47. Dire tutto e nulla tacere

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DINA TORTOROLI

Luigi de Medici era un suddito e un cortigiano, ma pare consapevole di questa sua condizione sociale soltanto nel 1797, perché tre anni prima egli aveva agito con la dignità e l’orgoglio di un libero cittadino, dimostrandosi del tutto incurante dell’indispensabile prudenza nonché di “sopraffini accorgimenti”.
Chi aveva a cuore la sua sorte  lo aveva – a suo dire «tuttogiorno assordato: la corte essere in rumore: gran danni temersi da lui, la regina in ispavento, tutt’i cortigiani sossopra, quasi una gran disgrazia sovrastasse» (la sottolineatura è del Medici).
La sua reazione?: «Io il prendeva con indifferenza, né mai mi lasciai indurre di presentarmi ai sovrani, e far loro conoscere l’insussistenza di queste ciarle riputando starmi male andare a fare giustificazioni di cose incredibili».
Incredibili è parola-chiave, da mettersi in relazione con le motivazioni: «per l’innocenza di mia coscienza, e perché poco esperto in cotesti raggiri».
Al Medici serve la sofferenza di due anni, otto mesi  e due giorni, causata da un trattamento illegale e feroce, per essere in grado di accettare la lagrimevole realtà, da lui sintetizzata con la sarcastica asserzione: «Che il Cavalier Medici non sia giacobino quantunque il dimostri con argumenti chiarissimi non si vuol facilmente credere: ma che lo fosse bastò a non dubitarne che Annibale Giordano il mettesse per iscritto».
Bastò, perché a Corte si trovavano uomini capaci «di bassezze, di dolo, di intrighi, di calunnie», proprio come fra la gente «di strada», fra la gente «da poco».
Giustamente è stato detto che “il male non è appannaggio di una sola classe sociale”, e Luigi de Medici ne era consapevole, ma provò sgomento nel constatare che esistevano magistrati fedifraghi, che osavano sospettare lui – niente meno –  colpevole del reato di fellonia.
E la sera del 27 settembre 1795 egli dovette prendere atto che le sue doti morali erano impudentemente dimenticate, la sua dignità oltraggiata, la sua buona fede tradita anche dal Re. Infatti,  alla fine del Consiglio di Stato straordinario, il Sovrano avallava la turpe trasformazione del Medici  in “preso di Stato”, mentre invece non prendeva alcun provvedimento contro il ministro Acton, nonostante da alcuni giorni fosse stata diffusa la Lettera*, che ne denunciava le nefandezze.
Ho desunto le citazioni da un manoscritto autografo del Medici, conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, intitolato Anno 1797. Del mio costituto: un resoconto avvincente, drammatico, emozionante a tal punto che ho voluto pubblicarlo**.
L’incipit non presenta parole allarmanti: neppure una:
«Noterò qui per mia memoria le formalità usate nel mio costituto: forse un giorno mi gioverà averle messe per iscritto trattando d’un avvenimento che merita aver luogo nella istoria della nostra vita».
Però, immediatamente dopo, il racconto  dell’arrivo a Gaeta*** delle  persone “le quali dar dovevano in faccia il giuramento in luogo della convalida in tortura cui erasi dispensato per regio rescritto” rivela il doloroso sarcasmo insito nella parola “formalità”,  con cui  è definito l’obbrobrioso  modo di procedere dei Magistrati in questa circostanza.
