Il Cunto siciliano tra musicalità e parola

L'Orlando in Beirut

L’Orlando in Beirut

GIORGIA NICOSIA

Queste parole e il canto Alcmane
trovò, componendo in linguaggio
la voce delle pernici
Alcmane, fr.39 Page, 91 (Calame)

Il mondo sonoro degli uccelli e quello dei poeti sono allora congiunti?

M. Bettini[1] e molto prima di lui Plinio il Vecchio, Ateneo, e tra i moderni P.B. Shelley, R. Frost con molti altri, sostengono di sì. Ed anzi, nello stesso passo in cui riporta il frammento di Alcmane qui in epigrafe, Ateneo[2] fa affermare a Cameleonte Pontico: “L’invenzione della musica fu escogitata dagli antichi prendendo esempio dagli uccelli che cantano nei luoghi solitari.”

E d’altra parte è assolutamente conclamato il rapporto che fin dalle origini della letteratura occidentale ha combinato insieme poesia e musicalità. Questo non solo per il sostegno della memoria in performance che allora erano soprattutto legate all’auralità, se non ad una vera e propria oralità[3], ma anche, si direbbe anzi principalmente, per la facoltà evocatrice di immagini implicita nella parola[4] e nei suoni ad essa combinati.

Se ciò non bastasse, l’attenzione all’opportuna fusione di volontà comunicativa e ritmo è confermata, quantomeno per i poeti della Grecia antica, anche dal celebre passo della Poetica, in cui Aristotele parla della μέγεθος:

«Per quanto riguarda poi la grandiosità: da racconti brevi a da uno stile ridicolo – per il fatto che la trasformazione avvenne dal satiresco – più tardi divenne seria e anche il metro da tetrametro [trocaico] divenne giambo. Infatti dapprima adoperavano il tetrametro perché la composizione era satiresca e più ballabile; ma poi, sopravvenendo il parlato, la stessa natura trovò il metro a quello più adatto: il giambo infatti è più discorsivo e una prova di questo sta nel fatto che parlando noi pronunciamo, nella conversazione, più giambi, raramente esametri e interrompendo il ritmo discorsivo» [5].

Aristotele, Poetica, 1449 a, 19 sgg.

Nel passaggio dal dramma satiresco alla tragedia (lo Stagirita usa il termine μεταβαλεῖν, ovvero il termine specializzato nell’indicare un vero e proprio processo di trasformazione), fu quindi necessaria e naturale l’introduzione di un metro, il trimetro giambico, più vicino alle nuove esigenze di un genere teatrale che stava sempre più consolidando i suoi aspetti drammatici (nell’accezione etimologica del δράω) e dialettici.

Se da questi brevi cenni emerge la continua attenzione degli antichi per la metrica e la ricerca del ritmo più adatto e naturale ad ogni genere poetico[6], non possiamo asserire però che una tale attenzione si sia ugualmente conservata nel corso del tempo e in particolare del Novecento, salvo le rare eccezioni di autori come Pascoli e Quasimodo. Basti ad esempio ricordare la posizione in merito della poetica futurista o di autori come Montale, o di professionisti della parola recitata come Carmelo Bene.

Ma se si guarda alle tradizioni e alle culture popolari, se ne può rintracciare un’affascinante e coinvolgente sopravvivenza nel cosiddetto Cunto siciliano[7], che stando a studi in corso d’opera sarebbe erede del mondo greco.[8] Né d’altra parte può stupire la sopravvivenza, anche a distanza di un così lungo arco temporale, di ritmi, forme e dinamiche legate ad una tradizione prevalentemente orale, difficile forse da seguire nei suoi singoli sviluppi ma facile da intuire fertile di permanenze e applicazioni.

Secondo le ricerche di studiosi come Giuseppe Pitrè, Vincenzo Linares, Salomone Marino ed altri e secondo le più antiche attestazioni in nostro possesso, l’arte del cunto nasce e si sviluppa in Sicilia nel primo trentennio dell’Ottocento, per arrivare fino ai nostri giorni.

I cuntisti hanno radici nella passione popolare per le storie degli eroici paladini del ciclo carolingio, la stessa che, secondo la leggenda, ha contribuito alla nascita dell’ Opra, ovvero della cosiddetta arte dei pupi. Anzi, proprio dal Cunto l’Opra avrebbe ereditato i suoi soggetti e la tecnica del racconto a puntate che, lasciato in sospeso, induceva il pubblico a tornare.

