Pina Piccolo: la poesia apre orizzonti differenti

Pinamolinedughero

Brevi cenni biografici.
Nata in California da genitori italiani, immigrati calabresi, cresciuta dai 6 ai 15 in Italia, tra Genova e Calabria, ritornata negli stati Uniti a 16 anni ci ho vissuto per oltre 30 anni, ritornando frequentemente in Italia e rimanendo comunque molto legata alla cultura e politica italiane.  Mi sono formata come italianista all’Università di California a Berkeley, con una tesi di dottorato sul teatro di Dario Fo (esplorazione del grottesco utilizzando Bachtin). Negli ultimi 20 anni faccio principalmente il lavoro di traduttrice.

Quando e come ti sei avvicinata alla poesia?
Ho sentito l’esigenza di scrivere da quando ero bambina; lo attribuisco alla mai situazione di estraneità a tutti i contesti in cui ho vissuto, che poi si sfogava in questa vena di riflessione poetica.  Ho passato dei periodi della mia vita in cui ho scritto molto e poi anni in cui ho scritto pochissimo. Attualmente sono in fase “Sì”.

Eventuali attività poetiche, collaborazioni (riviste, collettivi, ecc.) e pubblicazioni.
In Italia pubblico regolarmente in Sagarana, El Ghibli, ALMA blog e GLOB011, qualche volta in Versante Ripido. Poco su cartaceo, negli Stati Uniti in “Poetry USA” negli anni 90, “The Palestine Chronicle” negli ultimi anni in Italia in “Legendaria”, “100 mila poeti per il cambiamento Bologna – Promo movimento”(qudulibri) e “With Our Eyes Wide Open – Poems of  the New American Century” (West End Press). Ho pubblicato nelle antologie Rondini e ronde, Cuore di PredaSotto il cielo di Lampedusa – Annegati da respingimento.

Cos’è la poesia per te?
È un magnifico slittamento della parola che apre orizzonti differenti, ti distoglie dal quotidiano per portarti in territori in cui spaziare con la mente.

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Immagine pina

Nel duecento dopo Darwin

quando gli angeli del caos
inseminati nello sfacelo del soldo
s’alleano con gli atomi di carbonio ribelli
e il DNA antico in preda alla follia
piomba nel tranello dei finti estrogeni
dimentico dello spartito
sinfonico del corpo
e cullato nell’oblio
si riproduce a iosa
e la fame divora
i muscoli del bimbo
mentre dalla corda
di Monsanto
pende il corpo del padre
contadino
e la traiettoria del proiettile
denso di metalli esplosivi ed inerti
incontra il danno collaterale
a migliaia
ed esterrefatta
in esso s’annida e scoppia
e ride la iena
dell’esperimento
e a milioni languiscono
nelle strade
teste di belle
addormentate per sempre
affiorano dalle macerie
invece dei crochi gialli
di primavere forieri

Quando gli angeli del caos
sguainando spade di fuoco
ardono la finta tranquillità
della vita da schermo
e s’affievolisce il tepore
delle tane
e scorre il sangue
e i sangui si mischiano
mentre i cuccioli d’uomo
disegnando teschi
inneggiano alla morte
talvolta appiccando fuoco
a indiani dormienti
nei depositi fatiscenti
delle nostre magnifiche sorti e progressive
dal calderone del pianeta gelido e infiammato
per sessant’anni tenuta
alla catena
s’innesca la crisi
e nel suo canto di sirena tutti ci avvolge

***

Interregno

Le mura di Gerico
non crollarono al richiamo
del corno d’ariete
Nel vuoto arcano
dell’osso
vi fu un rifugiarsi
leggero di piume
di angeli spelacchiati
In fuga dal turbinio
dell’umano interregno
quell’interstizio infame
evocato dal cervello
del sardo rosso
a lungo imprigionato
tra le mura
Scomoda figura

“La crisi consiste precisamente nel fatto
che il vecchio sta morendo ed il nuovo non può ancora nascere;
in questo interregno appaiono una gran quantità di sintomi morbosi”

Questa la canzone che gracchiava
la gazza, poco ladra molto regaliera,
spargendo verità per l’aire
nel giardino del manicomio
tra la polvere delle fondamenta
abbattute dalla speculazione edilizia
“Ologramma! Ologramma”!
Diceva del programma
che si discuteva al palazzo
“Ceppi e contagi”
Non cani randagi
Né nutrie né ratti
ma MISFATTI, MISFATTI!
Nelle vostre AUUUUSL
aziende unità sanitarie locali

