Remigio da Montaldo, l’ultimo dei trovatori

COPERTINA Remigio

GIANNINO BALBIS.

Dove sta di casa la poesia di Remigio Bertolino? Qual è il suo recapito nell’infinita città della poesia? Credo che difficilmente possa trovarla chi, fidandosi della toponomastica ufficiale, la cerchi nelle periferie dei dialetti locali-regionali o nei sobborghi della poesia dialettale contemporanea (novecentesca in generale, degli ultimi trenta-quarant’anni in particolare, a partire da quegli anni ’70 che segnano una nuova e “prorompente produzione di versi in dialetto”[1]), perché la poesia di Remigio, pur con apparenti tratti di vicinanza, da un lato, a quella che è stata definita la koiné linguistico-poetica monregalese (categoria, peraltro, oggi in forte discussione[2]) e, dall’altro, a questa o a quella tendenza della poesia neodialettale italiana,[3] non ha residenza stabile in nessuno dei suddetti recapiti: comunque la si rapporti e la si confronti, rivela sempre qualche significativa alterità, un quid proprio ed esclusivo.

Per provare a svelare questa originale identità, credo sia opportuno partire dall’interrogativo che è alla radice di tutto: perché Remigio ha scelto il dialetto come lingua della poesia? Ovvero: la sua scelta è così radicale ed esclusiva come lui stesso in qualche occasione dichiara? Il mio parere è che si tratti di una scelta non oppositiva né realmente alternativa nei confronti dell’italiano, e che italiano e dialetto siano anzi, per Remigio, due facce di un’unica lingua letteraria. Indizi consistenti mi paiono l’eleganza e l’intima poeticità della sua prosa italiana (dal racconto d’esordio Mia mare[4] a quelle autentiche poesie in prosa che sono i cammei di Al ballo del tempo[5] e dei Rabeschi[6], dal romanzo breve Il maestro della montagna[7] alle pagine saggistiche[8]), ma soprattutto la qualità delle traduzioni con cui accompagna sempre i versi in dialetto: non semplici traduzioni alla lettera e neppure propriamente traduzioni poetiche, ma a tutti gli effetti “altre” poesie, di dignità e bellezza pari a quelle dialettali. Pur componendo versi esclusivamente in dialetto, Remigio è in realtà scrittore e poeta bilingue: di un bilinguismo in qualche modo simile a quello teorizzato da Contini per Petrarca – con l’italiano in luogo del latino e il dialetto in luogo del volgare – cioè fondato su un modello e uno stampo unico, che per Remigio proviene dalla più pura tradizione poetica italiana.

Il che vale, probabilmente, anche per altri neodialettali (Zanzotto, Baldini, Marin, Guerra, Pierro, Bertolani, Scataglini, per fare qualche nome), quanto meno a partire dal momento in cui, nel secondo ’900, il dialetto cessa di essere lingua della realtà e diventa lingua per eccellenza della poesia, prendendo le distanze dall’italiano d’uso (che, come osserva Beccaria, “si va estrovertendo con veloce e rumoroso passo”, con “i mass media [a fare] da megafono”) e così reinventandosi, non per volontà di fuga dal mondo esterno e dalle sue criticità o di opposizione di tipo avanguardistico, ma per rifondarsi come linguaggio anti-idiomatico, deterritorializzato e, proprio in quanto tale, altamente poetico.[9]

Insomma, il dialetto poetico di Remigio mi pare – almeno per quanto concerne la sua tessitura sintattica e stilistica – modellato sull’italiano poetico. Se poi dovessi giudicare sulla base della mia esperienza personale, arriverei a ipotizzare che le traduzioni italiane che accompagnano i testi di Remigio non siano vere traduzioni ma espressioni parallele o addirittura primarie: sorta di avantesti che solo in seconda istanza, in fase di scrittura, prendono abiti dialettali. Remigio dice che soltanto una lingua poetica estratta da una lingua madre è capace di tutti i significati che un poeta di madre lingua dialettale vuole esprimere. Il che è indubitabilmente vero. Ma è anche vero il contrario: soltanto una lingua poetica di tradizione illustre può offrire i registri, le sfumature, le immagini che inevitabilmente mancano ad un dialetto sprovvisto non solo di tradizione letteraria ma perfino di scrittura, ancorato all’oralità di una microsocietà contadino-operaia e, per di più, in via di estinzione. Indirettamente rivelatrici mi paiono la Nota dell’autore che accompagna la raccolta Versi scelti e, pressoché in contemporanea, l’intervista che Remigio rilascia per la collana “Torino Poesia”[10]. Vi si legge fra l’altro (cito da entrambe):

Il mio primo libro lo scrissi in italiano Un ponte ci divide, nel 1973[11]. Mi resi subito conto della banalità delle mie «cose» in lingua nazionale, così artefatte, fredde, distaccate. Al contrario, la polla sorgiva del dialetto scaturiva dalle profondità dell’anima. Accostandomi al dialetto mi accorsi della sua forza icastica, della sua immediatezza e potenzialità evocativa. Era come uno specchio in cui ricercarmi senza possibilità di menzogna. Era un pozzo che scendeva in uno spazio-tempo ricco di favolosi incanti. Ritrovavo le parole materne, faville che illuminavano e davano senso alla poesia. La scelta di un dialetto così circoscritto e arcaico […] era l’unica via percorribile […] Io faccio largo uso del monologo e far parlare i montanari, personaggi così stravaganti, isolati, marginali in italiano sarebbe stato un falso. La lingua li avrebbe imbalsamati in una patina retorica e allontanati per sempre da quel microcosmo definito da rigide leggi ancestrali, dove la natura è al centro della vita, una natura aspra, fredda, ostile come nei lunghi inverni quando la neve e il gelo assediano i gusci delle case.

Concetti recentemente ribaditi (per lettera, in risposta a mia precisa domanda):

Sono partito dall’italiano ma ho sentito che c’era un senso di inautentico, di falso, nei miei versi in lingua. E poi percepivo il calco frusto dei vari modelli poetici. Insomma, nell’italiano sentii di colpo una lingua frusta ed usurata, incapace di rendere appieno i “monologhi” dei miei personaggi, spesso così naïf, “lunari”.

Ma, a seguire, riconosce:

Forse hai ragione, rimane alla base, quasi nascosta, la struttura della tradizione poetica nostra.

Adottando lo schema dell’opposizione dialetto/italiano – lingua materna della verità e dell’autenticità vs lingua della “menzogna” e dell’artificio – il poeta non disconosce dunque il primato dell’italiano, nel momento stesso in cui ne prende le distanze: “si rende conto della banalità dei suoi versi in lingua nazionale” perché ha sperimentato l’italiano come prima lingua poetica; gli sembra “un falso far parlare i montanari in italiano” perché, almeno una volta, ne ha fatto prova e ne è uscito insoddisfatto. Fra parentesi, le riserve che da più parti sono state espresse e periodicamente riemergono nei riguardi della poesia dialettale (anche da parte di illustri poeti come Fortini, Caproni, Giudici[12]) sono – è opportuno rimarcarlo – totalmente infondate, perché inficiate da una pregiudiziale opposizione lingua vs dialetto che, sul piano storico-linguistico come sul piano poetico (in generale, non solo in Bertolino),  non ha alcuna ragion d’essere[13]. In Bertolino, e nei neodialettali del suo calibro, lingua letteraria e dialetto letterario sono registri diversi di un’unica voce poetica.

