Giulio Pisani: la poesia, uno slancio di gioia o una sofferenza, un’indignazione, un ricordo, un’emozione

- Giulio-Enrico Pisani

GEMMA FRANCONE E FRANCO BLANDINO (a cura)

Nato il 12.11.1943 a Roma, Giulio-Enrico Pisani emigra nel 1951 in Svizzera, poi in Belgio ed in Germania. Si stabilisce nel 1964 in Lussemburgo. Autore di teatro nell’adolescenza, ritorna tardi alla letteratura. Nel 1994 Op der Lay pubblica il suo primo romanzo. Seguono diversi romanzi e raccolte di liriche, un saggio politico, uno biografico, un saggio epistolare collettivo ed un saggio antologico poetico con lo scrittore Jalel El Gharbi. Segnalato al Concorso Letterario Nazionale nel 1998 e nel 2002, ottiene nel 2003 e nel 2005 il Premio speciale H.-B.-Schiff. Tra il 1990 ed il 2010 appaiono oltre 700 sue opere, tra novelle, articoli, liriche, e corsivi, sulla stampa e in antologie o opere collettive (Quaderni lussemburghesi, Éditions Phi, Op der Lay, Conte Saarbrücken, J. Ouaknine Paris et APA-Bel Bruxelles).

Tanto le sue origini mediterranee che il suo amore per la giustizia lo spingono in seguito a scrivere (in mancanza di poter realmente operare) in favore di un riavvicinamento, anzi di una simbiosi tra le culture, più frutto dell’amore, del rispetto e della stima per l’altro che del concetto degradato e politicamente corretto della tolleranza. Il saggio poetico epistolare Siamo tutti migranti, scritto insieme a quattro amici dell’area mediterranea, ne è stato il primo frutto. Ma Pisani non si fa nessuna illusione sulle possibilità dei suoi scritti o di quelli dei suoi compagni di impegno. Così, in virtù di una filosofia che oscilla ormai – tempus irreparabile fugit – tra stoicismo ed epicureismo, vede i suoi progetti riassumersi, con la pubblicazione della sua ultima opera poetica insieme al professore e poeta tunisino Jalel El Gharbi nel 2012, nel famoso carpe diem ed in una maggiore attenzione e disponibilità verso la famiglia.

«La mia attività letteraria principale consiste in romanzi, saggi  e libero giornalismo (storie, racconti, ma soprattutto critica letteraria, artistica e politica). Le mie prime poesie  risalgono alla mia infanzia, ma non ne ho più traccia. Poi, di volta in volta, uno slancio di gioia o un momento di prostrazione, una sofferenza, una delusione, un’indignazione, un ricordo, un’emozione, possono sempre diventare poesia. A tutt’oggi sono state pubblicate nel dicembre 1996: Amori di una sera di fine settembre, 102 p. raccolta, Edit. Schortgen Galerie, febbraio 1999: Amore humour, fantasmi & (ri)evocazioni, 98 p. raccolta, Edit. Stan tepede, novembre 2002: Amour, humour, fantasmes & (r)appels, riedizione rivista e corretta. Edit. Stan tepede, dicembre 2002: “Talebani” (menzione al Concorso Letter. Nazionale) nella raccolta A 7 voci, Edit. Phi (3° premio al Concorso Letterario Nazionale), marzo 2008: 1941-2007 : 66 anni di resistenza, Quaderni di Poesia 13, Edit. Joseph Ouaknine, novembre 2012 : Des passantes et des passants (passanti), Desiderare, essere desiderato(a). Saggio poetico insieme a  Jalel El Gharbi, illustrato da Carole Melmoux, 200 p, Edit. Op der Lay.

La mia prossima raccolta La notte è un altro giorno? esce in questo mese (ottobre 2014) nelle Edizioni Op der Lay, che hanno già pubblicato due miei romanzi, Der Flug de Bussards (Il Volo delle Poiane)  e Portes d’Arrêt (Porte di Arresto)».
Estratti da AMORI DI UNA SERA DI FINE SETTEMBRE (raccolta, Editore Schortgen, Lussemburgo 1996)

PASSANDO PER PARIGI

Dimmi una parola, bella sconosciuta,
non distogliere gli occhi;
non devi guardar male, vedi,
il sorriso di un uomo felice.

Perché per esserlo deve amare
e amarti come tu vuoi,
teneramente o con passione,
per nulla affatto o sotto la tua finestra.

Amichevole o romantica,
la mia presenza accanto a te
è il calore di un pic nic,
la radura in fondo al bosco.

E’ sorridere faccia a faccia,
un caffè sui boulevards,
sono gli orologi che vengono dimenticati,
sono le luci, ché si fa tardi.

E’ il « Oh, mon Dieu ! » sgomento,
davanti a questo tempo perso
sulla terrazza di un caffè
con me, questo sconosciuto.

