per cui la vita è sofferenza a cui sono soggetti tutti gli esseri, che può essere però superata grazie a un distacco che spezzi il ciclo delle rinascite (o del desiderio). D’altro canto, il racconto biblico della creazione del mondo è un inno alla bellezza e armonia del creato, popolato da acque, cieli, terra, piante e animali che fanno corona all’esperienza adamitica dell’Eden, un giardino incantato di delizie, fonte di gioia intima. E se il peccato spezzerà l’armonia infinita che era destino dell’umanità, la sua riconquista diverrà l’intimo imperativo sotteso a tutta la storia umana, responsabile anche della redenzione del creato stesso, con l’aiuto di un Dio che, già nell’episodio mitico del diluvio universale, non manca di ristabilire con l’uomo e le creature una rinnovata alleanza.
Così, da sempre, la riflessione umana, di fronte alla straordinaria ricchezza del creato, della natura e della vita stessa non può tuttavia che prendere atto dell’altrettanto straordinaria ambivalenza che l’attraversa, per cui essa è una benedizione e un dono, ma anche una prova e una sofferenza. La teologia cristiana ha elaborato la categoria di peccato originale per spiegare proprio tale ambivalenza, sottolineando che il ruolo dell’uomo appare più che mai quello di medium atto a redimere tale ambiguità, in un diuturno processo di incarnazione ut sit Deus omnia in omnibus (1Cor 15,28). Ma purtroppo quello che dovrebbe essere il medico diviene troppo spesso aguzzino, fonte di sofferenza per sé ma anche per le altre creature. Mentre infatti si evidenzia la presenza in natura di un ordine intrinseco che, persino nelle pieghe all’apparenza più crudeli della catena alimentare, esprime una sorta di misura, per cui un carnivoro non farà mai soffrire inutilmente la sua preda, ma userà solo la forza necessaria a sopprimerla per alimentarsene, l’essere umano ha inventato una sorta di efferatezza sistematica, per esempio nei propri sistemi di produzione e consumo, per cui all’animale vengono inflitti patimenti inutili ed estremi.
Il sistema economico in cui viviamo ha infatti intensificato oltre ogni misura la pratica dell’allevamento intensivo che in Italia coinvolge l’85% dei polli e il 95% dei maiali, mentre in Europa l’80% degli animali che finiscono sulle nostre tavole provengono da simili allevamenti. Tali realtà produttive, per massimizzare i guadagni e ridurre i costi, rinchiudono miliardi di animali (scrofe, galline, conigli, vitelli, ecc.) in anguste gabbie o spazi dove, ammassati, è loro scientificamente impedito di muoversi, ai fini di facilitarne l’ingrasso e l’ottimizzazione dei tempi per l’avviamento al macello. Il controverso problema della vivisezione presenta tratti, se possibile, persino più truculenti, analogamente a quello delle ricerche legate alla cosmesi per creme e prodotti di bellezza, testate in quantità industriale su poveri animali per verificarne gli eventuali effetti tossici.
A tutto ciò ha condotto un duplice pregiudizio, di matrice religiosa e filosofica. Padre Martin Lintner, autore di “Etica animale. Una prospettiva cristiana” (Queriniana, 2020), sottolinea infatti come, nell’etica cristiana legata alla teologia della creazione, sia presente storicamente una grave lacuna, che non focalizza adeguatamente il rapporto uomo-animale, considerando il secondo termine come ininfluente perché riferibile a soggetto privo di ragione e di anima immortale. Quanto al pregiudizio filosofico, ancora una volta, appare responsabile il dualismo cartesiano che, separando res cogitans e res extensa, avrebbe derubricato gli animali al rango di macchine prive di qualsiasi grado di consapevolezza e, dunque, da trattare come tali, con esclusione dalla “comunità morale”. Inutile dire che gli studi e le scoperte scientifiche successive, da Charles Darwin a Konrad Lorenz, ci hanno resi invece sufficientemente edotti della intelligenza, della consapevolezza, della sensibilità e della capacità di comunicazione e trasmissione di saperi che ha luogo nel mondo animale, anche se i suoi sistemi di relazione e linguistici ci appaiono ancora in gran parte da decodificare.