In Luigi de Medici si ravviva il perseverante esprit de raillerie:
«Non è egli esprimibile con quanta gelosia coteste persone fossero state condotte temendosi ch’elle non istessero salde a ratificare: quindi oltre agli scrivani della causa i quali a guisa di confortatori eran loro sempre a lato perché alcuna tentazione non li distogliesse da’ buoni propositi, v’era il Mag.re della Piazza di Napoli Cancellieri, una buona banda di soldati di Calabria, un tal Lemene capitano di sbirri, e parecchi altri dello stesso carato: tutti studiosamente curando che non si usasse loro seduzione. Oh Dio seduzione… Passiamo avanti. Or questa giudiziaria caravana giunse in Gaeta sull’imbrunire della sera del 3 Ottobre [1797]: Non tutti però eran condotti come carcerati, poiché dieci soltanto erano stati estratti da’ regii castelli ov’eran detenuti, e altri nove (essendo i giuratori in tutto diciannove) cred’io che stessero sulla parola d’onore. Quindi a’ dieci fu destinata una prigione, del castello: e qui primamente ebbi notizia dell’arrivo di questa nobile brigata, essendo passata per dinanzi il mio carcere scortata dagli anzidetti accompagnatori.
Oh Dio che lugubre processione! Questi sono i testimoni di Medici, rispondevano gli accompagnatori
a chi domandava loro chi si fossero, e che venissero a fare. Povero Medici: ti convinceranno!
Il carcere destinato non piacque al Sig.r Cancellieri sembrandogli disaggiato, e non convenevole alloggio per persone le quali cotanto avevano ben meritato dal Fisco: Si pensò dunque alloggiargli al monastero di S. Francesco mettendovi una guardia per custodia. Eccoli dunque in capo a un’ora li sento ripassare, ma non mi persuasi già ch’il riflesso compassionevole del disaggiato luogo cagion fosse stata del cambiamento ma sì bene la troppa vicinanza al Sig.r Medici, demonio, uomo dell’arte, scrivano vecchio quai dubbj mai non doveva destare nelle meticolose coscienze degli esecutori della Giunta di Stato? Passaron dunque a S. Francesco: ma eccoti a capo a due ore arriva un’ajutante di campo del Capitano G.le Pignatelli che picchia le porte di Gaeta, grida cose di gran momento gli si apra subito: e tanto fu lo bisbiglio che si mosse nella piazza che fece nascere l’equivoco che lo stesso Cap.o Gen.le Pignatelli fosse alle porte! Corrono tutti gli uffiziali della guarnigione con il G.le della piazza alla testa si apre la porta, ed entra gridando D.n Giuseppe Castrone: Subito i Giuratori, e gli scortatori eschino di Gaeta, vadano a Mola a Garigliano, a Sessa, ovunque, ma non più qui: le mura, l’aria tutto tutto puol’esser di danno del Fisco. Ed eccoti i poveri Giuratori sloggiati da S. Francesco, e subito menati a Mola, e da là all’osteria di Garigliano: e quando Castrone vide tutto ciò a piena soddisfazione de’ suoi superiori eseguito, pianse di gioja».
È irrinunciabile far conoscere la “Nota” aggiunta in un secondo momento da Luigi de Medici:
«Egli è bene ch’io noti a futura memoria chi si fosse questo signor Castrone. Io il lasciai Guardia del corpo e con processo compilato dalla Piccola Giunta di Stato convinto reo di falsa denuncia. Seguito poi il mio arresto mi vien detto che sia stato uno degli istromenti adoprati a sedurre gente contro di me: e questa sua opera essendo intanto dipinta agli occhi de’ Sovrani siccome meritevolissima di premio e lui stesso attaccatissimo alle reali persone gli è valso esser stato fatto aiutante in campo del G.le Pignatelli e specialmente incompensato a vegliare al buon’ordine della città. Or a vedere che sia inviato (lascio di dire altre sue vituperj) un mio capitale nimico ad assistere, e mescolarsi tra persone che dovevano contro di me giurare, non è egli mostrare che fin le apparenze del giusto, e dell’onesto sieno state bandite? Eravi ancora tra gli accompagnatori, o vorremmo dire confortatori un tale D.n Pasquale Bosco. Or mi si dice (non conoscendolo né del suo nome sovvenendomi) che costui si sia una spia a soldo della Giunta, ed anch’egli tra i più famosi istrumenti di questo vituperevole giudizio. Dio buono se cotesta generazione d’uomini si puol tolerare quando hanno a dar lumi al Governo su di cose che altronde non si potrebbero sapere, vederla poi mescolata negli atti più sagrosanti de’ giudizi, singolarmente contro d’una persona della mia dignità, quai sospetti non genera di violata verità!».