Sono anche le confidenze
fatte ad un amico che non si rischia
di rivedere in questa esistenza,
perché domani non sarà più qui.

Perché domani sarà partito,
portandosi via tutti i segreti
mormorati tra le lenzuola
o davanti ad un caffelatte.

Oh incontri d’un giorno, effimere d’amore!
Chi sa meglio di loro come amare senza problemi?
Delle passioni divoranti non restano che parole
e parole ancora per gli amori a pagamento.

Ma il flirt suggerito, gratuita complicità,
il sorridere di sfuggita, che spoglia ma è pudico,
appoggiato alle Tuileries e volato via a La Défense,
è un bacio eterno dal magnifico ricordo.

***

SORRIDERE D’AMORE

Non ero nel bisogno,
non avevo chiesto nulla,
tuttavia tu eri già lontana
quando avrei voluto ringraziarti

Mi si disse soltanto che una buona signora
aveva già pagato il mio debito.
Ignoro, senza farne un dramma,
perché lo abbia fatto, questa sconosciuta.

Perché abbia pagato lei il mio caffè
senza un cenno della testa, del dito,
permettendomi di rifiutare,
o di invitarla, come si deve?

Templi, cappelle, cattedrali,
non è al riparo delle vostre vetrate
né in virtù delle vostre prediche
che si son fatti i più bei regali.

L’amore si trova là dove zampilla
- mica dove vorreste trovarlo –
all’angolo di una strada, d’un bar, di un letto,
dovunque passa il sorriso d’amore.

***

LA RACCHETTA

Amico lontano, che sei passato
un tempo, molto tempo fa,
tu attraversi ancora, remota presenza,
la mia vita. Perché?

Vicino al mio letto di dolore
Tu apparisti un giorno, così.
Fu il richiamo della mia infanzia?
Mi regalasti una racchetta nuova.

Per tanto tempo l’ho conservata,
dev’essere da qualche parte,
in qualche posto del solaio,
pegno d’amicizia, pegno d’amore.

I giorni e gli anni sono fuggiti,
non torneranno mai,
a meno che un giorno in paradiso
chi c’era prima, lo sappiamo,

io ritrovi o non ritrovi,
poco importa, conservato nel mio cuore
di bambino che non dimenticherà mai
questa piccola cosa lanciata come un bacio,

il regalo di questo sconosciuto
passato un giorno all’ospedale,
ripartito come è venuto,
senza che io abbia potuto ringraziarlo.

***

SORELLA SCONOSCIUTA

Tu passante, il cui cammino,
giorno dopo giorno sempre lo stesso,
attraversa la mia strada, certamente, invano,
dopo trent’anni, sconosciuta, ti amo.

Del tuo sorriso – è tutto ciò che ho –
amo teneramente le carezze distanti.
Sei come una sorella, ma un giorno, chissà,
nell’aldilà o in paradiso
l’amore che non abbiamo fatto,
vestito d’incesto, ci sarà permesso.

***

CARNEVALE

Amo l’esuberanza delle tue pazze farandole.
Amo le tue mulatte che danzano seminude.
Amo i tuoi colori vivi, le tue piume, le tue ragazze sfrenate.
Piango i morti che restano sul terreno, quando i canti si sono spenti.

Amo l’arcano delle tue maschere raffinate.
Adoro le tue donne che il loro mistero rende seducenti,
i tuoi riflessi sull’acqua, sui tuoi vestiti lustrati,
ma non la putredine che la laguna occulta. .

Amo la tua allegria di principessa del Reno.
Adoro le tue Mädel [1] che mi mostrano la lingua.
Amo i tuoi carri dorati, la tua birra e il tuo vino.
Ma non il tuo ridere grasso, né i tuoi sproloqui volgari..

Rio, Venezia, Colonia e voi tutti, altri luoghi,
dove folle orrende fatte di uomini, di donne che amo,
festeggiano i barbari riti obsoleti degli antichi dei,
al vostro stupro mescolo riso e bestemmie.

[1] (Le Ragazze, n.d.t.)

***

L’INFERMIERA

Vicinissimo a me, Colette, il tuo cuore,
i tuoi capezzoli contro il mio corpo,
le tue mani così dolci, le tue dita che mi sfiorano
nella loro lotta contro la morte!

Eppure, come una barca ubriaca…
di etere e di medicinali,
vivevo e mi vedevo vivere
il più sublime dei tormenti.

Tu eri amore, mia malattia,
eri la freschezza della rugiada.
Io ero la febbre, il pus;
tu ridevi per non piangere.

Quando nel mio letto zuppo di urina
rivoltavi il mio corpo senza forze
dimenticavo il mio male, e ti immaginavo
vezzosa, nuda, debole e vogliosa.