Ma soprattutto l’etica contemporanea si è giustamente domandata se debbano essere considerati soggetti di diritto, ossia coinvolti dalla dimensione morale, e dunque da obblighi di rispetto della propria integrità, solo soggetti in grado di pensare, secondo l’accezione umana del termine, oppure se a qualificare un agente come avente diritti non sia piuttosto la sua capacità di sentire, e dunque di soffrire, senz’altro comune a tutto il mondo animale, in quanto attitudine rivelativa di una qualche forma di consapevolezza. Alla luce di innumerevoli esperienze e acquisizioni scientifiche, sembra dunque che l’uomo occidentale debba prendere coscienza di aver mantenuto sino ad ora un approccio inadeguato alla complessità dell’esistente, causando gravissime sofferenze alle altre specie e squilibri inauditi al pianeta. A contrastare questo approccio si sono sempre più affermate concezioni che rivalutano interdipendenza e relazione fra gli esseri umani, le altre forme di vita e l’ambiente stesso, come il biocentrismo, che conferisce statuto morale a ogni forma di vita, e l’ecocentrismo, che attribuisce considerabilità morale all’intero mondo naturale a ai suoi ecosistemi, come aria, acqua e suolo. Tutte queste concezioni, sfrondate dai rispettivi radicalismi, ci aiutano ad assumere un atteggiamento meno egocentrico nei confronti del creato, e a riconoscere valore alla biodiversità ma, anche, nell’apertura al diverso da noi, a interloquire con la straordinaria ricchezza degli esseri che popolano questo nostro mondo e, in particolare, di quegli animali a cui la scienza va sempre più riconoscendo un valore non solo in quanto specie, ma in quanto individui, dotati cioè di caratteristiche specifiche come soggetti, che hanno certe qualità e attitudini piuttosto che altre.
Occorre una visione in cui, riguadagnata una prospettiva globale, tutto l’esistente sia finalmente considerato come dotato di una propria finalità o bontà intrinseca – meritevole di amore e di salvezza per sé –, di quella santità ontologica cioè che al creato converrebbe proprio in quanto manifestazione di un fondamento che tutte le tradizioni spirituali designano come sommamente santo. Così, come chiosa il Libro della Sapienza, “…tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata” (11,24).
Scrive Gino Ditadi nella Premessa al suo “I filosofi e gli animali” (AgireOra Edizioni, 2021): “Il riconoscimento dell’alterità frantuma il chiuso universo della pretesa autarchia intra-speciem e comporta l’apertura ad un orizzonte immenso, che potrebbe essere di comunicazione e di pace, di ampliamento del potenziale interpretativo, immaginativo, conoscitivo. Non più la conoscenza come dominio, ma come ascolto e dialogo con l’oceano della vita”. Per questo occorre considerare come emblematico il rapporto che molti santi ebbero con gli animali, come ricorda Annalisa Ruffo, soffermandosi in special modo sull’esperienza di San Francesco d’Assisi: “Quella che i santi spingono a praticare è l’idea che si deva vedere la creazione dal punto di vista di Dio e non dal punto di vista umano. […] La stima di Francesco verso gli animali non è semplicemente estetica, ma ontologica: egli sa che in qualsiasi modo le creature appaiano, esse hanno la stessa importanza agli occhi di Dio. Ogni animale che Francesco chiama, esorta, nutre, non è un animale, è quell’animale; ognuno diverso da ogni altro, come fosse una persona umana. […] Tutte le creature vengono nobilitate alla loro funzione più alta: lodare e glorificare il Signore” (Mistici, Santi e Animali, “Veganok.com”, 11.09.2010).
L’obiezione tuttavia più frequente a chi reclama con urgenza attenzione e impegno verso la condizione animale è quella della sua presunta ininfluenza rispetto all’emergenza della sofferenza umana (fame, guerre, ingiustizie, ecc.), cui lo scrittore Michel Damien così risponde: “Quante discussioni per sapere se è meglio proteggere gli orfani di guerra e i bambini percossi dai genitori nei tuguri urbani oppure i cuccioli di foca sgozzati vivi sulla banchisa o gli orsi che impazziscono nei giardini zoologici! Come ha potuto la coscienza cristiana, la coscienza umana crearsi simili dilemmi? Tutto è da scegliere, tutto è da fare. Nessun essere fra quanti soffrono e muoiono deve essere escluso” (Gli animali, l’uomo e Dio, Piemme, 1987). E Papa Francesco, nella enciclica Laudato si’ (2015), ricorda: “La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati” (cap. VI, IX, 243).
Il problema della civiltà tecno-capitalistica contemporanea non è però in primis un problema di relazione col mondo naturale, e animale in particolare, ma un problema di senso perduto, a fronte di un orizzonte sempre più ristretto, rivolto all’appagamento compulsivo di bisogni immediati, che coinvolgono natura, animali, e persino gli altri esseri umani, in una prospettiva di mero utilizzo consumistico. Così, se in periodo di lockdown da Covid in Italia le adozioni di cani, gatti e animali domestici sono aumentate a dismisura, una volta ripreso il ritmo di vita abituale, molti di questi animali (117mila cani, ad esempio) sono stati riportati negli allevamenti dove erano stati presi, affidati ad altri e, talvolta, abbandonati. La perdita di senso nella civiltà tecno-capitalistica è allora, più in generale, una questione di disaffezione o disamore che attraversa l’umano e tutto ciò che esso coinvolge. Può darsi che il mondo animale, con la sua tenerezza e il suo umile affetto, abbia in proposito una lezione spirituale da darci.
(da Claudio Sottocornola, A che punto è la notte?, Oltre Edizioni, 2024, versione integrale pp. 20-50)