La caduta dei gravi

MORANDINI Immagine

CESARE MORANDINI

Ci sono lettori che alla letteratura chiedono rispecchiamento, una narrazione della vita che sia onesta e senza artifici in modo da risultare condivisibile, immagine della condizione umana comune. E’ una lettura impegnativa, a volte tortuosa, che lascia spesso in bocca il sapore dell’inquietudine. Una lettura difficile dalla quale però – il lettore lo sa ed accetta il rischio – si può uscire cambiati davvero, soprattutto in quanto a consapevolezza e a sapienza sulla vita. Alice Munro (1931-) produce questo tipo di letteratura. Ha ricevuto il premio Nobel nel 2013. Appartiene alla scuola nordamericana delle short stories, di quel “realismo” che prende le mosse da Čechov e da Maupassant e che ha come protagonisti Flannery O’Connor e Raymond Carver, la cui filosofia è semplicemente quella di raccontare la vita com’è, senza paura e senza infingimenti. Sia pure in frammenti e senza alcuna sistematicità “scientifica”, quegli autori costruiscono con la loro opera un’antropologia, un discorso sull’uomo dei nostri tempi.

Le storie della Munro hanno caratteri costanti. Le donne sono sempre protagoniste dell’azione e soggetto narrante. Il loro è sempre uno sguardo impietoso sulla propria e sulla vite degli altri, che scorrono per lo più sullo sfondo della provincia canadese tra gli anni Sessanta e i Novanta. Sono donne di rango sociale non elevato, casalinghe, operaie, bibliotecarie, libraie, musiciste, colte in tutte le fasi dell’esistenza: figlie, amanti, mogli, madri, vedove. Attraverso il loro occhio il lettore scopre progressivamente – e a volte con una certa difficoltà – circostanze, tempi e reti di rapporti, si fa catturare in trame complesse che per lo più hanno i contorni di saghe familiari, spesso con improvvisi salti di tempo all’indietro. Proprio i rapporti elementari all’interno della famiglia (padre-madre-figlia) sono al centro di Le Lune di Giove, l’ultimo dei racconti della raccolta omonima, uscita in Italia nel 2008 (Alice Munro, Le lune di Giove, 1982; ed. it. Einaudi 2008)

 *

“Trovai mio padre in cardiologia, all’ottavo piano del Toronto General Hospital. Era in una stanza doppia.”

A narrare la vicenda, fornendo così un punto di vista interno alla storia stessa, è una scrittrice di cui non ci viene detto il nome, che accudisce il padre ammalato in ospedale. E’ nata nella piccola città di Daigleish, nell’Ontario sudoccidentale, area in cui si svolgono molte delle novelle della Munro. E’ reduce da un viaggio in Inghilterra, da cui è dovuta tornare per prelevare il padre malato proprio nella cittadina natale. Lei vive e lavora però a Vancouver, dove ha messo su famiglia e le sono nate le due figlie. Nonostante questo non riconosce quella città come il luogo proprio: “il mio quartier generale”, lo definisce, ossia luogo per il lavoro, di provvisorietà pratica. Daigleish, con il suo nome indiano e selvatico, è la sua vera casa, da cui si è allontanata ma a cui non ha smesso di appartenere. Il mettersi al capezzale del padre malato significa per lei tornare al punto di partenza della propria vita, nel doppio significato del padre e del luogo dove è nata. Toronto, in ultimo, è la città sconosciuta, dove il padre va a morire, dove la figlia secondogenita è andata a vivere una sua esistenza nuova e a lei ignota, la città della novità e degli approdi. Scrittrice di medio successo, la sua carriera non appare come un’acquisizione pacifica, ma ancora indefinita e precaria, è invidiosa del successo delle altre scrittrici e teme il giudizio (a volte ironico) del padre.  Una donna a metà del guado insomma, inconclusa, irrisolta, che ha lasciato casa ma non ha ancora trovato casa.

“Aveva dei cavi incerottati sul petto. E un piccolo schermo sospeso sopra la testa, sul quale si disegnava in continuazione una linea luminosa e regolare. Il tracciato era accompagnato da un nervoso bip-bip elettronico. Il comportamento del suo cuore era in mostra. Cercai di ignorarlo. Mi pareva che prestargli tanta attenzione – spettacolarizzare anzi quella che avrebbe dovuto essere un’attività assolutamente segreta – coincidesse col cercare guai. A esporre una cosa in quel modo si rischia sempre di farla saltare in aria e impazzire.”