Ritorniamo al resoconto degli accadimenti:
«Il 4 arrivò a Mola il G.le Acton e prese alloggio alla casa di Capossele: la Giunta poi l’indomani cinque di buon’ora, e prese alloggio alla locanda. Fin dalla sera innanzi erasi il dì 5 fissato per lo costituto, ed il G.le della Piazza me l’aveva fatto sapere perché mi trovassi all’ordine. Quindi di buon mattino i correi giuratori rientrarono in Gaeta raddoppiate sempre più le cure a tenergli saldi nel proposito e verso le sette arrivò il G.le Acton, e da lì a poco la Giunta ed andaronsi a trattenere a casa del Governatore […]. Fu risoluto che nello stesso castello si dovesse l’atto adempire: e venne il Mag.re Cancellieri spedito a trovar luogo a tutto. […]  Circa le nove sentii batter la marcia segno dell’arrivo del Cap. G.le Acton: e da lì a mezz’ora in circa fui mandato a prendere per Cancellieri. […] Ci incamminammo all’Atto fatale.
Eran le mie gambe assai indebolite per la lunga chiusura di quasi trentadue mesi: onde mal reggendomi in piedi nonostante che il tratto non fosse lungo m’ebbi ad appoggiare a Cancellieri, e gli dissi: Sig. Cancellieri, se io avessi gambe come coscienza, sfiderei il più bravo corridore; ach’egli umanissimamente mi replicò non dubitar punto di mia innocenza. Giungemmo poi al luogo della Giunta […]. Sedeva intorno d’una tavola in forma di Tribunale sedendo in testa il G.le Acton come presidente, e dintorno Bisogni, Vanni, Salomone e Jannucci secondo l’ordine delle proprie dignità, o anzianità. Fermatomi alcun momento nell’anticamera venni introdotto alla presenza della Giunta. L’aspetto mi pareva pien di decoro, e di maestà e senza una buona coscienza il coraggio mi sarebbe mancato, nonostante ebbi a raccogliermi alcun poco ponendo mente che se mi perdeva d’animo non avrei più avuto occasione di neppur tentare la mia giustificazione. Rassettatomi dunque feci al rispettabile congresso un umilissimo inchino, e fummi corrisposto con senatoria gravità; ma poiché non vedeva sedia per me preparata (onor per altro ch’a rigor sommo non mi doveva spettare) ebbi avvertenza di subito appoggiarmi al muro dirimpetto al G.le Acton per così sostenermi mal reggendomi in piedi.
Ed eccomi al gran colpo di scena. Aveva Vanni una carta in mano co’ nomi di coloro che dovevano convalidare, o sia dare il giuramento in luogo di convalida. Gli prese dunque a chiamare l’un dietro l’altro, e diceagli così: È egli vero quel ch’avete deposto? Dunque giuratelo: e lo stesso fu detto a tutti diciannove, né quest’Atto durò più di quattro minuti. Ma le deposizioni quando erano state lette a costoro? Posso francamente asserire che neanche prima della mia entrata in Giunta poterono esser lette loro: imperòche dall’arrivo della Giunta nel castello all’esservi io introdotto neanche mezz’ora di tempo ne scorse, ed a leggerle tutte diciannove neppure ott’ore sarebbon state bastevoli. […] Dovevansi dunque a’ correi confessi leggere le confessioni tutte intere. E dipoi eglino, di propria bocca rifacciare al correo nominato la parte sostanziale ch’il riguardava. Quai vantaggi ne avrebbe potuto il correo nominato ritrarre? Poteasi il confesso disdire o malconciamente ripetere il già scritto, o in altra guisa dare a divedere che ivi avesse mentito: ma comunque mi avessi potuto giovare di questo mancamento al buon’ordine d’un giudizio capitale, m’avvisai esser meglio passarci sopra, e non espormi ad esser preso il mio dubbio a paglietteria il che, poteva oscurare di nebbia quella chiara luce ch’io aveva in animo spargere col mio costituto sopra cose così lungamente tenute buje a studio.
