Antonio Bux: fare poesia è esigenza di sacrificarsi quotidianamente

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Brevi cenni biografici.
Antonio Bux (Foggia, 1982). Vive tra la Spagna e l’Italia. Suoi lavori e recensioni sono apparsi in numerose antologie (tra le quali piace citare A sud del sud dei santi – Sinopsi e Immagini e Forme della Puglia Poetica. Cento Anni di Storia Letteraria, a cura di Michelangelo Zizzi, Faloppio, LietoColle Editore, 2013; InVerse 2013/2014 – Italian poets in translation, a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, Roma, John Cabot University Press 2014; Poeti della lontananza, a cura di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Marco Saya Edizioni, Milano 2014), e sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali, oltre che in diverse riviste e litblog sia nazionali che internazionali, dato che molti suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, francese, inglese, catalano, tedesco, rumeno e serbo. Ha curato la traduzione del libro Ventanas a ninguna parte dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alós, oltre che la traduzione di testi scelti di autori tra i quali Leopoldo María Panero, Julio Cortázar, Dário Jaramillo, Álvaro García, Antonio Cabrera, Jaime Saenz, Pere Gimferrer, Pedro Salinas, Vicente Aleixandre e tanti altri ancora. È autore dei libri Disgrafie (Poesie 2000-2007 e altre poesie) (Salerno-Milano, Edizioni Oèdipus, 2013; libro vincitore della XXXVII edizione del Premio Minturnae Poesia Giovane “Ornella Valerio”) Trilogia dello zero (Milano, Marco Saya Edizioni, 2012; libro finalista per l’opera edita alla XXVII edizione del Premio Lorenzo Montano) e Turritopsis (Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2014) . Collabora con diversi editori e scrive per alcune pagine culturali sul web.

Quando e come si è avvicinato/a alla poesia?
Un primo approccio alla poesia l’ho avuto in età adolescenziale, verso i dodici-tredici anni, leggendo i primi poeti a scuola, e poi approfondendo, a casa, i poeti simbolisti francesi, i poeti beat americani e anche e soprattutto i modernisti, per poi indagare col tempo tutta la poesia contemporanea e anche, soprattutto in questi ultimi periodi, una poesia più classica. Essendo un autodidatta, sono arrivato abbastanza tardivamente e in maniera non omogenea, piuttosto lenta, ad una visione più globale della poesia, quella che oggi provo ad avere, unita ad una conoscenza più estesa di poeti di tutte le parti del mondo e di tutte le epoche. È un percorso difficile, che richiede molte letture e anche non pochi investimenti economici. Tuttavia la rete aiuta molto, specie per ricerche veloci e primi consulti.

Cos’è la poesia per lei?
Di solito rispondo a questa domanda così: «Se sapessi cosa fosse la poesia, non ne scriverei». Ma oggi mi sento in vena di non dire niente. Questa domanda, cos’è la poesia, dovrebbe bastarsi da sé, rimanere senza risposta, come in teologia, dove per sopravvivere alla grande notizia del nulla si iniziano a inventare ipotetiche risposte, e così si inizia a straparlare, dunque, in questo caso, a scrivere poesie sulla poesia. Così vien da dire che la poesia è tante cose, essendo praticamente umana, ossia essendo niente, o meglio detto, niente di così importante. Scendendo nel particolare, direi che in primis è un rumore dell’istinto, più precisamente credo sia il rumore generato dagli scarti del silenzio, quel ronzio insospettabile filtrato dalle pause del pensiero che prova a darsi un’immagine. In secondo luogo, credo sia soprattutto un errore, una specie di problema della (in)coscienza, o dell’anima. Perché nella messa in luogo/logos (luogo inteso come neutrale, come spazio irreale dove avviene un tonfo verbale) di un atto poetico, dunque nell’azione pensante, c’è sempre un errore del sistema che genera impotenza nell’agente, perciò facilmente avviene, in una poesia, un inceppamento ancor prima dello scontro. Per questo non si è mai ciò che si scrive ma si è scritti da ciò che si è stati, in linea di massima, involontariamente. Si può pensare alla poesia, per questo, come anche ad una traduzione dell’interno, quindi ad un tradimento verso l’esterno di un qualcosa che non si sa dire, ma che per scoprirsi deve dirsi. Volendo posso concludere dicendo che la poesia, ma è una mia personalissima condizione, sia una sorta di umiliazione a prescindere, o ancora, un’esigenza di sacrificarsi quotidianamente, scrivendo contro se stessi per salvarsi, insomma una sorta di preghiera verso un muro lento, che è d’io (ognuno, qualora si scoprisse veramente, diverrebbe una specie di muro in divenire). Chiudendo, non saprei cosa sia la poesia, di certo so che è una risposta difficile.