I cavi dell’elettrocardiogramma sul petto dell’uomo sono le connessioni con il suo stato più intimo, svelano in modo impudico la sua meccanica (e precaria) traiettoria di vita, esponendola all’esterno. E’ un movimento dissacrante e improprio, tanto che la figlia se ne vergogna. E’ un rendere pubblico ciò che deve stare nascosto, banalizzandolo, spogliandolo. E’ la linea della vita, il chimico procedere dell’esistenza, che reso in modo sonoro e visivo all’esterno non ha più alcun manto emotivo o religioso (il “bip-bip”), e questa dissacrazione equivale, agli occhi della donna, al correre il rischio della sua esplosione e del suo impazzimento.

Il primo salto all’indietro del racconto riporta il lettore alla notte precedente, quella della crisi cardiaca, della corsa al pronto soccorso. Il medico, dopo aver visitato il paziente, aveva posto come necessario un intervento d’urgenza alle valvole cardiache. Ne era seguito un veloce dialogo tra il medico e la donna.

“Gli domandai che cosa sarebbe successo in caso contrario.

- Che dovrebbe stare sdraiato in un letto, – disse il dottore.

- Quanto tempo ?

- Tre mesi, forse.

- Nel senso, quanto tempo gli resterebbe da vivere ?

- Ho capito, intendevo in quel senso anch’io, – disse il dottore.”

L’alternativa all’operazione si pone, insomma, non in modo inequivoco come la morte, quanto come una condanna all’immobilità di tre mesi dietro cui si cela – la donna lo scopre a fatica, in seconda battuta – la morte. La parola “morte” non viene mai pronunciata. E’ un carattere curioso delle vicende della Munro: la morte dei personaggi è sempre dissimulata, non chiara, differita, indefinita, equivocata, rimandata. E’ una condizione od un momento che avviene di nascosto, fuori dalla narrazione e persino dalla percezione diretta dei personaggi.

La donna apprende la diagnosi con misura:

“Pensai: sì, ci siamo; doveva succedere prima o poi, ecco. Non provai affatto il senso di ribellione che mi avrebbe colta una ventina, o anche solo dieci anni prima”

Il padre, però, non reagisce allo stesso modo, ossia con rassegnazione, con un suo “doveva succedere prima o poi”.

“- Potrebbe andar peggio, – dissi. Dopodiché, ripetei, anzi sottolineai, ogni aspetto positivo cui avesse fatto cenno il dottore. – Non c’è alcun pericolo immediato. Per il resto, sei in buone condizioni fisiche.

- Per il resto, – commentò serio mio padre.”

La Munro è maestra dell’analisi rapida e diretta delle piccole emozioni del soggetto che scattano per una parola o un gesto da nulla, che talvolta rivelano profonde dinamiche umane, e ce ne dà un saggio proprio in questa occasione. La donna infatti, ascoltando quel “per il resto” pronunciato con serietà dal padre, reagisce con una stizzosa invidia. Il padre non accetta di essere giunto al capolinea, e di doversi nutrire di pietose consolazioni: precisamente quello che lei aveva accettato appena pochi minuti prima. Insomma, la donna misura se stessa sul padre, che costituisce per lei una pietra di paragone, un riferimento mobile e animato, in un rapporto di figliolanza che dura tuttora ed è ben attivo, tanto che in quella circostanza le rivela la sua inadeguatezza. Lo ama e la imbarazza, perché ne dipende ancora per la misurazione della propria riuscita nella vita.

Che sia proprio questo il tema lo dice la mezza paginetta che il soggetto narrante spende per spiegare al lettore il proprio stato d’animo suscitato da quel “per il resto”: una mezza paginetta in cui descrive l’atteggiamento del padre nei confronti della sua professione di scrittrice. Il padre su questo argomento è sempre pronto a punzecchiare la vanità della figlia, a seminare dubbi sulle attestazioni di lode e le testimonianze di un successo ancora incerto, con allegra ironia, provocando in lei – certamente senza volontà né cattiveria – tensione e scoraggiamento. Anche in questo – sembra riconoscere la donna – il padre è pietra di paragone, cartina di tornasole, specchio della vita riuscita; nonostante lei sia ormai una donna matura, con figlie grandi e indipendenti, dipende psicologicamente ancora dal padre.

“Quando mi resi conto dall’espressione di mio padre che invece lui lo provava – che gli era scattato dentro lo stesso rifiuto che avrebbe potuto sentire con trenta o quarant’anni di meno – mi si indurì il cuore, e gli parlai con una specie di allegria malevola. – Il resto è già molto, – gli dissi.”

