CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Chi ha una lunga pratica di vita, e una qualche estensione di esperienze relative alla condizione umana, si avvede facilmente di come le persone si attivino per prestare aiuto e soccorso nelle grandi tragedie, collettive e individuali, o entro perimetri di iniziativa e volontariato che le orientano ad azioni coordinate, istituzionalmente riconoscibili e proiettanti su di esse un investimento di ruolo significativo e gratificante, ancorché indiscutibilmente encomiabile per le finalità e gli esiti che si producono, molto più che non nelle occasioni feriali, quotidiane e nascoste, di cui nessuno parla.
La devastante alluvione in Romagna del 2023 o quella di Ischia del 2022, il terremoto dell’Aquila del 2009 o quello del Centro-Italia del 2016-17, le tragedie degli sbarchi di immigrati, come quella del 2013 di Lampedusa, o il naufragio di Cutro del 2023, sono solo alcuni dei drammatici eventi che hanno suscitato molteplici reazioni di solidarietà e impegno in quanti, soprattutto giovani ma non solo, hanno risposto alla richiesta di soccorsi o hanno in qualunque modo manifestato pubblicamente la loro partecipazione al dramma delle persone coinvolte. Analoga osservazione occorre fare quando si parla di tragedie individuali, che possono riguardare, per esempio, eventi luttuosi che coinvolgono giovani vite nelle sempre più frequenti tragedie della strada, ma anche episodi criminosi con vittime innocenti, suicidi improvvisi e inspiegabili, o anche perdite di personaggi pubblici che raccolgono un tributo esteso e generalizzato. In tali occasioni la partecipazione pubblica, la commozione e la testimonianza di vicinanza alle famiglie e ai parenti è spesso enorme e incontenibile.
Tutto ciò colpisce l’osservatore che, in un’epoca come la nostra, che si dice attraversata da diffusa anomia e indifferenza sociale, coglie improvvisamente ciò che appare come un risveglio della coscienza collettiva nella direzione dell’empatia e del valore, anche se qualcuno ha, in modo un po’ sconsolato, commentato sottolineando che ormai solo le grandi catastrofi riescono ad unirci, sottintendendo che dunque nulla se non il pericolo, scampato o incombente, riesce più ad aggregare. Intanto, cronisti e opinionisti riesumano il termine di eroismo a proposito di ciò che muove tali iniziative, e quello di eroi per i giovani che spalano nel fango e tutte quelle persone che, in tali circostanze, cercano di offrire un aiuto, così che tale termine risuona non di rado nei reportage televisivi che sottolineano l’eccezionalità delle iniziative che si moltiplicano.
E tuttavia ciò accade entro uno scenario sociologico quotidiano ove invece prevalgono indifferenza, cinismo, freddezza nei rapporti umani, e non di rado un pragmatismo cieco e spietato che coinvolge e intristisce le persone sul territorio e nella quotidianità. Così, non è infrequente ormai sentir parlare di cadaveri di persone anziane scoperti in avanzato stato di putrefazione negli appartamenti di anonimi condomini, disabili abbandonati alla esclusiva dedizione dei più stretti congiunti, in assenza di ogni solidarietà sociale, ammalati cronici che non vengono nemmeno visitati da parenti, amici, vicini, persone sole cui basterebbe una parola, un gesto, una telefonata che non arrivano per riaprirsi alla speranza e al sorriso, stranieri che lottano per la propria sopravvivenza in assenza di qualsiasi rete di reale prossimità, genitori abbandonati a sé nel difficile ruolo educativo di adolescenti problematici, e giovani cui rispondono solo le sirene dello sballo, fra droghe, dipendenze, digitalizzazione delle vite e sfruttamento economico del disagio.
Sì, vi è uno stridente contrasto fra ciò che chiamiamo eroismo, e che applichiamo alla eccezionalità di eventi drammatici e delle reazioni connesse, e ciò che percepiamo come quotidianità, ove un approccio pragmatico, spesso indifferente e anaffettivo, scava voragini di solitudine e depressione in esistenze ai margini, quelle dei molti che si lasciano vivere entro un orizzonte angusto e deprivato di proiezioni e di speranza, nel mentre assistono al trionfo virtuale di ciò che i sempre più intrusivi mass e social media propinano loro come vita vera, fra salotti televisivi, visualizzazioni e like digitali, celebrazioni sportive, istituzionali e sociali idealizzanti, ma ormai del tutto staccate dal concreto vissuto delle persone.