Quando Remigio dice di usare “parole materne”, dice una verità inconfutabile, ma parziale. “Materni” sono certamente il lessico di base e la fonetica, ma nella sintassi, nei metri e nelle figure – nella filigrana retorico-stilistica – il suo dialetto poetico è cosa ben diversa dal dialetto materno: è trasfigurato in lingua poetica; è tutt’altro che scabro ed essenziale, “circoscritto e arcaico”, “aspro e pietroso” (come ama  definirlo lo stesso Remigio e come ripetono diversi suoi lettori): tale è, semmai, il dialetto che si parla/parlava a Montaldo Mondovì, non il dialetto della poesia di Remigio.

Le figure in particolare – la poesia di Remigio è un autentico laboratorio di metafore e analogie – ne sono la prova lampante. Ne ho estratto dai testi di Remigio oltre un centinaio e ho provato a passarle al microscopio. Eccone, per cominciare, una rassegna, non completa ma indicativa[14]:

“stelle di brina” (stèile ‘d brin-a), VS 26-27; “guscio di cielo” (greuja ‘d cel), VS 28-29; “sghignazzando i balconi” (grignand ij pogieuj),VS 32-33; “il gatto, angelo di pietra” (‘l gat, àngel ëd prea),VS 34-35; “l’aria / ti fasciasse di rose” (l’aria / t’anvlupèissa ‘d reuse),VS 40-41; “Un alone di musica /… / aiutava i grilli / a far maturare l’uva” (Un cerc ëd mùsica / … / giutava ij grij / a fé meoré j’uve),VS 44-45; “la luna scioglieva argento / sulla polvere della tua via” (la lun-a dësluvava argent / slaa povre dla toa via), VS 44-45; “la cicala / sugli alberi / a far matasse / dei raggi del sole” (la siara / sj’erbo / a fé marele / dij ragg dël so), VS 48-49; “un caco /…  / faceva scintillare / orecchini d’oro” (un caco / … / fava lusì / òrcin d’òr), VS 52-53; “Il gatto… / rotondo come il mondo dei sogni” (ël gat… / riond come ‘l mond dij sògn), VS 60-61; “Infanzia, scia di lumaca…” (Temp masnà, trassa ëd lumassa…), VS 60-61; “Così bevo / le ombre rabescate / del tuo fiato” (Parej i bèiv / j’ombre scarbocià / da tò fià), VS 68-69; “il campanile… / sputa… / un’eco rosa / dai topini bianchi dei fiocchi di neve” (ël cioché … / spuva… / n’arbomb rusià / dai giarièt dle faròsche), VS 72-73; “pipistrelli di vento” (ratabuère ëd vent), VS 76-77; “Ricci di freddo” (Ariss ëd fregg), VS 82-83; “i topi che ballano / sulla soffitta, / patate che rotolano / in grembo all’eternità” (ij giairi ch’i balo / sle slure, / patate ch’i ròlo / ën fada a l’eternità), VS 84-85; “le lucciole / zolfanelli delle stelle” (ij lumin, sufrin djë stèile), VS 88-89; “Un’aria… / ha tosato i branchi delle betulle” (N’aria… / a j’ha tosonà jë strop dël biole), VS 94-95; “trottole di luce” (sòtole ‘d lus), VS 94-95; “Grani di cornacchie / per il rosario del vento / e ontani di fuliggine” (Gran-e ‘d cornajàss / për ël rosàri dël vent / e verne ‘d caliso), VS 96-97; “uccelli di neve” (òsej ‘d fiòca), VS 96-97; “Rosari di tarli ascolto / rosari della mia vita” (Rosari ëd camole i scot / rosari ëd mia vita), VS 104-105; “la nebbia / punta il suo vestito / con spilli di brina / sui pruni dell’aia” (la nebia / a ponta soa vesta / con gucin ëd brin-a / sle brigne dl’era), VS 110-111; “un sogno d’albero acceso di stelle” (un sògn d’erbo avisch dë stèile), VS 112-113; “se il Signore fa ridere un fungo / dentro i sogni del muschio” (se Nosgno’ fa grigné un bolej / deinta ij sògn dla lopa), VS 114-115; “La sera cala / reti di silenzi. / Dentro, voli, / trote di stelle. /… / Sui vetri rotti / del cuore / sparge fuliggine / la sera” (La sèira a cala / trubie ëd silensi. / ëndrinta, vòj, / trute dë stèile. /… / Sui veri rot / dël cheur / a sbarda caliso / la sèira), VS 116-117; “la barca incatenata alla riva / fa le fusa in grembo alla corrente” (l’arbi ënchenià a la riva / ronfa an fada a la corent), VS 118-119; “Sbuccio… / ore e fagioli” (I dësglin… / ore e faseu), VS 130-131; “La nebbia fila aia e sambuchi, / piange sui rami neri” (La nebia a fila era e sambù, / a piora sij branch nèj), VS 132-133; “guardavo la luce verde / tubare dai vetri con i colombi” (i beicava la lus verda / tubé dai veri con ij colomb), VS 160-161; “Passeri fanno reti d’ombra / su lenzuola di sole” (Pàssore fan trubie d’ombre / su lenseu ëd so), VS 172-173; “le stelle con un ago di luce / cuciono sui vetri / sogni di brina” (le stèile con n’evia ‘d lus / i cuso sij veri / sògn ëd brin-a), VS 174-175; “i bachi dei corpi” (ij bigat dij corp), FdM 14-15; “ruggine di lune” (riso ëd lun-e), FdM 14-15; “lenzuola di luna” (lënseu ëd lun-a), FdM 18-19; “fiorisce la ruggine / dell’inverno” (fiorissa la riso / dl’ënvern), FdM 22-23; “i topi / che rosicchiano il tempo” (ij giari / ch’i rusìo ël temp), FdM 28-29; “biglie d’arcobaleni sulla neve” (bije d’arcancel sla fiòca), FdM 32-33; “lo scricciolo / scarabocchia di nero / l’ultima luce” (ël reptit / o scarabòcia ëd nej / l’ùltima lus), FdM 38-39; “L’alba versa / … / il suo latte fresco / e dentro il pozzo / dei nostri occhi / lascia una traccia / di farfalle in volo” (L’alba a versa /… / so lacc fresch / e drinta ël poss  / dij nòstri euj / a lassa na trassa / ëd parpajon ën vòl), FdM 40-41; “noi, pesci di terra / che abboccano ai sogni” (noiaci, pess ëd tèra / che mòrdo ai sògn), FdM 46-47; “un cane rosicchia ossi di silenzio” (un can / rusia òss ëd silensi), FdM, 46-47; “La notte d’inverno / lecca sui vetri / con il suo muso freddo” (La neucc d’ënvern / a lèca sij veri / con so muso fregg), FdM 54-55; “ruggine del tempo” (riso dël temp), FdM 60-61; “Hanno sognato rose / le finestre stanotte” (J’han sognà reuse / ël finestre staneucc), FdM 68-69; “lacrime di ruggine” (lerme ëd riso), FdM 72-73; “giostra della neve” (la giòstra dla fiòca), FdM 84-85; “Le sere precipitano / dagli alberi sulla casa” (Le sèire dròco / da j’erbo sla ca), SdE 17; “bozzoli di neve” (còchèt ëd fiòca), SdE 18; “la rete imbastita / di galaverna” (la rete ënsarzìa / ëd galaverna), SdE 23; “le mani della sera / sgusciano il fagiolo della luna” (ël man dla sèira / dësglin-o ël faseu dla lun-a), SdE 25; “le stelle…/… / a cucire il cielo dell’inverno” (stèile… /… / a cusì ël cel dl’ënvern), SdE 27; “pecore e sogni pascolavamo insieme” (bere e sògn / portavmo a scheu), SdE 30; “mani fiorite di spine” (ël man fiorìe dë spin-e), SdE 39-40; “il sole… ubriaco marcio” (ël so… cioch mars), SdE 44-45; “seminando falde / tra scarabocchi di carboni / in un lume di mandarino” (sciamnand parpajon / tra scarabòcc ëd carbon / ënt un lum ëd mandarin), SdE 51; “un volo di foglie / mi fa sposa dell’autunno” (un vòl ëd feuje / om fa sposa dl’otonn), SdE 56; “ragnatele di freddo e silenzio” (taragnà ëd fregg e silensi), SdE 62; “fuoco, … margherita viva” (feu,… margherita viva), SdE 73; “Ora l’inverno affonda / i suoi artigli nelle boscaglie; / dal tascapane a manciate / semina chicchi di gelo / e bagliori di luci. / Io mi perdo / dentro il suo occhio bianco. / Di notte / il vento come un topo esce / dalla sua tana / e rosicchia i sogni della nebbia, / ragnatela tesa / sui rami degli alberi” (àora l’ënvern o fonga / so ongion drinta al tosche; / dal bërsach / a brancà / o smen-a gran-e ëd gel / e sbaluch ëd lus. / Mi im perd / drinta so euj bianch. / ëd neucc / ël vent o seurta pèi d’un giari / da soa tan-a nèira / e rusìa ij sògn dla nebia / pendùa lassù a taragnà / s’ël rame dj’erbo), SdE 75; “Così a volte / mi confesso al vento / come gli alberi chini / che chiedono perdono / dei loro sogni al cielo” (Parej dël vòte / im confess al vent / pèi dj’erbo cin / ch’i ciamo përdon / dij so sògn ëd cel), SdE 77.