Così come accadeva già in Grecia per l’epos omerico e per la tragedia, il popolo siciliano ha sempre di fatto individuato nelle gesta dei paladini di Francia un universo d’identità individuale e collettiva piuttosto che di mera evasione, e le leggende cavalleresche hanno svolto una funzione sostanzialmente sociale e lato sensu politica. Perpetuarne la memoria attraverso l’oralità ha perciò soprattutto sollecitato la riflessione sulla propria storia e sui propri valori. Non pare dubbio che il ciclo carolingio, vivo particolarmente in Sicilia attraverso l’arte del Cunto e poi del teatro dei pupi, costituisse un sapere condiviso: i paladini incarnavano speranze, lotte, vittorie e sconfitte dell’esistenza del popolo tutto e assai presto ne divennero il simbolo, universalmente riconosciuto.

Scrive il Di Palma: «Il cunto dunque è prima di tutto un elemento del vasto affresco della cultura popolare siciliana, e se costituisce anche una sopravvivenza del mondo medioevale non fa che arricchire lo spessore della tradizione, senza metterne in crisi l’integrazione al contesto culturale in cui ancora vive».

Il cuntista non va peraltro confuso con il cantastorie: quest’ultimo in genere narrava storie realmente accadute e appartenenti alla quotidianità e si serviva dell’ausilio di una chitarra e di un cartellone in cui erano indicati i vari quadri della vicenda, mentre, come sopra ribadito, il cuntista si dedicava alla Storia dei Reali di Francia e i suoi unici strumenti erano, e sono tuttora, una piccola pedana, una spada di legno e a volte una sedia.[9]

Nota a tal proposito Pitrè[10]:

«Chi si dà a questo mestiere vuole avere, oltre che amore sviscerato per la cavalleria, ritenitiva felicissima, facile e pronta parola, maniera particolare di porgere. L’uditorio, composto tutto di operai e mestieranti d’ogni genere, di pescatori, di contadini, ha odorato, e conosce a bella prima se chi conta sa o non sa, se piglia la storia pel suo verso, se parla bene o male, se prende le giuste e vere pose degli antichi contatori. Cammini quanto e come vuole il mondo, il racconto di Rinaldo dev’esser recitato sempre a un modo, con le medesime pause, con la medesima cantilena, con una declamazione spesso concitata, più spesso affannosa, intenzionalmente oratoria; talora lenta, alcuna volta mutata d’improvviso in discorso familiare e rapido».

Com’è facile notare, il Pitrè evidenzia le caratteristiche peculiari del cunto, che si basa principalmente su cambi di volume, tono e ritmo. Il cuntista alterna una narrazione pacata e vicina al parlato – variata dall’introduzione di dialoghi nei quali ciascun personaggio è spesso caratterizzato da un ritmo proprio – ad un ritmo che nel culmine dell’azione diventa sincopato e pare accelerare fino a non permettere al cuntista di respirare, ma che in realtà rallenta e spezza le parole a metà, attaccando la seconda metà di una parola alla prima della successiva, mentre il battito del piede sulla pedana rafforza tanto gli accenti quanto i colpi della spada che fende l’aria.

Ogni cuntista deve saper quindi cogliere la relazione tra le varie fasi narrative e il ritmo che meglio loro si addica, così da conferire solennità ai momenti di maggiore pathos, trasmettere la concitazione e la tensione delle battaglie, rallentare per preparare il pubblico ad un evento importante ecc…, in modo che, coinvolto dal sapiente uso della voce e delle sue combinate cadenze, l’uditorio partecipi sempre più avvinto, pur senza a volte distinguere le singole parole tra loro.

E come avveniva con la mescolanza dei metri e dei ritmi nella drammaturgia greca, anche il cunto si propone quale forma mista, dove il parlato si alterna ad una recitazione più sincopata e spezzata, scandita dal battito del piede e dal roteare della spada che sembrano richiamarsi alla partitura musicale e coreografica dei cori teatrali dell’Atene del V sec. a.C.

La continuità tra mondo greco e tradizione cuntista siciliana è stata dichiaratamente evidenziata dalle recenti Eumenidi[11] di Vincenzo Pirrotta[12], attore e regista palermitano, allievo di uno tra i maggiori cuntisti ancora in vita, Mimmo Cuticchio.

