Il giorno dopo l’ Epifania

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MARIKA MANGINI

Versa un caffè fumante, la tazza scheggiata, gli occhiali annebbiati dalla sigaretta. Sussurra, abbozza un sorriso che odora di pagine sparse su qualche scaffale lontano. Penombra, un tavolo antico, una poltrona arruffata. La voce sottile, sospira e sorride, esile giunco appoggiato ai vetri rigati di pioggia. La mano si appoggia sul legno e lascia un’ impronta.

-Parto- bisbiglia nel fumo della sigaretta. Il silenzio che segue scandisce una sentenza inappellabile, con la voce chiara e ferma di chi ha deciso e non torna indietro.

Ciò che contava, ora, era agguantare una valigia e salire sull’ultimo fischio del primo treno. Si alza lentamente e spegne le luci del salotto. Il cappotto le scivola addosso. La porta si schiude e lei scompare nella nebbia del mattino.

Le stazioni si assomigliano tutte,  diceva qualcuno. Quell’aria di ferro taglia le gambe e il sibilo delle porte sega i timpani in due. È l’odore dell’attesa, diceva qualcuno.

Sedili gelidi, respiri gelidi, bocche gelide.

Si va. Finalmente si scivola veloci con il sollievo ansimante di chi riesce a scappare, di chi è salvo per un pelo, perché al volo salta sulla nave che lo toglie alla stanchezza stantia di una città assopita. Si va e si va, sempre più veloci, sempre più lontano.

Eva, questo era il suo nome, si stringe nel cappotto accavallando le gambe, mentre il collo di lana le punge il mento fino a sfiorare il labbro screpolato dagli spifferi. Si toglie i guanti e il cappello, strofinando le mani arrossate dal grigio di quel freddo gennaio.

È seduta vicino alle porte di uscita, il biglietto stropicciato di sudore tra le mani. Mentre il fischio del treno segna la partenza, si accorge di non averlo obliterato. Eppure era stata molto tempo alla stazione, aveva passeggiato lungo i binari incrociato più volte passeggeri nell’atto di obliterare. Sospira, mentre di colpo si precipita verso l’uscita trascinandosi dietro la valigia. Ma le porte si sono già chiuse. Con le spalle abbassate, torna dal suo cappello e dai guanti abbandonati sul sedile.

Il treno percorre la campagna, in quel verde che va a confondersi nel cielo plumbeo, spazi dilatati in un tempo indefinito, come quello di quei quattro metri quadri buttati a gran velocità in una terra di nessuno. È il palcoscenico improvvisato di un film muto, in cui piccoli personaggi stanchi e senza voce abbozzano gesti e sguardi ora verso l’uno, ora verso l’altro, ora verso il niente.

Sulle guance un leggero soffio d’aria. Qualcosa si è mosso lento e improvviso. Aperti gli occhi, di fronte a lei un uomo e un giornale stropicciato. Dietro il giornale spuntano piccoli occhiali tondi e una fronte rugosa a malapena coperta da un cappello inclinato su un lato. L’uomo si accorge dello sguardo insistente di Eva, scosta il mento di un millimetro e simultaneamente, di un millimetro, si spostano gli occhi di Eva.

Cercando un altro dove su cui appoggiarsi, gli occhi di lei cadono sulla valigia di cuoio appoggiata al ginocchio di lui, da cui penzola una targhetta con incise le iniziali L.B.

Prova a non fissarlo. Ma ogni volta che, con finta distrazione, batte ciglio verso L.B., non riesce a staccarne lo sguardo.

I freni stridono sulle rotaie e, un attimo dopo, il treno rallenta. L.B piega il giornale e se lo infila in tasca, poi si alza e si avvia con passo lento verso le porte. Lei con lui. Le suole delle scarpe battono un ritmo deciso, che rompe il silenzio del vagone e i suoi quattro metri quadri.

Scendono dal treno uno dietro l’altro, ma ognuno per la sua strada. Il sole scalda le vie che conducono al porto. Basta seguire l’odore del mare per giungere al molo. Eva si toglie il cappotto, lo piega e lo spinge in valigia.

Se non fosse ancora troppo freddo, potrebbe togliere le scarpe e cavalcare a piedi nudi e leggeri il sentiero verso il molo, scalciando via i sassolini sul selciato. E mentre quei brividi di gennaio le trattengono i piedi nelle scarpe, un ciuffo ribelle sfugge alle forcine piantate sulle tempie e si abbandona voluttuoso al vento salino.

In un attimo è al molo e riconosce la sua barca. Si avvicina con la mano in tasca. Posa a terra la valigia e sistema i capelli per bene. In tasca aveva il biglietto di ritorno. Lo tira fuori. Poteva ancora correre verso la stazione e prendere il treno delle 6. E girandosi indietro, con le spalle ormai voltate al molo, nell’intento di muovere il primo passo pesante in direzione contraria al mare, un Grecale infuriato le alza le vesti e le libera i capelli, portandosi via il biglietto per seppellirlo in mare.

Eva si aggrappa alla ringhiera con un lungo passo e sale a bordo. Mentre si stacca dalla terraferma, toglie le scarpe e volge lo sguardo all’ indietro. Sulla banchina scorge il cappello di L.B. e la sua mano che saluta da lontano.

(Fotografia di Lorenzo Avico)

Questo pezzo fa parte dell’Officina Narrativa del laboratorio di scrittura creativa ISPIRAZIONE e COSTRUZIONE, tenuto presso l’Associazione Culturale La Meridiana Tempo di Mondovì.