È evidente che queste immagini vanno molto al di là delle potenzialità di un vocabolario dialettale e della creatività di un idioma popolare, per quanto felicemente plastico esso sia. Traggono dal mondo del dialetto particolari e dettagli di vario genere, d’ambiente e sentimentali, ma nell’esito finale trascendono ampiamente l’orizzonte culturale, figurativo, espressivo del dialetto. Sono frutto di un torchio raffinato e sapiente, che mescola le asprigne uve dialettali con le più pregiate uve italiane (e non solo italiane). Se prendiamo per buona la definizione di metafora come unione di due concetti legati da un terzo comune sottinteso (definizione che a me pare, tecnicamente, la più chiara e corretta), si può facilmente notare come, nelle metafore di Remigio, talvolta nessuno, qualche volta uno, più raramente due, ma mai tutti e tre gli elementi costitutivi siano contemporaneamente riferibili al mondo “reale” del dialetto, bensì a modelli poetici “illustri” (sui quali andrà fatto uno studio ad hoc). D’altronde – ripeto – come potrebbe il poeta Remigio avvalersi di un dialetto privo di tradizione letteraria, se non reinventandolo come lingua poetica sulla base di modelli esterni al dialetto stesso?

Remigio va dunque annoverato fra quei neodialettali che – come dice ancora Beccaria – “scrivono contro il proprio dialetto” ovvero non imitano un dialetto effettivamente parlato ma lo inventano,  nella consapevolezza che “il dialetto è lingua morta” o moribonda, “fantasma del passato che avanza verso la fine” e, per conseguenza, la poesia in dialetto è una “assurda ma libera opzione […] per la lingua dei desideri… , non più indice di un mondo dialettale vivo e resistente, ma di una dialettalità che sopravvive come espressione del senso della morte, di cui rende testimonianza ora in  modo elegiaco, lirico, ora in modo drammatico”: una “dialettalità «esiliata»” perché esuli, realmente o psicologicamente, sono gli scrittori che usano una lingua che non s’identifica più con quella del luogo in cui vivono.[15] Alle stesse conclusioni era giunto Claudio Bo ragionando sulla presunta koiné monregalese: i neodialettali monregalesi – e Bertolino in specie – operano una sperimentazione linguistica tanto avanzata da sembrar tesi ad un affrancamento dal dialetto stesso ovvero al suo sdoganamento come lingua letteraria (“è del tutto evidente che non possono essere definiti ‘dialettali’. La loro poesia è universale, come la loro lingua [...], anzi come le molte lingue, i molti codici linguistici, con cui si esprimono”[16]).

Un discorso analogo si può fare per il piano tematico. Ad un primo livello nella poesia di Remigio sembra dominare la rappresentazione del mondo contadino di Montaldo, qual era nel passato e qual è oggi nella memoria tragico-elegiaca del poeta. Remigio stesso, nella già citata Nota d’appendice all’antologia Versi scelti, parlando delle voci che “hanno scandito il tempo magico della sua infanzia”, si dichiara un “sopravvissuto al naufragio di quel mondo, aggrappato ad un esile filo di memoria” [17]; nella Nota al lettore di Al ballo del tempo la memoria diventa “balenio d’un ricordo” dal “fiato cortissimo” di “un mondo di vinti, vite anonime nella ruota del tempo e della storia”[18]. E si legga ancora la toccante evocazione di quel perduto mondo nella già citata intervista del 2010:

Sono nato in un paesino di montagna, Montaldo Mondovì, dove si viveva poveramente di agricoltura: un’agricoltura ferma, da tempi immemorabili, come se il progresso non l’avesse sfiorata. A valle si favoleggiava di macchine potenti che facevano il lavoro di  cento braccia, ma lassù […] si viveva ancora in un mondo chiuso, scandito da quaresime di fatiche e privazioni. […] Un paese arroccato tra due torrenti, con la corona delle Alpi biancheggianti sullo sfondo, verso est. Da questo territorio, circondato da estesi boschi di castagno, ma anche coltivato a vite e a frutta sui versanti esposti a sud, ho tratto tutti gli spunti della mia poesia[19].

Ma ad un livello più interno, sotto il guscio realistico, i versi di Remigio rivelano un’anima mitico-simbolica, come già osservato da Bárberi Squarotti, Gioanola, Tesio e altri[20]. Il che vale innanzi tutto per i personaggi, che non sono espressione di una volontà di recupero storico-sociologico, ma simboli appunto di una visione mitica, epico-tragica, dolorosa dell’esistenza, si tratti di bambini, orfani, vecchi, poveri, come delle figure arcaiche di montanari, dai tratti duri come scolpiti nella pietra, che l’immaginazione del poeta trasforma in eroi dalla forza pazzesca, dalle imprese titaniche (c’era chi era capace di sollevare da terra un sacco di patate senza battere ciglio). Eroi che combattevano contro un destino crudele, avverso, ma a differenza di quelli classici, […] lottavano contro la sorte d’una vita quotidiana aspra e dura, non con spade e lance, ma con picconi, zappe, scuri, badili, rastrelli, falci… Al mito di Sisifo ho comparato le fatiche estreme della fienagione: gli involti di fieno che mio padre ed io eravamo costretti a spingere e risospingere attraverso una scala di assi traballanti al fienile, nell’immenso sottotetto[21].