*

Il secondo giorno di degenza un altro medico pronuncia una diagnosi più rassicurante, che chiama in causa una possibile febbre reumatica nell’infanzia e non pone l’operazione come ineluttabile. Il padre, interrogato, dice di non ricordarsi di una simile febbre patita nella propria infanzia, ma aggiunge

“…anche se, all’epoca, il più delle volte nessuno te lo diceva, che cosa avevi. Mio padre non era di quelli che stanno a chiamare il dottore”

Entra così nella storia – per poco – la figura del nonno, colto nella sua figura di padre, ossia come colui che prende le decisioni al posto del figlio ancora giovane. La sua evocazione fa scattare, nella narrazione della donna, il grappolo delle immagini su sé stesso giovane che il padre era solito fornire. Il padre nella miseria della cascina, con le sorelle impaurite, con il nonno tiranno; il padre che fugge  per andare a lavorare sui battelli da lago, che corre sulle traversine della ferrovia, nella luce della sera; il suo incontro con un castagno, albero di particolare rarità in quella regione. Le immagini del giovane fuggiasco e perseguitato cozzano però con quella del presente “vecchio, intrappolato qua dentro da una falla al cuore” e risultano sgradevoli, stridenti, come sgradevole e stridente la stessa figura del padre da giovane.

“Non mi interessava inseguire pensieri simili. Non avevo voglia di ricordarlo da giovane. Perfino il suo torso nudo, bianco e robusto (…) rappresentava un pericolo per me; con quell’aria così forte, così giovane. Ero più abituata al collo rugoso, a mani e braccia macchiate, alla testa stretta e delicata con baffi e capelli grigi, finissimi.”

E’ l’immagine del proprio padre in quanto a-sua-volta-figlio, ossia determinato da una relazione che la esclude, ad esserle estranea, sgradevole e innaturale.

Il padre le parla della propria decisione di non farsi operare. La donna è soddisfatta, perché questa volta il padre torna a corrispondere all’immagine consueta che lei ha di lui: dignitoso, che sa accettare la morte, indipendente, autonomo, che “non si piange addosso”.

*

Il racconto ora procede per un flashback a due giorni prima, e mette a fuoco un terzo personaggio famigliare, dopo la donna e il padre. Si tratta della secondogenita Judith, che va a prendere la madre all’aeroporto di Toronto, città in cui vive, accompagnata dal proprio ragazzo Don. La donna andrà ad abitare per qualche giorno dalla figlia, loro andranno in Messico per un viaggio. È un evidente snodo di diversi percorsi di vita che si incrociano solo temporaneamente, con il pretesto del padre malato. La donna chiede alla secondogenita Judith notizie della primogenita, Nichola. Lo stesso fatto è curioso: Nichola appare più vicina alla sorella che alla stessa madre. Quelle che riceve sono informazioni vaghe di una figlia errabonda e dalla vita instabile, in cerca essa stessa di distanziarsi dalla famiglia.

“Judith aggiunse che non sapeva con esattezza dove fosse Nichola. Aveva lasciato il suo appartamento (quel buco!) e l’aveva chiamata (il che era già molto, in effetti: una telefonata di Nichola) per dirle che intendeva rendersi irreperibile per un po’, ma che stava bene.”

Durante questo dialogo, che si svolge durante l’uscita dall’aeroporto, la figlia Judith e il suo ragazzo Don hanno più di un cenno di complicità. La madre lo nota: la figlia appare più in confidenza col proprio ragazzo che con lei stessa. Ha un moto di fastidio per quella relazione, che percepisce come sgradevole (la fa sentire “più vecchia”), sia perché c’è un personaggio nuovo che si intromette nella relazione madre-figlia e con il quale la figlia parla, magari proprio di lei-madre, sia perché c’è qualcuno che può conoscere e vedere la propria figlia in modo diverso rispetto a come l’ha conosciuta e vista lei, incrinando una qualche sua prerogativa esclusiva.

“Facevo la stessa cosa anch’io a quell’età”, riconosce a quel punto l’io narrante della storia. Da giovane faceva lo stesso con l’amica Ruth Boudreau: si confidava, raccontava dei propri genitori. E’ insomma una legge ineluttabile: l’intromissione di altre vite, di altri punti di vista, nella relazione prima esclusiva madre-figlia, con la progressiva marginalizzazione di quella relazione originaria.

