I Futuri Impossibili

la molla distruttrice (2006)

LORENZO BARBERIS.

I futuri impossibili

Appunti sulla fortuna letteraria della distopia

 

Come la protagonista di un feuilletton ottocentesco che si rispetti, anche Utopia ha una gemella malvagia: la Distopia.

 

Utopia è U-topos, “In nessun luogo”, ma anche Eu-topos, “Luogo ideale”. Distopia riprende questo secondo significato, rovesciandolo: luogo ideale, ma in negativo: descrizione di una società esemplarmente malvagia.

 

La prima distopia è forse contenuta nei “Viaggi di Gulliver” di Swift, che ci descrive nella città di Laputa (1726) un rovesciamento preciso dell’Utopia della Nuova Atlantide (1626) di Bacone, cent’anni prima.

 

La New Atlantis era una città ideale della tecnoscienza, proiezione mitica dell’Atlantide di Platone riletta alla luce della rivoluzione scientifica in atto nel Seicento, di cui Bacone era uno dei teorici. In Swift, la città dei filosofi diventava una città volante, Laputa appunto, in grado di librarsi in cielo grazie a una grande pietra magnetica centrale (per cui probabilmente, da lapis, Laputa).

 

I dotti di Swift non sono però saggi come nell’Utopia, da Platone in poi: ma sono al tempo stesso vanesii, vuoti (con la testa fra le nuvole, appunto) e gretti e meschini (per sedare le rivolte, si limitano a far planare la loro città volante sulle città ribelli, schiacciandole).

 

Swift mostra dunque una sfiducia nell’illuminata società guidata dai dotti, che nella nostra era post-atomica non ci sembra così peregrina.

 

Jeremy Bentham parla per la prima volta di Cacotopia come l’opposto dell’Utopia, termine a cui viene affiancato Distopia da Stuart Mill nel 1868. Nel 1872 Erewhon di Samuel Butler descrive una Utopia rovesciata satiricamente (Erewhon è appunto Nowhere al contrario, il rovesciamento di U-Topos) con molti spunti distopici geniali, tra cui soprattutto quello del rifiuto della tecnologia come pericolosa, perché potrebbe sviluppare macchine in grado di ribellarsi (un tema che sarà esplicitamente ripreso, più avanti, da Frank Herbert in “Dune”, dove parla di una “jihad butleriana”, una “guerra santa” avvenuta nel passato del suo mondo contro macchine ribelli).

 

Da allora, il termine ha una sua vitalità nel dibattito politico e nel romanzo filosofico, da cui si origina un fortunatissimo filone del genere fantascientifico.

 

Una parte di fantascienza è positivistica e tecnofila: i romanzi di Verne, volti a esaltare le magnifiche sorti e progressive dei razzi, dei sottomarini, delle esplorazioni spaziali (anche se quel capitano Nemo…); e così il padre della science fiction americana, Hugo Gernsback.

 

Ma il filone di maggior successo nel tempo è quello pessimistico. Tralasciamo il pessimismo “romantico”, da Frankenstein (1816) di Mary Shelley in poi, sempre presente, dove a essere malvagio è lo scienziato folle o la scienza in quanto tale; tesi in fondo assolutoria verso la società e l’uomo comune.

 

Più inquietanti invece le opere in cui si mostra una società possibile (e impossibile da vivere) in cui la tecnica è stata pervertita volutamente dalla classe dominante, col consenso di fatto degli altri abitanti.

 

Il capostipite è forse in questo caso “La Macchina del Tempo” (1897) di Wells, in cui il progredire del conflitto tra classe operaia ed élite borghese porterà, alla fine, nel futuro, allo sviluppo di due etnie distinte, i sotterranei Morloks e gli efebici Eloi, dove i primi mantengono i secondi solo per divorarli.

 

Quello di Wells è ancora un apologo paradossale, reminescente della Modesta Proposta (sempre del distopico Swift, tra l’altro).

 

Ma un’autrice come Thea Von Harbou e un regista come il marito Fritz Lang lo svilupperanno nel più credibile mondo di “Metropolis” (1926), primo film di fantascienza, che può essere vista come una fase intermedia tra il nostro mondo e quello wellsiano: gli operai vivono nel sottosuolo, con le macchine, e l’elite in superficie, sugli alti palazzi dei grattacieli, moderne ziggurat.

 

L’anno è il 2026, ci siamo quasi.

Appare evidente, su queste distopie, l’influsso delle teorie marxiste, che in fondo per prime avevano ritenuto possibile una previsione scientifica dello sviluppo della storia.

 

“Brave New World” (1932) di Aldous Huxley, porta alle estreme conseguenze la distopia capitalistica, con profezie che ci paiono più inquietanti man mano che l’analisi distopica si fa più raffinata. Siamo in un mondo “after Ford”, dove le croci sono state tagliate in T in onore del primo modello di automobile di massa, il modello T. Tutto segue in modo rigido l’alienante produzione fordiana a catena di montaggio, a partire dalla selezione eugenetica in vitro degli esseri umani e dall’educazione-addestramento di tipo pavloviano.