E vale anche per la rappresentazione del paesaggio e della natura, da leggere sempre in chiave simbolico-analogica, come suggeriscono ancora Bárberi Squarotti, Tesio e Gioanola:

È facile subito cogliere le exempla del tragico che Remigio comunica: anzitutto la neve, il gelo degli inverni, le esistenze stremate di vecchi e vecchie nelle loro decrepite case misere e nude […] e tutto quel candore che coincide con il nulla, con la morte […]. Non è un paesaggio realistico e attuale, e tanto meno una situazione sociologicamente autentica.  È invece, l’allegoria della condizione umana, anche rappresentata per eccesso, nel modo più esasperato ed enorme perché così il lettore non abbia nessuna possibilità di nascondersi la verità dell’esistenza, di non curarsene, di trovare consolazione e oblio. La vita umana uguale a ben vedere con la sorte degli animali: il cane, il gatto familiare, gli uccelli che anch’essi cercano qualche cibo per sopravvivere all’inverno. [22]

Il mondo di Bertolino non è tanto (lo è anche, ma come effetto collaterale) la testimonianza di un mondo perduto (antropologicamente connotabile e connotato), ma è invece la raffigurazione poetica di un mondo che si configura come un sogno, più ancora che come memoria, del sogno pur stretta parente. […] La poesia di Remigio Bertolino è poesia trasfigurale, ossia poesia che dà figura a un mondo parallelo  fatto di incantamenti e di stupori, di epifanie e di lucori, di una consistenza realistica e insieme fantastica. [23]

Bertolino [è] poeta monolitico, senza parti­colari sviluppi tematici e nemmeno formali, stretto in un suo piccolo universo di ossessioni figurali: le metafore dell’inverno, della neve, del gelo attraversano con assolu­ta costanza l’intero percorso [della sua] essenziale e originalissima avventura poetica. [Occorre] togliere ogni tentazione di traguardare l’opera di Bertolino da prospettive di localismo, antropo­logismo o sociologismo, a cui purtroppo gran parte della poesia dia­lettale facilmente soggiace. […] Ci sono i personaggi tipici di tale ambiente, la vecchia centenaria, il mendicante, il montanaro che ritorna ubriaco dall’osteria, la vedova miserabile, gli orfani allevati dalla matrigna per il soldo dell’ospizio. Ci sono le attività della bella stagione e le stasi dei lunghi inverni, la raccolta delle castagne e le sedute accanto alla stufa, la pastura delle pecore e l’incetta delle foglie secche per lo strame. Ci sono le figure ambientali più precise, le rose di ghiaccio ai vetri, le pic­cole cucine affumicate, il soffitto a travicelli, il pavimento di terra bat­tuta, i tetti di lamiera, i miseri oggetti di una vita poverissima. E poi il bosco, la fonte, l’aia, gli alberi coi loro nomi precisi, la rete che recin­ge l’orto, gli animali domestici e selvatici. E la neve, la neve, la neve… Proprio tutta la realtà minuta di un individuatissimo microcosmo. Il miracolo di Bertolino è essere riuscito a trasformare, per grazia stili­stica, quella precisa realtà in metafora pura. [24]

In questo quadro di apparente realismo e sostanziale simbolismo, sono assi tematici portanti le dicotomie interno/esterno e passato/presente ovvero la dialettica fra mondo di ieri e mondo di oggi, intrecciata con quella fra il microcosmo paesano e il macrocosmo della storia (quella storia che ha lasciato il suo segno, il suo marchio di orrori e distruzioni anche nel paese[25]), con richiami al modello dell’idillio leopardiano (anche per il taglio riflessivo-filosofico che pervade tutti i testi di Remigio), al bipolarismo carducciano (forse), ma soprattutto alle dialettiche pascoliane fanciullino/adulto, vero/falso bene, nido/mondo (il nido di Remigio è la “stanza” e il mondo è l’ “inverno”, come dice il titolo della raccolta Stanse d’ënvern[26], che potrebbe essere assunto a iperonimo della sua intera produzione).

Queste dicotomie si esprimono in numerose varianti tematiche. L’antitesi drinta/feura, esplicita in Reusa bianca (SdE 32)[27], è affidata altrove a suggestive immagini – il campanile che si riflette nell’acqua morta della scodella (Angel ëd piume néire VIII, VS 72), le gelide stanze dove si è bachi nei bozzoli ed è soltanto un sogno il volo delle farfalle nella luce (Smà sì ëmbaricolà, SdE 24), il gatto sotto la stufa e lo scricciolo sulle siepi di biancospino (A doe vos, SdE 18), la serpe che si infila in casa dalla porta spalancata (Crepuscolo, ABdT 36), la madre che dopo cena si toglie le spine lasciate dai ricci delle castagne (Autunni, ABdT 16), la scala di legno che porta al sottotetto da dove si può guardare un paesaggio che svanisce lontano in tremolio di caligine (Come fumo, ABdT 71), il tempo che scorre fuori ma sembra immobile nella bottega del ciabattino (La bottega del ciabattino, ABdT 76; si legga anche Il mormorio del tempo, R 27) ecc. – o consiste nella rappresentazione di un solo particolare, interno o esterno, che evoca l’opposto o lo richiama o vi allude: la catapecchia spersa come una capra nel bosco (Angel ëd piume néire I, VS 64), la cucina nera come la bocca del lupo (La fin del mond I, FdM 64), le aie della matrigna, di Battistin, dello stesso Remigio ecc.  (Marastra, VS 18; L’era ’d Batistin, VS 48; Mia era d’ënvern, VS 52; Trampoli, ABdT 58; Ere, VS 80), oppure la neve (sul cui alto valore simbolico è già stato detto molto da Barberi e da Gioanola[28]) o qualche occasionale emergenza di segmenti grandi e piccoli del mondo e della vita oltre i limiti spazio-temporali della casa e del paese (Nostradamus o la Siberia, Monaco e la fiera del Santuario, l’amico perduto e la città forestiera: La fin del mond VIII, FdM 74; Artorn d’ënvern, VS 76; Sèire d’ënvern, VS 42; La fiera, ABdT 93; A n’amis, FdM 56; Na pajanòta II, VS 152).

Sempre in questo schema dualistico, paiono di particolare pregnanza le ricorrenti figure dell’eremita (non a caso accostato all’inverno: ënvern, VS 84: ënvern, / temp da armita) e del trovatello adottato (Ij matòcc dl’ospidal, VS 18), simboli viventi della non facile sintesi fra le due dimensioni, così come l’immagine della ruggine (la riso), che infinite volte ricorre, a simboleggiare l’effetto di ossidazione del reale quotidiano ad opera di agenti che provengono dall’inverno del mondo esterno. Significativa pare anche l’alternanza tra prima e terza persona, portatrici rispettivamente della visuale interna e della visuale esterna (si leggano, per tutti, Vos ëd vent, SE 35 sgg. e Orfaneij, SE 53 sgg.).

Parlo di dicotomie e dialettiche più che di vere opposizioni, perché, se in superficie sembra prevalere un disegno oppositivo, in profondità – sul piano tematico come su quello linguistico, già osservato – lo schema oppositivo è spesso, quasi sempre, sostituito da uno schema che si potrebbe definire di sineddoche, di parte per il tutto. Come il dialetto non è esterno e opposto al sistema della lingua – della lingua in generale e, a maggior ragione, della lingua poetica – bensì interno ad esso e, a buon diritto, rappresentativo della sua interezza, così il panorama tematico di Montaldo e di Remigio non è chiuso in se stesso, avulso dal mondo esterno, ma rappresentativo di un macrocosmo che patisce, su più alta scala, ma forse con minore consapevolezza, le stesse tragedie di cui soffre il microcosmo. Dall’interno del piccolo mondo di Remigio, insomma, con più viva sensibilità e contezza, si percepisce il senso dell’apocalisse incombente e forse già in atto, quella fin dël mond che è nel titolo dell’ultima sua raccolta[29] ma soprattutto nel destino del suo mondo come, per sineddoche, dell’intero mondo moderno.