Qui la Munro colloca un secondo ricordo della donna a cui ha attribuito il ruolo di narratore. Tanto tempo prima, in un colloquio con il padre, questi le aveva confessato che “Sai, se penso agli anni in cui sei cresciuta, mi si annebbia un po’ tutto. Non riesco a distinguerli uno dall’altro.” Lei si era offesa, per lei i ricordi di quella stessa fase della sua vita – quando insomma lei era bambina – erano invece nitidissimi. Adesso però scopre in sé la stessa “nebbia” a proposito della fase in cui le sue figlie erano piccole, proprio come il padre.

La pagina della Munro è molto efficace.

“In compenso, gli anni in cui Judith e Nichola erano piccole e io stavo con il loro padre… sì, nebbia era la parola giusta per definirli. Ricordo pannolini stesi ad asciugare, raccolti, ripiegati, e ricordo il banco di cucina in due case diverse e anche dove tenevamo il  cesto della biancheria sporca. Ricordo programmi televisivi – Braccio di Ferro, I tre marmittoni, Le comiche. Quando cominciavano Le comiche era ora di accendere la luce e mettere su la cena. Ma non avrei saputo distinguere gli anni. Abitavamo alla periferia di Vancouver, in un quartiere dormitorio: Dormir, Dormer, Dormouse, un nome così. Avevo sempre sonno, all’epoca: la gravidanza mi metteva sonno, e poi le poppate notturne, e l’eterna pioggia della costa occidentale. Cedri neri grondanti, lucido alloro grondante; mogli tra pisolini, sbadigli, visite, tazze di caffè, pannolini da ripiegare; mariti che rientravano la sera dalla città sull’altra riva dell’acqua. Ogni sera accoglievo il mio, che arrivava a casa col Burberry tutto bagnato e speravo che riuscisse lui a tenermi sveglia; gli scodellavo un secondo di carne e patate e uno dei soli quattro contorni di suo gradimento. Mangiava con appetito feroce, poi si addormentava sul divano del soggiorno. Eravamo diventati una coppia degna di un fumetto, più vecchi a vent’anni di quanto saremmo poi stati una volta raggiunta la mezza età.”

Le memorie sono relative. Ciò che è importante per qualcuno non lo è per altri. Ancora una volta, però, la donna compie una specie di consapevole passaggio dall’essere figlia (e dal sentire come tale) all’essere madre (ed al sentire come tale): in modo da sentirsi appartenente a due mondi, a due relazioni contemporaneamente. Qui si nota, tra l’altro, come nel ricordo della donna, il proprio marito non abbia avuto e non abbia tuttora alcuno spazio: un semplice corpo senza volto né parola.

È a casa di Judith, ospitata per i giorni del suo accadimento del padre. È come un passaggio veloce e non incisivo nella sua orbita. Si sovrappone a lei temporaneamente.  Quando è in quella casa da sola il telefono squilla spesso, ma le telefonate – come in realtà appare assai più ovvio al lettore che all’io narrante – sono tutte per lei, e nessuna per sé. La donna prova per questo un senso di delusa meraviglia. A casa di Judith la donna tenta una telefonata a Tom, un suo ex con cui non si sentiva da anni, persona del tutto esterna alle vicende presenti della sua vita. Segreteria telefonica, l’uomo non c’è, c’è solo la sua voce registrata. In quei giorni insomma in cui per la donna le relazioni famigliari sono investite da una luce nuova e rivelatrice, è quello un modo per testare la eventuale permanenza delle relazioni del passato esterne al cerchio famigliare. Quel piccolo test si risolve in una risposta negativa. E’ insieme un piccolo tentativo di ribellione alla sua situazione di ospite delle relazioni altrui, alla quale però deve rassegnarsi.

*

Il padre ha deciso per fare l’operazione. Lo spiega in ospedale in modo un po’ confuso e letterario: cita il viaggio dantesco di Ulisse per “mari sterminati”, ma soprattutto ha letto su riviste popolari di esperienze di sospensione della vita durante le operazioni chirurgiche, ed è tentato di credere all’esistenza dell’anima, vuole provare anche lui, vuole rischiare. La donna è sottilmente delusa, lo credeva diverso, la banalità dei suoi riferimenti la imbarazza.

Visto che il rischio dell’operazione è forte, il padre comincia a parlare di testamento. La donna pertanto lo interrompe e chiede se, di fronte a quegli argomenti, non sia meglio far intervenire anche sua sorella, Peggy. E’ la traccia di un secondo legame famigliare. Peggy ha un marito di nome Sam, astronomo, ammiratissimo e amato dal padre della donna narrante, con tre nipoti disciplinati come soldatini. L’irruzione di quel curioso mestiere, “astronomo” avverte il lettore che il racconto si sta avvicinando al proprio nucleo di senso, dato che il titolo ha un carattere astronomico, “Le lune di Giove”.