Lo scenario digitale non ha poi fatto che amplificare a dismisura tale schizofrenica scissione fra vita rappresentata e vita vissuta, sempre più emula della prima, in realtà sempre più alienata e inconsistente rispetto alla propria essenza ma anche alla sua parodistica rappresentazione virtuale. Se c’è dell’eroismo in tv – verrebbe da dire –, quel che manca è però la gentilezza nel quotidiano di tutti noi.
Già, la gentilezza non suscita attenzione in una società che, in linea con l’attuale estetica hollywoodiana, cerca supereroi muscolari, che si impongano all’inconscio di masse stordite e inconsistenti, piuttosto che uomini in grigio, attenti alla misura, non appariscenti, inclini ad argomentare con pacatezza, timorosi di sbagliare e, proprio perciò, cauti, prudenti, miti. Perché – diciamolo – è più facile essere eroi nel mezzo del vortice che ci prende e coinvolge emotivamente ed eccezionalmente, o anche nel tourbillon della vita pubblica e sotto i suoi innumerevoli riflettori, piuttosto che essere ogni giorno gentili e funzionare come il lievito nascosto nella pasta, che nessuno vede ma dei cui benefici tutti usufruiscono senza neanche saperlo.
Ecco perché, personalmente, sono sempre colpito dalla gentilezza nascosta che traspare negli individui al di fuori del loro ruolo pubblico e sociale (ove devono almeno apparire virtuosi), per esempio ascoltando un anziano che ha bisogno di attenzione, interessandosi di un vicino in difficoltà, telefonando ad una persona sola, mostrandosi disponibili verso i propri interlocutori, ecc. Questi atteggiamenti non garantiranno mai una medaglia o un pubblico riconoscimento a quanti si sforzano di praticarli, ma contribuiranno senz’altro a migliorare la vita altrui e la loro, fuori da ogni riflettore di scena.
E ricordo un bel film in bianco e nero in cui si narrava di un soggetto che voyeuristicamente spiava le vite dei passanti nelle strade, sugli autobus, nei negozi, per individuare chi fra di essi fosse capace – attraverso gesti di attenzione e benevolenza incogniti – di grazia e di valore, e consegnava poi ai prescelti una sorta di certificato di nobiltà: occulta nobiltà – diremmo noi – che probabilmente si nasconde in molte persone, sconosciute e marginali, che vivono sorridendo alla vita e al prossimo, lontane da ogni plauso e riconoscimento istituzionale o sociale.
“Beata quella società che non ha bisogno di eroi”, chiosava Bertolt Brecht in “Vita di Galileo”, sottintendendo che la maturità umana coincide, per certi aspetti, con la demitizzazione degli eroi e l’assunzione di responsabilità personale in ordine all’azione effettivamente disponibile per migliorare il mondo, e tuttavia non ci sentiamo di sottoscrivere integralmente questa affermazione. Consideriamo infatti quanto le circostanze storiche in cui ogni uomo vive sempre si dibattono fra utopia e realtà presente che, non fosse intercettata dal sogno, rischierebbe di languire e annichilirsi, mentre, grazie alla trasfigurazione che esso vi opera, continua ad essere possibile l’anelito dell’utopia, la tensione al meglio, l’esperienza di una trascendenza in qualche modo salvifica entro l’orizzonte della grigia immanenza quotidiana. E dunque l’eroe, l’immagine in certo qual modo cristica dell’assoluto che irrompe nella storia, ha la funzione di alimentarne l’inesauribile energia che la muove.
Che sia un eroe gentile però è quello che – in questo nuovo millennio aperto da speranze inaudite e da terribili minacce – ci sentiamo di auspicare. E dunque un eroe non più riconoscibile dalla eccezionalità e visibilità della sua azione, ma piuttosto dalla quotidianità del suo impegno nascosto.
(da Claudio Sottocornola, La fatica dell’intero. Il pensiero come arte dell’incontro, Oltre Edizioni, 2024, versione integrale pp. 101-107; già in “Missione Salute”, n.5, 2024)