È questo gioco di sineddoche che sorregge la forza apocalittica della poesia di Remigio – sulla quale tornerò – come è ravvisabile, a mio giudizio, nella gran parte della migliore poesia dialettale contemporanea e, prima di tutto, in quella che si avvale, come nel caso di Remigio, di un dialetto già di per sé “apocalittico” perché privo di passato (in quanto privo di scrittura) e privo di futuro (in quanto prossimo all’estinzione). Ed è per via di sineddoche che la poesia di Bertolino può diventare simbolica, trascendere la propria angusta geografia e farsi emblema della condizione umana generale (come osserva Bárberi Squarotti[30]), girotondo breve nel quale si può leggere però la vita intera: Bèica, la vita: / tuta ënt ës viré ao riond (Ij servito’, FdM 42). Ed è ancora il regime della sineddoche a spiegare e giustificare l’uso sistematico della metafora, autentico marchio dello stile di Remigio (come osserva Tesio[31]): chi, come lui, guarda al mondo dall’interno di un nido ed è sprovvisto di un pensiero “forte”, di infrangibili lenti ideologiche (ël mond l’è na sòtola mata: / mi ch’i viv d’aria pèi ‘d n’osel [Toniòt,  VS 58]), non può fare a meno della metafora – e della sua variante più moderna, l’analogia – come strumento di tentata ricomposizione dei frammenti nel grande disorientamento della fine del mondo contadino e della subentrante liquidità globale.

Se la dialettica interno/esterno, ieri/oggi non prevede sintesi, non è tuttavia priva – ed anzi sovrabbonda – di tentativi di soluzione, di ricerche di possibili varchi, di possibili incontri, di tensioni correlative. Dominante su tutte, in questa funzione, è la figura della madre, la cui potenza simbolica è pari alla forza della sua presenza reale, della sua permanenza nel cuore del poeta. È madre-vita e madre-morte, madre-umanità e madre-natura, madre-realtà e madre-parola:  autentica ispiratrice e generatrice dell’intera poesia di Remigio. Si leggano per cominciare Mia mare (VS 12 sgg.), La vita (ABdT 26), Trasalimenti (ABdT 86), Mi (VS 32 sgg.), Angel ëd piume nèire (VS 64 sgg.) e le intere raccolte o sezioni L’eva d’ënvern,  Stanse d’ënvern , Elegie d’ënvern, La fin dël mond [32], ma anche le prose autobiografiche dei Rabeschi e, insomma, l’intera produzione di Remigio. La morte della madre rappresenta la fine dell’eden, l’evento che divide per sempre il tempo e la vita in un prima e in un poi, la condanna ad un inverno che non avrà più fine. Prima della scomparsa della madre, quell’inverno che, insieme al correlato motivo della neve, diventerà ossessivo simbolo di morte (perché in inverno se ne è andata la madre del poeta)[33], è, invece, simbolo di luce e di pace; nella copia dei Rabeschi di cui Remigio mi ha fatto omaggio è scritta questa dedica: “A G.B., queste luci d’inverno nel cuore dell’infanzia”: dunque c’è stato un tempo – prima della scomparsa della madre – in cui l’inverno era luminoso. Decisive, ancora un volta, le parole che Remigio stesso dedica ai temi prediletti della morte, dell’inverno, della madre:

La figura, che campeggiava su tutto e tutto dominava, era quella della morte. Nel paese, a quel tempo, c’era la condivisione del dolore, la compartecipazione al lutto attraverso vari riti. La morte, aveva qualcosa della fatalità greca, era spesso antropizzata come nella figura della Parca. Per renderla meno orrenda, quasi familiare, le avevano affibbiato il nomignolo di Magna Catlin-a o la Nacia. Io la immaginavo come nelle danze macabre medioevali, scheletrica, nelle mani la falce affilatissima. In questa chiave allegorica, ho scritto, nella raccolta «Sbaluch», una poesia intitolata Majin e Catlin-a  in cui ho inventato un dialogo «surreale» tra la morte e una centenaria del mio paese, scomparsa in una notte d’inverno. […] L’inverno è la mia stagione preferita con l’abbagliante candore delle nevi a ricordarmi bellezza luce splendore,  ma anche perdita, sofferenza, orfanezza (mia madre morì improvvisamente, in cammino, durante una nevicata). In Giappone il bianco è il colore del lutto. Giorgio Bárberi Squarotti ha colto l’essenza del mio ambiente montano nella dura stagione invernale: «Il paesaggio di Bertolino ha sempre un che di astratto, povero come, appunto è: sono gli ultimi oggetti che sono rimasti per un progressivo annullarsi di presenze, si tratti di un ramo o di un’illusione di prato nel delirio che è perfino dei passeri, perché il nulla avanza, regna, si fa padrone delle cose e delle persone, e ciò che rimane è una sorta di straordinaria leggerezza di  danza di fantasmi nel delirio che il gelo provoca prima di serrare nella sua stretta ogni vita». Un ricordo luminoso degli inverni lontani è la figura di mio padre, alla finestra della cucina, aureolata dalle luci crepuscolari. Come uno sciamano cerca di incantare il vento che s’avvolge agli arcolai dei pruni, suonando una carta velina ripiegata su un pettine… E fuori la sera sciama dal bosco sul caravanserraglio di povere case… La guardo attraverso lo smeriglio dei vetri appannati, come una maga versa fuliggine dal suo sacco senza fondo, spegne il lucore della neve intatta… Momento magico, epifania rilkiana.[34]

I sensi e le percezioni sensoriali da un lato, la tensione immaginativa dall’altro (con tratti leopardiani) sono i traghettatori spazio-temporali fra interno ed esterno, passato e presente, reale e immaginario. Così ripetutamente solcano i versi di Remigio i temi della finestra, dei vetri, dell’uscio (VS 56, 64, 66, 68, 102, 152, 160, 168; ABdT 39, 43, 98; FdM 12, 78, solo per citare qualche occorrenza), dell’alba (FdM 40), del volo (FdM 14), dell’amore come antidoto all’inverno (FdM 12), dell’angelo (VS 40, 68) e del fantasma (VS 76), del padre-sciamano che affila la falce (ABdT 20), del sogno (VS 68; ABdT 48, 86; FdM 14, 24, 66: Tesio in particolare ne ha sottolineato la centralità)[35], della musica (VS 44; ABdT 30), della visionarietà e della trasfigurazione metafisica, di cui parla Bárberi Squarotti:

Alla solitudine e alla miseria del corpo c’è tuttavia l’alternativa del tentativo di volare fuori della costrizione umana. […] La poesia di Remigio ha un’altra forma, come fondamentale alternativa o, meglio, come meraviglioso compimento del tragico […] ed è la reinvenzione metafisica e surreale delle cose, neve, alberi, oggetti della casa, apparizioni, la trasfigurazione della realtà in metamorfosi dello sguardo, che scopre nelle vicende e nelle azioni quotidiane le rivelazione di innumeri altre interpretazioni.[36]

Spesso i temi sono compresenti e intrecciati, come in FdM 16, 22, 26, 28, 36, 66, 72, 80, 88.