La donna vaga per Toronto, attorno all’ospedale, per negozi. Guarda i passanti e compra vestiti per ingannare l’attesa dell’evento, ossia l’operazione del padre. Lo ha già fatto in passato: in particolare quando la figlia Nichola si era ammalata, e lei l’aveva portata dal medico, per sospetta leucemia. Anche allora aveva ingannato l’attesa dell’esito degli esami comprando vestiti. Ricorda il viaggio in autobus con la piccola  Nichola in braccio di ritorno dall’ospedale, con la mente occupata dall’incertezza della diagnosi. Ricorda le proprie sensazioni di allora, nitide.

“…mi resi conto che la toccavo in maniera diversa, pur essendo sicura che nessuno avrebbe mai potuto accorgersene. Era scattata una cautela, non una ritrosia vera e propria, ma una riserva a lasciarmi prendere dall’emozione. Capii come sia possibile conservare le manifestazioni d’amore per una persona condannata, ma in un modo misurato, rigoroso, per la semplice ragione che si deve sopravvivere. Però si può fare in maniera talmente discreta che l’oggetto di quella cautela non lo sospetti più di quanto sia in grado di sospettare la sentenza stessa di morte. Nichola non sapeva, non avrebbe saputo. Su di lei sarebbero piovuti baci, giochi, parole scherzose; non avrebbe saputo mai, anche se temevo potesse sentire il vento tra gli spifferi di quelle vacanze artificiali, di quei giorni artificialmente come ogni altro. Andò tutto bene, invece.”

Ricorda – con una certa triste meraviglia – il proprio istinto a moderare le manifestazioni d’affetto per la figlia, sotto la minaccia di doversene staccare, come per autodifesa, come per alleggerire la propria dipendenza da una persona che potrebbe andarsene presto.

A spasso per Toronto in attesa dell’inizio dell’operazione del padre va al planetario cittadino. Prosegue la marcia di avvicinamento al nucleo tematico del racconto. Lo spettacolo cui assiste la donna riguarda il sistema solare, viene citato il pianeta Giove.

“A quel punto, il realismo lasciava il posto al consueto ricorso all’artificio. Un plastico del sistema solare eseguiva con eleganza la sua rotazione incessante. Una sfera luminosa decollò dalla terra, dirigendosi verso Giove. Imposi al mio cervello anchilosato e recalcitrante di registrare i fatti. La massa di Giove: due volte e mezza quella di tutti gli altri pianeti messi insieme. La Grande Macchia Rossa. Le tredici lune. Al di là di Giove, uno sguardo all’orbita eccentrica di Plutone, agli anelli ghiacciati di Saturno.”

La protagonista nota con fastidio che sono state inserite a corredo delle immagini delle musiche a carattere religioso, per dare un tono solenne alla rappresentazione del ruotare dei pianeti e delle stelle. Lo trova ingiustificato e vagamente fastidioso, inappropriato per il tema (“un brivido lungo la schiena guardando fuori dalla finestra?”). Chissà perché elementi così naturali e meccanici debbano venire ammantati di un riferimento alla religiosità, si chiede. Intanto i ragazzini delle scolaresche presenti rumoreggiano, mangiano buttando cartacce per terra. Meglio così, si dice la donna, almeno non ha effetto su di loro quella dolciastra mitizzazione.

La donna, in ospedale, racconta al padre del planetario. Il padre coglie la palla al balzo e  recita a memoria i pianeti del sistema solare, poi tenta con le lune di Giove.

“- Dimmi le lune di Giove.

- Beh, quelle nuove non le conosco. Ce n’è un mucchio, no?

- Due, ma non sono nuove.

- Nuove per noi, – disse mio padre. – Ti è venuta la lingua ora che sto per finire sotto i ferri, eh?

- “Sotto i ferri”. Che razza di espressione.

Non era a letto quella sera, l’ultima sera. L’avevano staccato dall’apparecchio, e si era seduto accanto alla finestra. Aveva le gambe nude, e indossava una camicia dell’ospedale, ma non sembrava a disagio, né imbarazzato. Aveva l’aria pensosa, ma cordiale, da buon padrone di casa.

- Comunque non hai detto i nomi neanche di quelle vecchie.

- Dammi tempo. Le battezzò Galileo. Io.

- E’ un inizio.