 

La distopia di Huxley parte ancora da una deformazione di un certo positivismo tecnocratico collegato al capitalismo americano.

 

Ma dopo la seconda guerra mondiale, l’attenzione si concentrerà soprattutto sul totalitarismo di tipo fascista e comunista, come nel geniale “1984” di Orwell, uscito appunto nel 1948 (ancora una volta, un “rovesciamento” distopico). In un mondo diviso tra dittature collettivistiche e totalitarie (socialistiche, ma il “culto della morte” attestato in Estasia appare invece più fascista) il controllo sociale dell’individuo è totale, tramite l’uso di una rete di telecamere capillare, il controllo e la manipolazione totale dell’informazione, l’invasiva e ipnotica propaganda video in favore di un leader, il Big Brother, probabilmente ormai inesistente, mitologico.

 

Se oggi l’esistenza globale di una dittatura staliniana o hitleriana appare più difficile, l’esistenza di un controllo sempre più capillare tramite la tecnologia e i suoi usi perversi sembra essersi inverato. Ma la cosa più inquietante è che il mondo di Orwell è ripreso con giocosa e ilare partecipazione come un modello divertente, nel successo universale che ha, almeno in occidente, il format televisivo inglese del “Grande Fratello”. Farsi osservare 24 ore su 24 dalle telecamere sembra essere la massima aspirazione possibile della classe medio-bassa, o almeno la TV ci dice chiaramente così, quindi dev’essere vero. La distopia che fagocita la sua rappresentazione: il massimo successo del bis-pensiero orwelliano?

 

Il fatto che anche una società liberal-democratica possa evolversi in distopia totalitaria tramite l’utilizzo deviato della tecnologia appare già nella “versione americana” di 1984: Fahrenheit 451 di Bradbury (1953, poi fortunato film di Truffaut nel 1966). In essa, la TV domina in modo ossessivo le case dei cittadini, mentre i libri vengono bruciati da un riadattato corpo dei pompieri. Anche qui, la distopia di Bradbury mostra una certa ingenuità: distruggere significa creare dei martiri, meglio un lento abbandono che un’iconoclastia. Anche se certe ossessioni tecnocratiche, nella scuola, per l’abbandono dei libri di carta in favore dei tablet (che si vorrebbero non affiancati, il che sarebbe ottimo, ma sostituiti ai libri) forse fanno pensare che Ray non avesse del tutto torto.

 

Dagli anni ‘60 in poi, la controcultura distopica sembra prevalere nel cinema più che nella letteratura: o perlomeno il cinema ha molto più impatto a diffonderne le idee. Curiosamente un antesignano è italiano, “La settima vittima” (1965) di Elio Petri, che traspone in film un racconto anni ‘50 di Sheckley, una società futura dove l’omicidio è legalizzato, in un complesso gioco rituale. Un concetto presente nel successivo e più fortunato “Westworld” (1973) di Michael Chrichton, in cui è descritto un parco divertimenti dove i partecipanti posso uccidere dei perfetti replicanti robotici. In “Rollerball” (1975) invece la violenza viene fruita tramite nuovi sport gladiatorii trasmessi in TV (adombrati già anche nel racconto di Sheckey, a fianco dell’omicidio sportivo).

 

Il tema dominante nella distopia più recente, quella post-industriale, appare dunque la catalizzazione della violenza per disperderla ed evitare che si ritorca contro il sistema (in 1984 essa era invece funzionalizzata contro un nemico nelle “settimane dell’odio). Un tema che permane nel cyberpunk degli anni ‘80, l’ultima grande corrente letteraria della scientifiction che si scioglierà nel 1992 davanti alla constatazione che, con l’avvento di internet, le sue profezie si erano realizzate, nel bene e nel male. Nel cyberpunk è infatti la rete informatica (nata nel 1958 come esperimento militare, nel 1974 come strumento civile) ad essere lo strumento del dominio e della lotta contro il dominio.

 

Al dominio tecnocratico si oppone il mito dell’hacker, il ribelle al sistema, per ragioni ideologiche o per puro nichilismo (punk, appunto), con declinazioni che vanno da una anarchia esistenzialistica del non-senso della battaglia contro il sistema cibernetico di controllo, ad un certo romanticismo presente, soprattutto, nella vulgata cinematografica (Matrix su tutti, nel 1999).

 

Ad ogni modo, come detto, queste profezie nel bene e nel male si sono realizzate. La rete, come già prima il potere mediatico televisivo, non sono certo più proiezioni future ma realtà. Utopia e Distopia dovranno trovare, e stanno trovando (anche se forse non ancora così condivisi nell’immaginario collettivo) nuove incarnazioni. Per sognare o ammonire sul mondo che verrà.

 

Lorenzo Barberis

 Immagine: Marco Roascio, “La molla distruttrice” (2006)