Sindrome morbosa
della rosa della rosa della rosa
coltivata nella Rift Valley del Kenya
Mani nere l’han curata, accarezzata
poi strappata spedita nella stiva se n’è volata
poi è atterrata, per un’ora immagazzinata e poi
per le strade di Palermo di Bologna di Torino
un bengalese poco più che bambino
me l’ha offerta a mezzo euro
perché non era più fresca di giornata
SALDI, SALDI, SALDI
teniamoci saldi
nell’interregno
tra le sindromi morbose
sindoni irradiate
antropogenici cambiamenti
antropologici mutamenti
e ammutinamenti
costituzionali scrostamenti
e crollo di nazioni
Negli interstizi
vaga la voce
fluisce la nota
che la bussola resetta
E come arca
spera e aspetta

aprile 2014

***

Le prime avvisaglie del diluvio

non furono che gocce lucenti come perle
che si abbattevano innocue su fili d’erba assetati
che bevvero e bevvero fino a scoppiare
La terra screpolata e gonfia
non ce la faceva a contenere
quell’abbondanza improvvisa
e benedetta

Neppure gli uccelli
sapevano più dove ripararsi
pur rallegrandosi al bengodi
di vermi che impantanati
dalla terra si sporgevano
facendosi beccare stupiti
dall’aria che ora gocciolava
stille appuntite come coltelli

Se ne accorse perfino la cicala
che qualcosa non andava
Dopo lo sguarciagolarsi alla calura
nel DNA serbava la memoria
del previsto calo graduale
e poi l’addormentarsi dolce senza risveglio
ora invece nell’arca di un guscio
gli schizzi
le ammorbavano il sogno

Non poté non notarlo
il calabrone con un ronzare
ora più sordo e più succoso
grondante dalle ali
E perfino la pulce faceva fatica
a restare attaccata al manto

E gioirono i venditori di ombrelli bengalesi
che nelle stazioni si ritrovavano
le caviglie stanche dal tanto camminare
ristorate come a un tempo
nelle risaie della loro terra
ora con l’unguento del disfacimento
di un’epoca e di una specie dedita
al comando.

12/12/2012

***

Per Anas Qandeel che non potrà postare il suo dolore in Facebook

Non è stata La Scogliera Solida ad ucciderti
crollandoti sulla casa,
Anas Qandeel, un’ora dopo aver postato
il tuo astio per l’impossibilità di dormire,
né è responsabile Il Margine Protettivo
con la sua affilata precisione chirurgica
né era stata ancora approvata
la prassi di mandare un sms
o l’avviso di bombardamento col colpetto al tetto

Allunga lo sguardo, ragazzo impaziente,
oltre il Piombo Fuso
oltre la Società dello Spettacolo
dalle guance di pesca
che guarda trangugiando pop corn dalla collina di Sderot
oltre i dolenti aranceti
e i tronchi d’ulivo contorti
in forma di un certo
struggimento di cuore
oltre il serpeggiante Muro
che emette quella certa marcetta funebre
che ti ritornella nel cervello
come il ronzio affievolito
di colonie collassate
mentre intravedi una testa di bambola
emergere dalle macerie di cemento
con lo sguardo vitreo e inebetito
dalle azioni umane
occhi che nemmeno per sogno
desidererebbero mai
nemmeno per gioco
farne parte

Sono state le lacrime del Buraq
mio caro ragazzino
nel loro splendore ologrammico
a colpire la tua casa, Anas,
col loro fascio di puro laser
ad incantare i giovani col loro canto
per sempre,
ninna nanna che culla il sonno di belli e belle
che come caprifoglio aspettano
il bacio del colibrì
schiusi al cambiamento.