- Le lune di Giove sono i primi corpi celesti scoperti con l’uso del telescopio, – disse serio, come se leggesse  quella frase su un libro antico. – E non fu neanche  Galileo a battezzarle; è stato un tedesco. Io, Europa, Ganimede, Callisto, ecco.

- Esatto.

- Io ed Europa erano amanti di Giove, giusto ? Ganimede era un ragazzino. Un pastore ? Callisto, non so chi fosse.

- Credo un’amante anche lei, – dissi.- La moglie di Zeus, di Giove cioè, la trasformò in un’orsa e la relegò in cielo. Orsa Maggiore e Orsa Minore. La minore era suo figlio. L’altoparlante annunciò la fine dell’orario di visita. Ci vediamo quando ti svegli dall’anestesia, – dissi.

- Sì.

Quando fui sulla porta, mi richiamò. – Ganimede non era un pastore. Era il coppiere di Giove.”

Sono le ultime parole nella storia da parte del padre, che va “sotto i ferri”.

*

La donna va ad attendere l’esito dell’operazione in un parco alle spalle del museo di Toronto, dove c’è un Giardino Cinese con cammelli in pietra, statue di guerrieri, e una tomba monumentale. Li vede, poi si siede su una panchina (è l’immagine scelta per la copertina dell’edizione italiana della raccolta) e guarda la gente che passa. Una ragazza lontana le sembra Nichola, ma non è lei. In fondo avrebbe anche potuto davvero vedere Nichola, ma ormai proprio come una persona qualunque,

“Magari di sfuggita, mentre passava per una via non lontana di lì, stanca, preoccupata, sola. Ormai era un’adulta come tante, in giro per il mondo, con la sua borsa della spesa, diretta a casa”.

Riconosce insomma che la figlia primogenita ha ormai tagliato tutti i ponti con lei, si è affrancata, ha la sua vita, si è distaccata per sempre; ma anche che lei stessa ha lasciato andare la figlia alla sua vita, la figlia che appare alla madre ormai spogliata dei caratteri privilegiati di “figlia”, figura ormai come le altre che passano per strada. Ma ormai il racconto volge al termine; gli elementi sono disposti e la struttura è evidente.

“Se l’avessi vista davvero, forse sarei rimasta seduta a guardarla e basta, mi dissi. Mi sentivo come una di quelle persone che hanno galleggiato fino al soffitto, godendosi una morte breve. Che sollievo, finché dura. Mio padre aveva fatto la sua scelta, Nichola pure. Un giorno o l’altro, fra non molto probabilmente, si sarebbe fatta viva, il che non cambiava le cose. Volevo alzarmi e andare alla tomba, guardare i bassorilievi, le immagini incise nella pietra tutto intorno. Le voglio sempre vedere e non lo faccio mai. Neanche quella volta. Cominciava  a far freddo, perciò entrai a bermi un caffè e a mangiare qualcosa prima di far ritorno all’ospedale.”

La donna prova, seduta sulla panchina, la sensazione dell’ineluttabile e meccanico esaurirsi di una relazione; e di una relazione strettamente biologica, in apparenza indissolubile, quella tra madre e figlia. Si sente una persona che “ha galleggiato fino al soffitto, godendosi una morte breve”, ossia che ha lasciato vivere quella relazione secondo i ritmi e i tempi suoi propri, senza alcuna pressione, e che ora vedeva quella relazione esaurirsi con naturalezza e nel silenzio.

Si è però fatto tardi, e la donna si alza. C’è qualcosa che avrebbe sempre voluto fare in quel giardino, visitare i bassorilievi tutto attorno ad una tomba monumentale, e neanche quella volta lo fa. Non è un caso che il racconto si concluda su di una metonimia della morte, precisamente su ciò che si può vedere della morte, ciò che è pubblico ed è elaborato della morte (un bassorilievo artistico), e che tale metonimia sia l’oggetto di un’attrazione-repulsione da parte della donna. In questo finale ogni diverso elemento si conferma e si richiama reciprocamente: come desidera visitare il bassorilievo ma alla fine, ancora una volta, non lo fa, così il movimento finale della donna attorno al padre ha il verso simmetricamente opposto, come una fuga tentata ma ancora una volta revocata. Non torna subito dal padre in ospedale, indugia. Come se fosse legata a lui da un elastico, va al bar a bere un caffè, e solo dopo fa ritorno.