Un tramite debole – e sostanzialmente mancato – è quello della religione (VS 40, 82; FdM 27, 52): “Dio… resta muto” al dolore del poeta (Silenzi, R 30). Tramite fortissimo è, invece, quello della poesia. Quando e come nasce la vocazione poetica di Remigio e quale decisiva importanza la poesia riveste nella sua vita, in quanto forma suprema di compensazione, sublimazione, consolazione – in una parola, salvezza – ce lo dicono molti suoi versi, come quelli, che riporto in italiano, di A la poesia, E la fiòca, La poesia:

Alla poesia

Sono qui che ti aspetto / il lume basso sul tavolo, / il quaderno aperto, / la matita in un alone d’ombra / sul foglio candido / come una betulla sulla neve. / La sera fa cucù / dai vetri; getta / le sue reti di ruggine / per noi, pesci di terra / che abboccano ai sogni.

Ho tempo, tutto il tempo. / Lontano un cane / rosicchia ossi di silenzio. / L’onda bianca della luce / sulle mie mani, / scogliere perse / nel mare della notte. / La matita freme nelle dita / come l’albero là fuori alla sera / in attesa del primo gemmare di stella / sulle fronde nere. (FdM 46)

E la neve

E la neve / dalle stanze del cielo / scendeva alle nostre / di ragnatele e gelo.

Dentro roveti di pensieri / a cercare una corrispondenza / tra lei e povere parole / senza ala.

Ma la neve / null’altro cercava / se non un nido di terra / per deporre le sue piume / d’uccello d’inverno.

Come una sarta / sapeva le misura / d’alberi, guglie, tetti / e quelle dei miei sogni. (SdE 26)

La poesia

Certe sere d’inverno / mi gettavo addosso / un mantello tutto toppe, / un capello nero / e uscivo a passeggio / con la poesia. / Abbracciati / sostavamo al tuo portone: / “Sono un po’ gelosa / ma vai dalla tua morosa” / mi diceva con le ali basse. / Non potevo lasciarla / lì, sola, allo scuro, / a battere i denti dal freddo… / Allora mi rinchiudevo / nelle sue braccia / e le inventava / mondi ricamati d’oro / e il vento ballava / dentro i nostri stracci… (SdE 33)

Ne è frequente allegoria, come in questi ultimi versi, il vento, con la sua voce “padrona” della bufera di neve (VS 94), la sua “elegia… / nella sera d’inverno” (FdM 60), il suo “soffio” di poesia (FdM 32); il vento che “in primavera spande / il profumo dei meli in fiore” (VS 56) e “soffia… gelido / sulla… schiena”, “gonfia la carta / stesa sul vetro rotto” quando arriva “l’angelo di piume  nere” della morte (VS 64, 68) e trascina via “le parole del padre” (FdM 50), perché il vento va “dove devono andare / i morti” (VS 30).

Remigio in prima persona ci parla della sua poesia in quella lunga dichiarazione di poetica che è la prima parte di Rabeschi (Bagliori, 13 sgg). Poesia è l’ “angelo invernale” che un giorno d’inverno, appunto, in una “misera aula scolastica di montagna”, volò sulle spalle già “ingobbite” di un alunno alto e magro, mentre oltre il “finestrone” volteggiavano “farfalle” di neve, e lo rapì nel “sogno meraviglioso” dei primi versi scritti sul quaderno “dalla copertina nera”. Quell’angelo, subito sparito, ritornò una sera ad “alitare le sue ali” – una sera di infinita tristezza dopo la morte della madre – e da allora non lo abbandonò più. Quell’angelo lo ha salvato dal “pozzo nero”, dal “baratro”, in cui stava precipitando: nelle “tenebre che racchiudevano il suo cuore” aprì nuovi “spiragli di luce”. E quando Remigio si è fatto più grande, ha scoperto i poeti del passato e si è confrontato con loro, ha capito che la poesia gli sarebbe servita per “calarsi nell’impenetrabile, nell’oscuro, nelle radici, nei mondi ctoni”. Così la poesia è diventata la sua stessa anima, il suo cuore, il suo respiro. E allora “certi pomeriggi d’inverno” Remigio può travestirsi da “guerriero omerico”, uscire nella neve e chiedere al vento di “portarlo dalla poesia”, che abita nel bosco, dove un “albero con una cavità enorme” fa da nido e rifugio a lei e al poeta. In questa dichiarazione c’è tutta la poesia di Remigio: le sue radici esistenziali-psicologiche e le sue radici letterarie, i suoi temi conduttori, le profonde sintonie con i grandi poeti del passato.

I modelli di Remigio sono i grandi poeti italiani e stranieri di ogni tempo: si può dire con  certezza che tutti li abbia letti e studiati a fondo, perché ne riemergono infiniti echi nei suoi versi;  in particolare – ricorda lo stesso Remigio – all’inizio, nel crogiolo di giovinezza, c’è naturalmente il magistero di Cesare Pavese con i versi di Lavorare stanca; il poeta penetrava nella realtà con l’ottica del mito e il ritmo lungo così prosastico mi affascinava. Poi me ne allontanai per timore di lasciarmi troppo influenzare, ma la cadenza di certi monologhi narrativi mi ha aperto la via ad una forma di espressione idonea al mio sentire. […]

Nella giovinezza, lontano dal paese, la sera, col lume abbassato sul tavolo, leggevo gli amati poeti e ritrovavo nei versi di J. Ramón Jiménez sensazioni simili alle mie, quando a giugno andavo nel prato a voltare l’erba tagliata all’alba da mio padre. […]

I grandi maestri a cui ho sempre guardato come vette assolute sono Rainer Maria Rilke, Antonio Machado, Robert Frost,  William Butler Yeats, Sergej A. Esenin e Aleksàndr Blok.[37]

E ancora, sempre per diretta testimonianza di Remigio, il poeta cinese Ai Qing e, fra i contemporanei,  Franco Loi, un maestro non solo di poesia, ma di vita. La sua calda umanità, il suo instancabile magistero in difesa della poesia della verità e della bellezza, ne fanno un faro di luce  in questi tempi in cui la materia prevale sullo spirito.[38]

Accanto a questi, e forse, a mio giudizio, in maniera più radicale, incidono sulla poesia di Remigio tre modelli “classici”: la poesia trobadorica, la poesia e il mondo poetico di Pascoli, il Purgatorio di Dante.