15 luglio 2014

***

Governo tombarolo

Cercavo un appellativo o una metafora che calzasse l’iniquo operato del governo delle larghe intese in tutto l’iter degli annegamenti al largo di Lampedusa dal 3 ottobre fino alla celebrazione farsa dei funerali di Stato in absentia dei corpi degli oltre 300 annegati da respingimento (ossia giovani per lo più provenienti dal Corno d’Africa annegati a causa di leggi inique approvate da entrambe le compagini governative e che sono state oggetto di oltre 100 richiami per violazioni dei diritti umani da parte dei massimi organismi internazionali per i diritti umani). Mi sono venute in mente locuzioni bibliche del tipo “sepolcri imbiancati” per denunciarne l’ipocrisia ma alla fine, sul scia dell’intramontabile espressione “governo ladro” ho pensato di coniare la neo-locuzione “governo tombarolo”. Per tombarolo, nel significato classico del termine, si intende un violatore di tombe, ladruncolo alla ricerca di tesori o di modesti averi che al malcapitato defunto i familiari avevano fatto indossare o messi al loro fianco per accompagnarli nel viaggio dell’aldilà. L’attività di addobbare la salma si può considerare un’attività consolatoria per chi resta nel senso che nel rito si riafferma una certa “normalità” dello status del defunto, che continua a condividere interessi anche estetici con chi continua invece a vivere. L’attività del tombarolo invece consiste nella cinica, egoista raccolta dei frutti del rito.
Domani ad Agrigento, dopo vari tentennamenti, il governo italiano, in tutte le sue compagini e colori di pelle, si presterà a un’ulteriore operazione di spogliazione dei morti, cioè cercheranno di spogliare nuovamente il corpo in absentia di oltre 300 giovani eritrei, somali e altri provenienti dal bacino mediterraneo di qualsiasi gioiello potessero ancora avere addosso. Nelle varie piazze di Italia nelle scorse settimane, si sono sentiti spesso i rappresentanti istituzionali locali rammaricarsi per il “tragico naufragio”, versare lacrime, forse anche sentite, per le vite spezzate. Ma come dice una canzone del cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo “Unnavi curpi u mari” (cioè il mare non ha colpe) se la barca in pericolo non è stata soccorsa da ben tre pescherecci per paura di ritorsioni da parte del sistema penale italiano. Non sono le forze della natura a respingere bensì precise forze politiche che hanno codificato sistemi iniqui per impedire la libera circolazione anche di persone in pericolo di vita, mentre si sforzano in ogni modo di fare leggi che consentano la libera circolazione di merci e capitali (questi ultimi senza controllo alcuno).
Nei media a grande diffusione si sono spese migliaia di parole e di righe di scrittura per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord –est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto eppure a quasi a nessun giornalista viene la tentazione di fare un collegamento tra le condizioni politico-sociali economiche di quel paese e l’arrivo di tanti giovani in fuga. Non si è trovata traccia nella stampa italiana di un giornalismo d’indagine che si prenda la briga di investigare le committenze del governo eritreo per quanto riguarda industrie tessili e molti altri prodotti di imprenditori italiani. Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti ed ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’Italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico. Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Infatti nella fretta e furia del governo italiano di far sparire i corpi un gran numero di essi non sa neppure dove sia ubicata la tomba del proprio congiunto. E tutto questo per non parlare della sorte toccata ai sopravvissuti a cui sono state prese le impronte e che sono stati prontamente accusati del reato di clandestinità. Quindi paradossalmente per i morti si è prospettata la possibilità di garantire la cittadinanza mentre per i vivi si è proceduto a dare ben altra ospitalità nei famigerati centri di identificazione di espulsione.
Si possono in un certo senso anche scusare i sindaci, gli assessori, rappresentanti dell’italiano medio al cui “ruolo” (per usare una parola di cui ci si riempie molto la bocca in Italia) non compete la conoscenza approfondita di politica estera, ma ai massimi rappresentanti del governo italiano questo compete e come. Eppure, in questo strano rito funebre domani, dove saranno assenti i corpi degli annegati da respingimento, domani accanto alle massime rappresentanze del governo italiano siederanno non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. In un discorso classico delle migrazioni queste “istituzioni” rappresenterebbero le forze di “push” e “pull” (cioè le forze che “spingono” a lasciare un paese e le forze che “attraggono” verso un altro paese) solo che nel caso, dell’Italia e della sua ex colonia Eritrea perfino queste incombenze sono svolte con una grande doppiezza per cui il paese che teoricamente dovrebbe “attirare” è quello che in realtà respinge (e adesso si munisce perfino di droni per farlo con maggiore efficienza) e il paese che spinge è quello che attraverso tutta una serie di sotterfugi ci guadagna dall’esodo di massa dei suoi giovani “attirando” dentro le sue casse parte dei loro magri guadagni(le ambasciate eritree dotate in tutto il mondo di una fittissima rete di informatori esigono una tassa mensile del 2 per cento sugli introiti dai loro connazionali anche se sono fuggiti all’estero come rifugiati politici).
Quindi domani i tombaroli nostrani e quelli del regime di Afewerki pure in assenza delle salme, dopo aver creato le condizioni che hanno portato alla morte di oltre 300 persone che cercavano la vita, procederanno con le belle parole a spogliare la parte più fulgida della loro impresa. Cioè, le “istituzioni” ben lontano dal prodigarsi in un atto di cambiamento, cercheranno con una narrazione pietistica di trafugare la narrazione di fiducia nel futuro, di progetto di realizzare le proprie aspirazioni che era insita nella fuga delle persone annegate. Il loro corpo in fuga da e in arrivo a rappresentava la possibilità di una diversa narrazione, troncata appunto non dalla natura ma dalle leggi inique degli esseri umani. La maggior parte di loro, attraverso sacrifici di intere famiglie, era alla ricerca di un posto in cui la vita non fosse compressa dai voleri e dagli interessi di un regime (un desiderio di cambiamento di condiviso da milioni di giovani in tutto il Nord Africa e Medio Oriente , appunto quelli che in altre nazioni si trovano protagonisti di rivolte e rivoluzioni). Domani credo che il miglior tributo che possiamo dare alle loro speranze nel futuro è di spegnere il canale sulla dissacrazioni dei tombaroli governativi, di unirci ai fratelli e alle sorelle eritrei che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione a Montecitorio per far rivivere la narrazione alternativa. Ed impegnarci perché questa storia non venga dimenticata appena spente le luci dei riflettori, non solo perché quella storia merita di vivere ma anche perché non è poi una storia tanto diversa dalla nostra, è la ricerca di una diversa narrazione di quelle che possono essere le nostre vite, il nostro presente e il nostro futuro.