Non sappiamo se il padre sia sopravvissuto all’operazione. Da una parola seminata in precedenza sappiamo che la sera precedente era stata “l’ultima sera”, per cui il lettore è incline a pensare che sia morto “sotto i ferri”. Alla fine, però, proprio in questo elastico finale, con il ritorno in ospedale dal padre, riconosciamo la struttura della trama. Quella della donna attorno al padre è stata l’orbita di un pianeta, fatta di repulsione e attrazione, meccanica, che meccanicamente va esaurendosi. Anche le orbite che dalla donna dipendono (Judith e Nichola) sono meccaniche e fredde, ed hanno un loro decorso. Si esauriscono. Questo è dato dal titolo e dal riferimento alle lune di Giove, ed all’accostamento dell’idea di rotazione, data dall’inserimento in un’orbita, dovuta all’equilibrio tra la forza di attrazione e quella di repulsione. Proprio così vengono narrati i personaggi ed i loro movimenti reciproci: come corpi celesti in attrazione e repulsione, determinati nelle loro traiettorie di vita da campi gravitazionali mai fissati per sempre ma in perenne evoluzione.

*

Occorre però leggere il riferimento astronomico anche oltre questa suggestione. Le prime lune di Giove furono scoperte da Galileo nel 1610: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Il dato importante di quella scoperta fu che così Galileo trovava conferma sperimentale alla legge di gravitazione universale, condannando qualunque teoria a proposito di un universo geocentrico. Le lune di Giove furono infatti i primi corpi celesti individuati che non ruotassero né attorno alla Terra né attorno al Sole. Se esistevano, la Terra non era più, come nella cultura scientifica fino a quel momento, il centro gravitazionale dell’universo. L’universo non ruota attorno all’uomo, non è fatto in funzione sua; non v’è anzi alcun centro gravitazionale, ma ogni corpo celeste lo è per altri ed a sua volta gravita attorno ad altri corpi con massa maggiore della propria, in una universale, meccanica relatività.

E’ anche la scoperta della donna, e le sue tappe sono quelle del racconto. Una legge di gravitazione universale, meccanica ed ineluttabile, funziona anche per gli esseri umani. La donna narrante gravita attorno al padre, su di un’orbita stabilita dal rapporto tra repulsione ed attrazione che affiora qua e là nel racconto, e che è fondata sul rapporto padre-figlia radicato nella fase di totale dipendenza (il periodo “nebuloso” per il padre e nitidissimo per la figlia). Allo stesso tempo attorno a sé fa ruotare le due figlie, con orbite diverse, più stretta per Judith e larga per Nichola. L’allargarsi specie della seconda di queste orbite, che ormai è sostanzialmente una fuga, la turba proprio per la naturalezza, l’ineluttabilità. Sono però le orbite attivate dagli altri, nelle quali lei non ha spazio, a sorprenderla di più con la loro esistenza: quella del ragazzo Don per Judith, soprattutto.

Sono momenti di disincanto. La donna lo manifesta all’inizio con il pudore verso il “bip-bip” dell’elettrocardiogramma del padre, così, come, alla fine, il suo essere in mutande “l’ultima sera”, ormai staccato dagli apparecchi. Aveva poi provato fastidio nel notare il gesto affettuoso di intesa tra la figlia e il fidanzato, così come non aveva apprezzato l’artificiosità sacralizzante degli ideatori dello spettacolo al planetario. Insomma: la meccanicità della gravitazione relazionale è per la donna una verità da nascondere, inappropriata, come una miseria conturbante, per quanto sconsolatamente vera.

Manca un centro gravitazionale saldo e comune per la nostra vita. Questa comincia attorno all’orbita dominante dei genitori, poi noi stessi diventiamo il centro di attrazione per altre orbite, e queste stesse poi si esauriscono attivando altre orbite a loro volta. L’unico dato stabile è che siamo soli. Non abbiamo una direzione, un senso di caduta. La religiosità, il senso di un mistero solenne con cui talvolta si tenta di dissimulare questa verità – come nel planetario, ma anche nella mitologia associata ai nomi dei satelliti di Giove, ed a Giove medesimo, immagine comunque del re degli dei, di Dio -  è una illusione fuori luogo. Ad essere regolati da ineluttabili leggi fisico-meccaniche non sono soltanto gli aspetti biologici della nostra esistenza, quanto anche quelli relazionali ed emotivi. L’amore, l’affetto filiale o materno, non costituiscono un’eccezione, tantomeno un mezzo per contrastare o bilanciare quell’ineluttabilità.

La sensazione finale è quella di una aridità di fondo, di uno spegnersi delle esperienze senza l’accompagnamento di un rimando esplicativo. Proprio come si spegne l’orbita dominante per la donna narrante, quella con il padre: spegnimento nemmeno narrato, ma lasciato solo intuire.