Or tutt’i diciannove eran  confessi o con piena impunità, o affidati alla R. clemenza che val lo stesso a torre affatto il pregio della spontaneità. Ma quai tempi, Dio immortale! Fuvvi mai giudizio non che nel nostro, ma in alcun’altro fòro d’Europa in cui a tutt’i correi fosse stata data impunità? V’è l’impunità ne’ delitti occulti perché il giudice abbia in mano quel filo che l’ha a condurre in via: ma farne scopo non è far intendere il suo intendimento che chiunque vuol esser salvo non ha altro scampo che metter in ballo quel cotal innocente ch’è stato preso a bersaglio? […] Reca ancor maggior meraviglia che non tutt’i diciannove erano tenuti carcerati, ma soli dieci come dissi poc’anzi e gli altri nove, o eran spontanei denunciatori o se stati in carcere, in premio della denuncia rimessi in libertà, e quel che più fa raccapriccio, attualmente a stipendio di spia della Giunta di Stato. O tempora, o mores! Ed a questa generazione d’uomini si risparmia il rossore di comparire a lato al carnefice, e sotto la corda per convalidare secondo il rito giudiziario le loro confessioni? Or di tutti diciannove non ne conobbi che due soltanto lo scrivano Fiorillo, ed un tal Paone giudicato di liberetur in forma nell’altra causa di Stato gli altri tutti essendomi assolutamente ignoti e quanto al nome e quanto alle personali fattezze […]. Eran tutti timidi, e pusillanimi, e per quanto mi studiassi di mostrar loro buon viso, non ebbero coraggio di guardarmi fissamente in volto, e Fiorillo singolarmente tuttoche    vecchia masserizia di Vicarìa criminale era così confuso che lungi di muovermi a sdegno mi mosse anzi a compassione. Finita così questa prima parte, di durata non oltre a quattro minuti, come dissi di sopra, si diè principio al costituto. Aveva Vanni già le domande messe per iscritto, e proponeamele  l’una dopo l’altra e le mie risposte ascoltava. Eran però queste domande concepute in termini generali, ond’io durava molta fatiga ad intendere ove tendessero: ma una coscienza netta non teme punto d’esser menata in contradizioni: quind’io presi il partito di non tacer nulla correndo alla cieca dietro alla verità, né curandomi punto delle conseguenze che ne avrebbon potute trarre, poiché non avendo delitto la ingenuità non poteva essermi che favorevolissima. Dopo le domande che se non sbaglio, furon da trentanove o quaranta, si passò al monitus, che parimenti aveva Vanni innanzi a sé per iscritto, e  diviso in capitoli a guisa di tante pause perch’io  vi potessi partitamente rispondere. Era questo monitus assai lungo, ma chiaramente espresso e le cose v’eran passate in modo ch’io intesi bene ove fossero state dirette le domande generali del costituto, ed ebbi luogo di conoscere l’empio machinamento che contro me si era fatto per avvilupparmi in tanti delitti di Stato i quali quando ancora non si fosse potuto giugnere a rivestire d’alcuna apparenza di verità fossero per lo meno bastevoli a diramare la processura in tante diverse vie che per anni non se ne sarebbe veduto fine: il che dava a’ miei nemici luogo a sperare che la mente de’ Sovrani tutto giorno rinforzata o di nuove denuncie contro di me, o di nuove pruove che si andassero facendo, credessero ormai clemenza il dimenticarmi in un carcere. Procurai di non lasciar cosa senza convenevol risposta sostenendo la verità con fermezza ma in modo da non peccare né contro la modestia né contro la prudenza, e specialmente ebbi a usare di sopraffino accorgimento nel rispondere a quella parte di monitus che e la mia condotta, e quella dei due ministri inquisitori Porcinari, e Giaquinto nella prima processura di Stato riguardava, poiché imputandomisi a delitto non rade volte alcuni procedimenti alle leggi conformi, ma nell’attual processo affatto pratticati a rovescio, nel sostenere il iure factum, l’ebbi a fare in modo ch’ei non paresse una critica  a quel magistrato che sedeva da giudice ad interrogarmi. E debbo confessare che costò assai caro al mio amor proprio l’inghiottire alcune scappate che ci sarebbero state assai bene alle proposte: ma ora che il sangue è in calma, sono contento di non essermi punto trasportato peccando contro la prudenza, unico palliativo a’ mali di violenza.  