Remigio da Montaldo è per me l’ultimo dei trovatori. Non solo perché nel suo dialetto ci sono probabili tracce occitaniche[39], ma perché le circostanze storico-ambientali della sua avventura umana e poetica, la sua sensibilità, i temi e i registri della sua poesia lo fanno assomigliare ad un trovatore di ultima generazione, cantore nostalgico di un mondo al tramonto, esule in lutto da una corte e da una dama. La sua corte è il Montaldo contadino dell’infanzia, il Montaldo che non c’è più, se non nella dimensione della memoria, e la cui metamorfosi è parte e segno di un più grande mutamento epocale (è ancora lo schema della sineddoche). L’esilio di Remigio non è fisico ma psicologico (da Montaldo si è trasferito prima a Mondovì e poi a Vicoforte, ma, come tiene a precisare, torna al paese almeno due volte la settimana[40]): è il tipico esilio causato dalla repentina diaspora del mondo contadino, a metà Novecento, l’esilio di chi, pur continuando a vivere nel proprio paese, si sente abitante di un luogo straniero. La dama di Remigio ha il volto della madre e la maschera della morte. La perdita prematura della madre, come detto, è  il “trauma” da cui nasce tutta la poesia di Remigio e ne resta segnata in temi e caratteri formali, che se non sono le “ossessioni” di cui parla Gioanola, certamente sgorgano da quella ferita infantile che continua a sanguinare nell’adolescenza e nell’età adulta. La figura della madre è motore sentimentale e psicologico della poesia di Remigio attraverso una catena tematica – madre-morte-inverno-neve – che ne è il volano fondamentale: non solo madre naturale, dunque, ma metafora, come lo fu la dama dei trovatori, di tutto un mondo, un sentire, un modo di essere e di credere, perduti per sempre e solo riscattati dall’azione compensatrice, conservatrice, eternatrice della poesia. Alla corte perduta e alla dama perduta vanno il salut d’amor di Remigio, il suo planh , la sua desdansa, il suo elegiaco comiat, il suo amor de lohn, generi provenzali di cui sembra richiamare, se non la forma, gli echi tematici e i toni. Il vuoto lasciato dalla madre è percorso e ripercorso dalla poesia[41], che infaticabilmente cammina nell’inverno del dolore per cercarvi e ritrovarvi il senso del vivere, con una inconfondibile vena elegiaca, una pienezza e una finezza di espressione che sono il marchio distintivo di quell’incrocio di  trobar leu e trabar ric che è lo stile di Remigio. Ed è, prima di tutto, il tratto della sua umanità, della sua mitezza e cordialità, che infine vincono – nella vita come nella poesia – sulla tragedia: il tratto di una cortesia che è quella aristocrazia dell’anima e del verso che dalla lezione provenzale, grazie a Remigio e alla sua poesia, sopravvive fino a noi.

Proprio l’esperienza devastante del nido invaso e sconvolto dalla morte fa di Pascoli uno dei prediletti modelli umani e poetici di Remigio, che nel poeta di San Mauro trova consonanze profonde a livello psicologico, tematico, formale. Tesio[42] ha messo in luce le “morbidezze pascoliane” del verso di Remigio, specialmente nella pratica della metafora e dell’analogia; Bo ha parlato di “stupore fanciullo per il mondo” e di voce “cristianamente fanciulla”[43] (si tratta di un “fanciullismo” certamente di matrice pascoliana, ma con tracce meno censurate di educazione cristiana, per quanto la religiosità di Remigio sia segnata da un mite scetticismo). Si possono aggiungere, in generale, il ricorso sistematico alla trasposizione simbolica dei motivi naturalistici, sulla scorta del modello sovrano delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio (quante myricae nei “Canti di Montaldo” di Remigio!) e, più in particolare, lo statuto dell’orfano (orfano di padre, madre, fratelli e sorelle Zvanì, orfano di madre Remigio, entrambi per sineddoche orfani del mondo: Stagion d’orfanej, VS 88; Na pajanòta, VS 150) e lo statuto del sopravvissuto (con sensi di colpa anche per Remigio, sebbene meno angoscianti e regressivi di quelli di Pascoli), e ancora il tema, anche leopardiano, della negatività dell’essere (in Na pòvra fija, FdM 24, ad esempio, c’è un chiaro rimando all’Ulisse dell’Ultimo viaggio), i ricorrenti temi della morte, dei morti, del cimitero (VS 74, 114; ABdT 25, 31, 44), i simboli del temporale, delle campane ecc.  (ABdT 27, 72).

Quanto al Purgatorio, infine, vedo l’intero cammino poetico di Remigio ambientato in una sorta di paradiso terrestre parallelo ma inverso rispetto a quello dantesco. Il canto del poeta vi si propaga come invocazione al miracolo di una sospensione del tempo, di un indefinito intermezzo tra la lontana aurora e il tramonto ormai troppo vicino: perché il viaggio di Remigio non procede come quello di Dante dall’inferno al paradiso, ma, al contrario, dal paradiso all’inferno, dall’elegiaco rimpianto di un bene passato all’amara visione di un futuro senza luce (come per il vecchio traghettatore del Tanaro: L’ùltim portoné, VS 118). In questo suo eden alla rovescia Remigio assiste e partecipa a riti e liturgie, come Dante, ma con opposto stato d’animo e opposto destino, in un paesaggio che non è splendido di bellezze naturali  e di speranza, ma perennemente invernale, segnato dall’ombra della morte, popolato di angeli tristi di sofferenza e di consapevolezza della fine (fra questi, soprattutto, il padre). Ed è iniziato al valore della profezia e dell’apocalisse[44], che non hanno un orizzonte di redenzione, come nei canti finali del Purgatorio, ma di tragedia. Apocalittica è la poesia di Remigio perché rappresenta la “fine del mondo” (già nei titoli di due raccolte: Ij sègn dl’Apocalisse, La fin dël mond[45]), ovvero, come scrive Valter Boggione, “una civiltà che muore, senza la forza più di reagire”[46] (si veda ancora, per tutti, La vecchia vigna, ABdT 44, dal sapore manzoniano), e perché, come già notato, si avvale di un dialetto senza futuro. Ma è apocalittica anche nel significato più proprio della parola: rivelatrice, cioè, di un destino che non è solo quello di Montaldo e di Remigio ma di tutta la modernità (e questa è un’altra profonda consonanza con Pascoli) e della condizione umana in quanto tale (la rappresentazione della “tragica verità della vita” è, per Bárberi Squarotti, il traguardo supremo della poesia di Remigio).

Dove sta di casa, allora, la poesia di Remigio? Abita in una casa tutta sua, antica ma sempre fresca di restauro, romita e nascosta ma prossima ad un incrocio di vie di passato e di futuro, di paese e di mondo, di qui e d’oltre. Una casa rigorosamente di proprietà, ma con un padrone che ama invitare stuoli di ospiti, amici vicini e lontani, persone in carne ed ossa e fantasmi, spiriti e ologrammi di memoria, ed offrire loro i doni dell’accoglienza e della permanenza, e parlare con loro per giorni e notti, finché ci siano parole da dire e da ascoltare. E tessere insieme a loro storie sempre diverse e sempre uguali, di uno solo e di tutti, di un tempo e di sempre, al suono di vielle e fisarmoniche, fra canti di strada e di paradiso. Ospite d’onore – sempre – una signora vestita di nero, silenziosa, che entra ed esce in volo, trasportata dal vento dell’inverno. Perché la casa è perennemente assediata dalla neve e dal gelo invernali. Ma, all’interno, illuminata e riscaldata dai dorati “bagliori di luce” – gli sbaluch ëd lus – della poesia.

(da AA.VV., L’universo di Remigio, troubadour del sògn, ed. Gli Spigolatori, Mondovì 2014)


[1] G.L. Beccaria, Le orme della parola. Da Sbarbaro a De André, testimonianze sul Novecento, Rizzoli, Milano, 2013, p. 155.

[2] Si vedano le puntuali osservazioni di C. Bo, Le molte “lingue” del Cenacolo monregalese, in Poesia in dialetto tra Liguria e Piemonte (Atti del convegno: Bardineto, 13 settembre 2008), CZ Edizioni, Genova, 2009, pp. 169-179.

[3] G.L. Beccaria, Dialetto in poesia, in Le orme della parola cit., pp. 151 sgg.

[4] R. Bertolino, Mia mare, A l’ansëgna dij Brandé, Mondovì, 1976.

[5] R. Bertolino, Al ballo del tempo, Liboà Editore, Dogliani, 2005 (con presentazione di Claudio Bo).

[6] R. Bertolino, Rabeschi, Edizioni Gli Spigolatori, Mondovì, 2009 (con prefazione di Giuliana Bagnasco); si legga su quest’opera V. Boggione, Gli scrittori delle colline,  in “Studi piemontesi”, XLI – 2, dicembre 2012, pp. 401-414 (in particolare pp. 413-414).