http://antoniobux.wordpress.com/

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da “Turritopsis” (Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2014)

“Va come il vento
per ogni dove,
la vita rientrando
nel suo altrove”

Essere la fiamma prima
che il corpo si spenga
comporta il calore
degli occhi nel buio,
e il loro raffreddarsi
in un dilatare di roghi,
dove è la solitudine
un fuoco mantenuto basso,
torcia che non brucia
ma illumina la specie,
e poi tramuta in cenere
quel tizzone ancora acceso.

***

“Il mondo si ricorda solo.
Nell’autocompiacimento
diventa se stesso.
Poi si migliora, nell’ombra
fa luce distruggendo la base.
E tu neanche sarai testimoniato,
ma solo usato per dirglielo muto.
Vedilo crescere, stanne lontano”

E ancora si apre la vita
di multiple variazioni,
partendo da uno stesso punto.
Quella forza motrice che non
dipende dal suo ritmo, nel ciclo
degli atomi oscuri – nemmeno prima –
chiudendo al modello emotivo l’alterno
fascio di protezione che è indietro. Ma intanto
si fonda ugualmente nell’ombra più avanti,
nel branco doloroso che avanza per segni,
come una simulazione del gioco, un randagio
clamore che si scorge per poco. Ché non resta
più di una parete, o di una stiva disabitata lì a lungo
oltre le mani a difendere, oltre la spinta di un mondo
richiuso sul fondo, ma si trasforma tipo una specie
di memoria – lasciandosi in pausa – registrandosi
a rilento, come una luce delusa, dicendo quel poco
rimasto: quel troppo che è dentro.

***

“Le persone sole
affondano meglio.
Tu, dunque, non risalire;
lascia gli altri lassù a galleggiare”

Trattasi di un colore
perpetuo il mondo.
Distinzione tra ciò
che muove e quel
che si arrende.
Non sistema circolare,
piuttosto vertebra indifesa,
vertigine sensoriale
nell’intesa oltre il parziale.
E allora prendere dal nero
il bitume uniforme dell’altro
e modellarselo dentro
nell’insicurezza del corpo,
è il ripetersi del riempimento
ripiegandosi a memoria,
è lo stampo a costringersi
copia nella copia
nell’unica differenza:
in quella sfumatura
duplice e universale
di ciascuna esistenza.

***

“È un grande meno vivere
rispetto alla divisione che vi è
tra il moltiplicarsi nello scegliere
e l’esser scelti solo per addizione”

Non dare colpa al mondo
se il midollo del futuro
non mantiene l’equilibrio;
piuttosto muovi la bilancia
che se non pesa almeno vibra,
e sposta ogni vita d’un qualche
centimetro più indietro.
E conta ciascun pelo
dell’animale che dimentichi
ogni giorno sul letto
della tua schiena indolenzita.
Ché ritornerà il suo solletico a farti
capolino nella notte, quando
il grugnito della luna
in osmosi con la mente,
ti porterà fuori, ancora
ad ululare contro il niente.

***

“Si sposta ogni linea
sempre prima,
sotto il margine,
(esiste perché manca);
perciò l’instabile si tiene,
qualcosa approfondisce
smosso dalla terra,
mette radice nell’evento”

Come si perde tutto nell’anonimo
disperato disincanto dell’amorfo
nauseabondo vischio di parole;
ché ognuno si consuma vagabondo
in celeste putrido consenso d’ali
rotte nel volo maestro dell’aquila;
e neanche l’entusiasmo di un pantano
si sente gorgogliare dall’imbrattato
momento dell’edificazione comune;
e tu che chiami distanza la tua vita
– il viale fresco sulle case morte a noi –
come immagine corrosa che circonda:
questo specchio inondato di speranze
quanto il gelo più s’accende di stupore
nella città sobbalzante poi un momento,
vibrando in una piaga lontana del confine
ogni spazio dove non ritorna mai quel segno
come da ogni limite una fossa nel giudizio.