L’incredibile storia del profeta Mansur

Prima

Prima puntata - La ricerca del vecchio guaritore

FRANCESCO PICCO

Il ragazzo era a Solovetsk da un mese, ma ancora non si era abituato a quel clima. Soprattutto al vento. Quel vento ghiacciato nelle lunghe notti polari gli penetrava nelle costole.  Gli infilava nel cuore un bianco imperfetto rimpianto della sua terra lontana.

Del Piemonte gli mancavano le montagne. Quelle rocce bianche e viola sempre in procinto di crollare e tuttavia sempre ferme, rigide, sicure di sé. Un po’ come lui, forse.  Lontano da Torino – e dal Conte padre, e dal fratello Conte, e dai corridoi della Facoltà di Medicina a cui come cadetto era stato destinato – aveva rivalutato i privilegi della sua nobiltà. Essere medico voleva dire essere nobile, in quell’assurdo sterminato Paese dove era fuggito a cercare conoscenza dell’arte e fortuna. Nient’altro lo aveva spinto lassù: non debiti di gioco, non un omicidio, non una storia d’amore sgradita ai Conti genitori. Nulla di così romanzesco. Solo una prosaica voglia di vedere il mondo, la sua gente e soprattutto le sue malattie.

In Russia era arrivato quasi per caso, accompagnando un chirurgo ungherese incontrato a Vienna. Lui sì, fuggiva. Da qualcosa che il ragazzo non aveva capito finché non lo aveva sorpreso, un mattino, a dondolarsi pregando rivolto verso Gerusalemme. Andavano tutti verso la Russia, quelli come lui. Il ragazzo, che come lui non era, ci era andato per forza di inerzia, lasciandosi portare dai flutti della vita.

Onda su onda, il mare degli eventi lo aveva spinto sulle rive del Bianco. Lassù, a Solovetsk. Un posto terribile, come tutta la Russia del resto. Terribile eppure bellissimo, quando il sole sorgeva sulle cupole dorate del suo Cremlino polare e le acque che circondavano l’isola sembravano accendersi dall’interno. Il ragazzo si svegliava prestissimo per vedere le processioni dei monaci ortodossi nella neve, con i loro alti cappelli neri e le croci pesanti affardellate al collo. Li accompagnavano biondissimi chierici assonnati che negli intervalli fra le preghiere si azzuffavano per una moneta, un tozzo di pane, uno sguardo sbagliato. Poi si ricomponevano e ricominciavano a cantare lente litanie in slavo ecclesiastico. O svyšnijem mire, i spasjeniij duš našich, Gospodu pomolimsja…

Preghiamo il Signore. Le ultime due parole significavano questo. Ormai il ragazzo cominciava a parlare bene il russo e a capire quasi tutte le complesse volute musicali dello slavo ecclesiastico. E non si faceva più chiamare Vittorio, ma Viktor. L’altro nome, Amedeo, non gli era mai piaciuto. Perciò era stato ben lieto di abbandonarlo. In fondo non capiva perché la sua famiglia, che era di nobiltà più antica dei Savoia, dovesse scimmiottare i nomi dei regnanti. Viktor non suonava sabaudo. Qualcuno lo prendeva per finlandese. Ce n’erano molti lassù, tra Arcangelo e Solovetsk. Ma la loro lingua era impossibile da imparare e quando qualcuno gli si rivolgeva in finnico, Viktor si limitava a sorridere alzando le spalle. Solo dopo rispondeva in russo.

D’altra parte Viktor non era lì per imparare lingue. Aveva invece scoperto che in Russia c’erano moltissimi ottimi medici, capaci di insegnargli cose che all’Università di Torino non aveva potuto in alcun modo imparare. Molti di essi erano ebrei. Altri erano vecchi monaci ortodossi. Come quello che era venuto a cercare a Solovetsk, attirato dalla fama che l’uomo si era conquistato in tutto il nord della Russia e che era giunta fino a San Pietroburgo.

Il suo uomo, per la verità, non era facile da incontrare. Viktor sapeva che si trovava nel grande, magnifico complesso dei monasteri delle isole. Ma sapeva anche che il primate ortodosso della Città non aveva piacere che gli stranieri parlassero al medico. Forse Sua Beatitudine era infastidita dal fatto che il taumaturgo capace di attirare così tanto interesse non fosse un monaco della Santa Chiesa Ortodossa, bensì un eretico armeno-cattolico proveniente dal lontano Caucaso. Ma forse – così almeno sospettava Viktor – c’era anche qualcosa di più grave e di meno confessabile. Anche il Governatore, con cui aveva parlato della sua intenzione d’incontrare il vecchio guaritore, gli aveva esposto tutta la propria perplessità sul suo progetto. «Giovanotto – aveva sentenziato severo – voi rischiate di sprecare inutilmente il vostro tempo prezioso. Credete forse che la vostra giovinezza duri in eterno? Finirà molto prima di quanto pensiate. Pregate Dio che non finisca male…».

Un discorso che Viktor non aveva capito affatto, ma gli era sembrato intriso di una spiacevole, ingiustificata minaccia. In fondo quale pericolo poteva rappresentare un vecchio monaco armeno con il dono della medicina, per il governo della zarina di tutte le Russie, la donna più potente della Terra? Doveva esserci in ballo qualche questione più grande, tutta interna al mondo della medicina. In fondo, anche l’abilità dei medici ebrei – abilità grandissima e indiscussa da chiunque avesse un minimo di mentalità scientifica – era fortemente avversata dal mondo accademico, in Russia come nel Regno Sardo. Evidentemente anche il vecchio monaco armeno era oggetto degli stessi ingiusti ostracismi, forse perché armeno, forse perché cattolico.

Con questi dubbi e queste curiosità, Viktor aveva finalmente deciso di giocare d’astuzia. Aveva dato ordine al suo valletto Sergej di portargli abiti credibili da contadino e li aveva indossati. Con quelli addosso, accompagnato da Sergej che per una volta sembrava lui il padrone, si era incolonnato nell’aria gelida del mattino con altri poveri ammalati, storpi, ciechi, mendicanti di ogni sorta. Erano almeno cento quelli che, in fila davanti alla porta istoriata del convento armeno, chiedevano udienza al misterioso medico e taumaturgo. Di lui, mentre attendeva muovendo lenti passi verso l’ingresso dell’edificio, Viktor sentiva raccontare veri e propri miracoli. Ma i miracoli, pensava, non esistono. Esistono solo tecniche, in medicina, e l’abilità del medico sta tutta nel metodo per impararle. Lui il metodo lo possedeva. Non vedeva l’ora di poter entrare e di poter parlare, finalmente, con quel misterioso Maestro dell’arte della guarigione. Quante cose avrebbe potuto imparare da lui, quanto mestiere avrebbe infine potuto dolcemente rubargli…

(Continua)

Illustrazione di Franco Blandino