Quando con le ganasce delle tue forbici
mi toglievi dolorosamente
ciò che rimaneva dopo la sala operatoria,
era la tua bocca, la tua lingua, i tuoi denti

che io sentivo mordere la mia carne,
succhiare le mie piaghe, leccare la mia pelle,
ed anche se soffrivo l’inferno
tu mi lasciavi sempre troppo presto.

Quando con una smorfia, con un buffetto,
tu ripiegasti la mia verga eretta,
ridendo della mia espressione confusa,
minacciando di non prenderti più cura di me,

di mandarmi la capo-infermiera,
nei miei quindici anni credetti di morire,
perché non vidi il lampo troppo breve
della tua tenerezza: un piccolo sorriso.

Un piccolo sorriso di niente
che faceva di te a vent’anni una madre,
piccolo uomo, come ero pazzo, a fare
della tua sorgente d’amore un fiume!

Oggi due volte nonna,
ti ricordi del discolo
cui tu pulivi il didietro?
Sognava di essere il tuo amante.

***

Estratti da AMORE HUMOUR, FANTASMI & (RI)EVOCAZIONI, 98 p. raccolta, Edit. Stan tepede, 1999 + 2002

LA FANTESCA

Donna rustica dei monti Ernici,
donna graziosa di Ciociaria,
donna dai muscoli magnifici,
donna della mia terra natìa,

venuta a Roma dalla tua montagna
per servire i ricchi borghesi,
invece del paese di cuccagna
trovasti la guerra civile.

Dilaniata dal ciclone
di una guerra che pure la risparmiava
la città che ti diede il germoglio
di sconosciuto che tu portavi in grembo

non riconosceva più le sue genti
e come avessero contribuito a farla,
città ingrata colma di bambini
di cui aveva concimato la sua terra.

Poi, passata infine la guerra,
hai trovato un povero rifugio
nella pensione in cui sono nato,
arca in mezzo al diluvio,

tra le tragiche esistenze
di vecchi artisti e di poeti,
che con i miei parenti, rovinati,
non facevano spesso festa.

A tutti questi poveri meno-di-niente,
cui bisogna aggiungere
ebrei, partigiani, politici,
fascisti a loro volta braccati,

tu dispensavi i tuoi sorrisi
il tuo amore di donna di fatica,
dimentica dei tuoi sospiri
e della vita che portavi in te.

Poi, un giorno di cui non ho il ricordo
ci lasciasti senza un arrivederci,
e sparisti dalla mia vita,
ma non dal mio cuore, dalla mia memoria,

memoria di bimbo pazzo d’amore
appena svezzato dal seno di sua madre.
Non è normale, mi direte,
amare a quattro anni la carne delle donne.

Eppure è proprio così,
quindici anni prima
di saper fare l’amore provai
questa fame della donna, prime tenerezze.

Più di dieci lustri sono passati,
ma qualche volta sento ancora
la sua bocca contadina che sa amare,
il suo tocco sul mio piccolo corpo.

Certamente qualche bello spirito
getterà la croce sulla fantesca che
palpeggiava, senza malizia, perdiana!
del piccolo maschio la carne innocente.

(Traduzione di Gemma Francone e Franco Blandino)

***

AROMA DI ROMA

Profumo di erba secca
Olezzo dei rosmarini!
Beata, lupa la lecca,
Linfa dei dolenti pini.

La polve di pietre d’ieri,
Canto di fatti remoti,
Ti cela lungo i sentieri
Agl’irreverenti ignoti.

Dimmi Roma quant’é bella
Bianca quella gamba lesta
Cui tra malva e campanella
Gelso spilla sangue a festa?

Dolci rubini asciugati
Dal tuo verde tra i ferventi
“Toccami” di innamorati
Stesi lí a mercé dei venti…

Esposta inerme e nuda, lascivamente,
L’eterna bellezza senza paragone
Da due millenni, quasi eternamente
Si dona senza mai accettar padrone.

Pupilla della stelle, il mistero astrale
Al canto dell’usignuol si rifocilla
Dalla stridulazione delle cicale.
Mentre bacia sorgente che zampilla

Il satiro a piè di capra é ammutolito;
E come Fauno sui verdi prati anch’io
Godo misticamente dello sboccio il rito
Dove si apre, dolce, la dea al dio.

Proprio lì io premo dove poggio il viso,
Proprio lì dove si annega Amore mentre
Suona cristallino trai miei baci il riso
D’Amore a Venere cui infiora il ventre.

Pietosa Luna poi stende il suo mantello stellato sulla bella giacente, mentre il Tevere serpeggiante
Tra le sue membra illanguidite nebulizza miriadi di umidi baci sulla carne arroventata delle antiche pietre.
(versione in italiano scritta dall’autore)

Un articolo su Jalel El Gharbi si trova qui

Scrittori italiani in Lussemburgo

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