[7] R. Bertolino, Il maestro della montagna, Liboà Editore, Dogliani, 2009.

[8] Penso, per esempio, a Le porte come metafora dell’inaccessibilità, la bella pagina che Remigio dedica all’artista savonese-monregalese Dario Buscaglia, nell’opera del quale vede rispecchiata, almeno in parte, la propria. Significative alcune consonanze tematiche e di percorso (dal realismo figurativo-documentario-antropologico al simbolismo e all’espressionismo); da sottolineare, in particolare, il tema della “porta”, del “vecchio uscio”, come simbolo di soglia all’oltre ma, nello stesso tempo, metafora dell’inacessibilità.

[9] G.L. Beccaria, Dialetto in poesia cit.

[10] Cfr. R. Bertolino, Versi scelti. 1976-2009, a cura e con un saggio di G. Bárberi Squarotti, Ed. puntoacapo, Novi   Ligure, 2010, pp. 203-204; Il mulo è scettico per natura. Conversazioni con poeti che abitano il Piemonte, a cura di T. Fratus e B. Pelizza, Torino, ed. Marco Valerio, 2010.

[11] R. Bertolino, Un ponte ci divide, Italscambi, Torino, 1974.

[12] Si veda ancora G.L. Beccaria, Dialetto in poesia cit.

[13] Come ultimamente osservato da Fiorenzo Toso, la dicotomia lingua-dialetto, insostenibile nella prospettiva storico-linguistica, è ciò nonostante alla base di quella storico-letteraria, che tende a sviluppare la propria riflessione proprio “alla luce della dicotomia lingua-dialetto (tertium non datur!)”: F. Toso, Liguria e Piemonte: letteratura dialettali a confronto, in Poesia in dialetto tra Liguria e Piemonte (Atti del convegno: Bardineto, 13 settembre 2008), CZ Edizioni, Genova, 2009, pp. 11 sgg.

[14] Indice delle sigle (i numeri rinviano alle pagine): VS = Versi scelti. 1976-2009 cit.; FdM = “La fin dël mond” La fine del mondo. Poesie 2005-2011, Ed. puntoacapo, Novi Ligure, 2013 (prefazione di Giovanni Tesio); SdE = Stanse d’ënvern, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 2006 (introduzione di Elio Gioanola).

[15] G.L. Beccaria, Dialetto in poesia cit.

[16] Claudio Bo, Le molte “lingue” del Cenacolo monregalese cit.

[17] Cfr. nota 10.

[18] R. Bertolino, Al ballo del tempo cit., p. 15.

[19] Il mulo è scettico per natura cit.

[20]  G. Bárberi Squarotti,  Presentazione a R. Bertolino, Sbaluch, Centro Studi Piemontesi, Torino, 1989; G. Tesio, Nota a R. Bertolino, ël vos, Interlinea, Novara, 2003; E. Gioanola, Introduzione a R. Bertolino, Stanse d’ënvern cit., pp. 7-11; G. Bárberi Squarotti, Introduzione a R. Bertolino, Versi scelti. 1976-2009 cit., pp. 5-9; G. Tesio, Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce, prefazione a R. Bertolino, “La fin dël mond” cit., pp. 5-10.

[21] Il mulo è scettico per natura cit.

[22] G. Bárberi Squarotti, Introduzione a R. Bertolino, Versi scelti cit.

[23] Giovanni Tesio, Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce cit.

[24] E. Gioanola, Introduzione a R. Bertolino, Stanse d’ënvern cit.   

[25] Il mulo è scettico per natura cit.: “[…] non parlo solo della lotta partigiana alla fine della seconda guerra mondiale, ma anche della sanguinosa «Guerra del sale», combattuta dai valligiani monregalesi contro i Savoia che avevano imposto l’odiata gabella sul sale”.

[26]  R. Bertolino, Stanse d’ënvern cit.

[27] Per le sigle, vedi nota 14. Si aggiungano: ABdT =  Al ballo del tempo cit.; R = Rabeschi cit.

[28] G. Bárberi Squarotti, Introduzione a R. Bertolino, Versi scelti cit.; G. Tesio, Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce cit.; E. Gioanola, Introduzione a R. Bertolino, Stanse d’ënvern cit.   

[29] R. Bertolino, “La fin dël mond” cit.

[30] G. Bárberi Squarotti, Introduzione a R. Bertolino, Versi scelti cit.

[31] La “forza delle metafore” è il “tratto saliente” della poesia di Bertolino:  G. Tesio, Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce cit.

[32] R. Bertolino, L’eva d’ënvern, Amici di Piazza, Mondovì, 1986 (presentazione di Marco Antonio Aime e Carlo Regis); Stanse d’ënvern è una sezione della raccolta omonima: cfr. nota 24; Elegie d’ënvern e La fin dël mond sono  sezioni della raccolta “La fin dël mond” cit.

[33] La neve, in Bertolino, è “simbolo dell’infelicità di una vita segnata dal precoce manque” della scomparsa della madre (F. Brevini,  Nota a A lüm ed fiòca, Liboà Editore, Dogliani, 1995); “Sotto una poesia così obbediente a poche e imperiose ossessioni ci dev’essere obbligatoriamente un trauma decisivo. Credo abbia ragione Brevini a indicare nella precoce morte della madre, avvenuta quando il figlio era ancora bambino, le origini di un trauma, che ha ibernato (il ter­mine è obbligatorio) la sensibilità del poeta, in modo tale che nessun conforto successivo è più riuscito a sciogliere quel grumo di dolore” (E. Gioanola, Introduzione a R. Bertolino, Stanse d’ënvern cit.). Cfr. anche i già citati Bárberi Squarotti e Tesio.

[34] Il mulo è scettico per natura cit.

[35] G. Tesio, Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce cit.

[36] G. Bárberi Squarotti, Introduzione a R. Bertolino, Versi scelti cit.

[37] Il mulo è scettico per natura cit.

[38] Ibid.

[39] “Il mio montaldese è molto simile alla parlata di Mondovì, ma ha parole e forme più arcaiche, più agresti e montane. Montaldo è a cavallo tra Piemonte e Occitania; infatti nell’alta valle del fiume Corsaglia si parla già l’occitano tipico del  monregalese, il kié” (Il mulo è scettico per natura cit.).

[40] Il mulo è scettico per natura cit.: “[A Montaldo] ho un vecchio tecc, una baita, dove mi rifugio quando voglio vivere una giornata nel silenzio totale, lontano dal sordo borbottio dei ritmi moderni”.

[41] “La poesia è un dono degli dei. Non sappiamo quello che in futuro ci riservano. Bisogna essere pronti, fare un grande vuoto ed aspettare. Niente altro che aspettare. L’amata ci raggiungerà. […] La poesia ha il merito di indicarci vie non battute, lo splendore delle nuvole. Nel mio caso, mi ha gettato un ponte di speranza; le parole hanno un grande potere  consolatorio” (Il mulo è scettico per natura cit.).

[42] G. Tesio, Remigio Bertolino e il sogno del mondo che (non) finisce cit.

[43] C. Bo, Prefazione a R. Bertolino, Al ballo del tempo cit.

[44] Di voce profetica e rivelatrice parla Claudio Bo nella Presentazione a R. Bertolino, Al ballo del tempo cit.

[45] R. Bertolino, Ij sègn dl’Apocalisse, Boetti & C. Editori, Mondovì, 1998;

[46] V. Boggione, Gli scrittori delle colline cit., pp. 413-414.