Un’altra parte del monitus  voleva dirsi una raccolta di miei detti o fatti  la più parte veri, ma rivestiti a studio di circostanze che gli rendevan criminosi: e qui ancora  senza neanché punto farmi a negare ciò che era vero, mi studiaj di fare conoscere la  falsità dalla Giunta. Finalmente v’era poi una gran tela di sciocchissime favole, ma neppure una era condotta colla unità di teatro: e se Iddio vorrà che queste carte escano un giorno da quel bujo in cui sono state fabbricate, il mondo avrà a stupire  e dell’empietà, e della sciocchezza de miei calunniatori».
Mi dispiace dover interrompere il racconto, ma abbiamo materiale più che sufficiente per affermare che i retroscena messi a nudo da Luigi de Medici coincidono con quelli denunciati nella Lettera ad Acton: un’empietà che ha come unico sostegno la menzogna male architettata e un dolo che irretisce i Sovrani prima ancora dei calunniati.
Inoltre, è notevole il fatto che in entrambi i testi, quando si parla di verità, ci si riferisce a quella che Leibnitz definisce la “verità di ragione”, per la quale sufficit la ragione: la verità logica che si scopre attraverso un ragionamento. La verità, insomma, che non corrisponde al termine latino veritas, che attiene alla fede (per cui si chiama vera l’anello matrimoniale), ma al termine greco alètheia: il contrario di quanto si copre****.
Possiamo quindi affermare che il “vituperevole giudizio” di cui Luigi de Medici fa il resoconto si rivela essere l’inesorabile e spietatamente vendicativa mossa politica con cui Acton risponde alla pubblicazione della Lettera dello pseudo-Piranesi.
E a noi resta il compito di utilizzare tutti i dati di conoscenza che il Medici dichiara di aver voluto fornire “al mondo”, per interpretare con precisione quel documento di tre anni prima.

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*Lettera di Francesco Piranesi al Signor Generale D. Giovanni Acton.

**Luigi de Medici, Anno 1797. Del mio Costituto, a cura di Dina Tortoroli Rosetti, Il Filo, Roma, 2008. I brani di cui per ora intendo avvalermi sono desunti dalle pp. 12-20.

***A Gaeta Luigi de Medici era stato “condotto prigioniero” dal colonnello Russo, “la sera de’ 27 Feb. 1795”.

****Non devono essere  sottovalutati neppure i minimi  particolari. Per esempio, il fatto che in entrambi i testi si faccia ricorso alla medesima immagine della nebbia della menzogna o del sospetto, là dove è espresso un uguale amore per la diffusione della luminosa verità:

Lettera ad Acton: «Voi vi siete lusingato sicuramente che vista umana non sarebbe mai passata attraverso le tenebrose operazioni del vostro gabinetto: molto meno che da Roma io potessi veder le cose di Napoli nell’aspetto lor vero, e libere da quella nebbia di cui la vostra politica le circonda quando le presenta agli occhi del pubblico».

Anno 1797. Del mio costituto: «Ma comunque mi avessi potuto giovare di questo mancamento al buon’ordine d’un giudizio capitale, m’avvisai esser meglio passarci sopra, e non espormi ad esser preso il mio dubbio a paglietteria il che, poteva oscurare di nebbia quella chiara luce ch’io aveva in animo spargere col mio costituto sopra cose così lungamente tenute buje a studio».