Nelle sue Eumenidi, Pirrotta inserisce infatti due cunti: uno in apertura e uno all’acmé del dramma. Il primo serve a introdurre l’antefatto e a recuperare quanto nel testo eschileo è affidato ad accenni mitografici e allusioni implicite: il sapere condiviso tra pubblico e tragediografo è così espresso mediante la consapevole ripresa della tecnica narrativa popolare siciliana. Il secondo invece è adottato per riportare al registro epico il giudizio sul matricidio di Oreste e per riferire in forma narrativa l’insediamento del tribunale, in modo da inscenare la dialettica della votazione come un’epica contesa. “L’esito della restituzione della votazione in forma di cunto è un’estetica tutta fisica dell’evento che l’attore passa per contagio al pubblico, e che trasfigura in vibrazione dei sensi e dei nervi il pathos tutto mentale e l’eccitazione lucidamente intellettuale che Eschilo provoca con la grandiosa teatralizzazione dell’atto inaugurale e costitutivo dell’Areopago.”[13]

Le Eumenidi pirrottiane inglobano così sia formule tipiche della tragedia antica che dell’epica.

L’autore alterna inoltre tre registri espressivi: italiano, siciliano e cunto. Al terso italiano parlato dagli dei si contrappone infatti un aspro dialetto alcamese dai suoni arcaici e potenti, impreziosito da assonanze arabe, parlato dai personaggi umani del dramma come la Pizia ed Oreste o dalle divinità più antiche quali le Eumenidi stesse.

Pirrotta ribadisce dunque non solo il legame che esiste tra tragedia greca e cunto siciliano, ma anche la vitalità e la potenza espressiva di forme che troppo spesso e facilmente vengono inquadrate come popolari e trascurabili e che, se ben conosciute e potenziate, possono invece dare nuova linfa e vigore ad un genere sempre vivo quale quello teatrale, costantemente in bilico tra alterità e passato.

La giovane autrice – classe 1996 – ha frequentato il liceo classico “M.Cutelli” di Catania terminando quest’anno gli studi con 100 e lode. Tra i suoi interessi anche le lingue e soprattutto il teatro. 

(La foto, tratta da L’Orlando in Beirut di Franco Passatore e Graziano Melano, ritrae Vanni Zinola e Luigina Dagostino. Lo spettacolo racconta di un giovane militare italiano appassionato della tradizione dei Pupi siciliani che si trova in missione di pace in Libano.)


[1] M. Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, To, 2008, 39 sgg.

[2] Ateneo, Deipnosophistae, 9 389 f-390.

[3] Si pensi all’indiscussa importanza dei formularismi.

[4] Forse anche per la potenza magica attribuita nel passato ai nomi, cfr., e.g., A. Seppilli, Poesia e magia, To, 1971,passim.

[5] Ἔτι δὲ τὸ μέγεθος· ἐκ μικρῶν μύθων καὶ λέξεως γελοίας διὰ τὸ ἐκ σατυρικοῦ μεταβαλεῖν ὀψὲ ἀπεσεμνύνθη, τό τε μέτρον ἐκ τετραμέτρου ἰαμβεῖον ἐγένετο. Τὸ μὲν γὰρ πρῶτον τετραμέτρῳ ἐχρῶντο διὰ τὸ σατυρικὴν καὶ ὀρχηστικωτέραν εἶναι τὴν ποίησιν· λέξεως δὲ γενομένης αὐτὴ ἡ φύσις τὸ οἰκεῖον μέτρον εὗρε, μάλιστα γὰρ λεκτικὸν τῶν μέτρων τὸ ἰαμβεῖόν ἐστιν. Σημεῖον δὲ τούτου, πλεῖστα γὰρ ἰαμβεῖα λέγομεν ἐν τῇ διαλέκτῳ τῇ πρὸς ἀλλήλους, ἑξάμετρα δὲ ὀλιγάκις καὶ ἐκβαίνοντες τῆς λεκτικῆς ἁρμονίας.”

[6] Ma sappiamo anche che nelle scuole di retorica si insegnava l’attenzione per le clausolae dei testi in prosa.

[7] Oltre che naturalmente in filastrocche, scioglilingua, “conte” dei bambini, indovinelli , ecc…

[9] È però necessario ricordare che dal Novecento in poi la narrazione del cuntista si è estesa anche a racconti popolari più recenti o anche alla mitologia classica.

[10] G. Pitrè, Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano , Pa, 1889, p. 178.

[11] V. Pirrotta, Eumenidi. Riscrittura della tragedia di Eschilo, Bonanno, 2010.

[12] Nato a Palermo il 6 febbraio 1971, Vincenzo Pirrotta si è diplomato alla scuola di teatro dell’ I.N.D.A. (Istituto Nazionale del Dramma Antico) e dal 1996 conduce una ricerca sulle tradizioni popolari. Nel 2005 è stato premiato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro come miglior autore, attore e regista emergente.

[13] M. Centanni, Il cunto si addice ad Elettra.