*

Nei racconti della Munro la connotazione morale dei personaggi gioca un ruolo importante nel generale l’effetto di realismo: mai del tutto innocenti, spesso complici di fatti riprovevoli ma che avvengono per meccanica causalità. Le stesse scelte morali sono ininfluenti a cambiare il loro destino, appaiono come semplici quinte di teatro dietro lo svolgersi indipendente della storia. I personaggi sono in balìa del caso, che destina vita e morte a ciascuno. Sono le loro mosse a vestire di senso, di pensieri, di emozioni, quella casualità senza volto. Si consideri ad esempio il finale di un altro racconto della Munro presente nella stessa raccolta de “Le lune di Giove”, “Festa di fine estate”. E’ la semplice storia di una serata passata da una famiglia in visita ad un’altra, e delle migliaia di parole che vengono spese sugli argomenti più disparati, mentre si chiariscono storie e vicende. In chiusura del lungo racconto, l’auto di due ragazzi – uno è addormentato – che hanno scordato di accendere i fari, attraversa la strada ad alta velocità, tagliando la traiettoria di una seconda auto, miracolosamente senza sfiorarla. Sulla seconda auto v’è la famiglia dei protagonisti di ritorno dalla festa, che restano incolumi, ma non sono né grati né atterriti, ma solo un po’ straniti, e che presto archiviano l’esperienza, perché in fondo non è successo nulla. In realtà tutta la ricchezza delle loro vite, illustrate per tutto lo spazio del racconto, è stata seriamente messa in pericolo, e si è salvata per una questione di pochi centimetri, o di pochi secondi. Sono dei miracolati, ma non se ne rendono conto, e così è la vita: una straordinaria ricchezza di relazioni, parole, pensieri ed emozioni messa in mano alla miseria ottusa di quantità misurabili, di centimetri o di secondi. In un altro racconto, “L’incidente”, la dinamica è inversa ma convergente. La morte accidentale di un ragazzino cambia radicalmente le vite di tutti ed in particolare della protagonista Frances, amante del padre del povero ragazzo. In realtà – è questa la considerazione finale di Frances – l’incidente ha solo provocato come un’ansa nelle loro traiettorie di vita; ansa ormai pienamente riassorbita; le loro vite sono ormai come sarebbero state anche senza la morte del ragazzo. “L’incidente” che sembrava aver cambiato le vite di tutti, in realtà, complice il tempo, non le aveva cambiate per nulla.

I personaggi della Munro hanno talvolta squarci di rivelazione a proposito del senso di tutto o dell’esistenza di un destino. Confessano l’esistenza di un desiderio profondo, di un’aspirazione alla felicità od alla pienezza della che tutti accomuna, ma che dorme sotto le pieghe del quotidiano, inespressa. Scoprono però presto che ciò che è successo davvero – e ciò che rimane – non è la manifestazione della verità, ma la loro sensazione di essere passati vicini alla manifestazione della verità. Il contenuto della loro rivelazione infatti viene per lo più confuso, banalizzato, reso irrilevante dal tempo, dalla memoria, o addirittura cancellato (come in “Segreti svelati”), e a restare sono solo, da un lato, l’impressione di avvenuta rivelazione, ormai però non più spendibile, e dall’altro il desiderio che quella rivelazione aveva “svelato”, che resta non appagato.

Pare esserci, comunque, nella Munro, una deroga all’ineluttabilità di questa scena. In alcuni racconti come “La vergine albanese” (nella raccolta “Segreti svelati”, Einaudi 1994-2000), la possibilità di decidere il proprio destino e di sfuggire alla solitudine sta nell’uscita violenta, con una vera e propria fuga, dello schema dei legami famigliari, che significano anche circuiti di regole, credenze (anche religiose), ambienti sociali. E’ una scelta dolorosa e dal prezzo elevato per i personaggi che la compiono, ma permette loro una vita – per quanto scarna – libera. La loro volontaria solitudine non fa che confermare l’azione insieme violenta, illusoria e precaria delle relazioni umane nel loro complesso, ma insieme le relativizza, staccandole dall’uomo considerato in sé. L’uomo non consiste nelle sue relazioni, insomma: al di fuori di esse, ovvero al di fuori della legge di gravitazione universale illustrata magistralmente ne “Le lune di Giove”, l’uomo continua ad esistere, per quanto solo, e con il suo desiderio profondo che non cessa di costituire un enigma.