Invito alla lettura di Kafka

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GABRIELLA MONGARDI. Il 2013 sembra essere l’anno di Kafka, e non solo perché il 3 luglio ricorre il 130° anniversario della sua nascita: il nome “Kafka” compare spesso in titoli di autori più o meno famosi, editi per la prima volta o ripubblicati quest’anno: da Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami a Kafka in love di Jacqueline-Raoul Duval o Il gabinetto del dottor Kafka di Francesco Permunian, come se il nome di Kafka fosse diventato un marchio di successo, un richiamo…

Eppure al nome di Franz Kafka – al secolo uno scrittore ebreo-tedesco nato a Praga nel 1883 e morto di tisi nel 1924 – sono comunemente associate visioni opprimenti di un chiuso mondo di colpa, di un uomo prigioniero di prospettive inquietanti e di paradossi angosciosi e insolubili: infatti le più famose opere di Kafka – il romanzo Il processo, i racconti La metamorfosi, Il verdetto, Nella colonia penale – narrano di colpe innominate e innominabili, di punizioni, di terribili esecuzioni; tanto che l’aggettivo ‘kafkiano’ (kafkaesque) viene usato oggi, anche da chi Kafka non l’ha mai letto, ad indicare una situazione assurda, allucinante, angosciosa e incomprensibile a un tempo.

Perché leggere Kafka, allora? Perché «è perso chi non avrà incontrato Kafka» – come affermava Guido Ceronetti… Basta la spia linguistica dell’aggettivo denominale a sancire l’importanza fondamentale dello scrittore praghese nel mondo moderno, a dimostrare che noi abbiamo bisogno di Kafka per dar voce a qualcosa sepolto in noi che preme per affiorare alla luce – qualcosa appunto di ‘kafkiano’, di indicibile, addirittura di mostruoso, che solo attraverso la parola di un’artista si può evocare e quindi in qualche modo controllare, esorcizzare, ammansire. Per questo leggere Kafka è sicuramente benefico o addirittura salvifico: ma non è il caso di partire dai testi più ‘tristemente’ famosi; c’è un altro Kafka, quello breve degli schizzi e delle parabole, o quello degli altri due romanzi, America e Il castello: un Kafka meno ostico, più accogliente, se così posso dire – un Kafka sempre inquietante, certo, ma di un’inquietudine diversa, oserei dire ‘terapeutica’, benefica; se lo si avvicina in questo modo, per questa via, si potranno anche leggere successivamente gli altri testi ‘canonici’: sicuramente si reagirà in modo diverso di fronte ad essi, ci risulteranno più… tollerabili.

Kafka non era uno scrittore di professione: laureatosi in legge, di giorno lavorava come impiegato presso un ufficio di assicurazioni, e scriveva solitamente di notte, in modo compulsivo, senza potersi staccare dalla scrivania: scrivere era per lui qualcosa di imprescindibile, un’esigenza vitale, e nello stesso tempo era la confessione della sua incapacità, della sua inadeguatezza a vivere; era la sua condanna alla separatezza e alla lontananza, ad essere senza patria (Heimatlosigkeit), senza radici (Wurzellosigkeit), sospeso nel vuoto: era “l’eterna tortura del morire” (Diari 6 agosto 1914). Ma se lo scrivere è questo ininterrotto tormento di agonia, esso è anche l’unica giustificazione della sua “monotona, folle, vuota vita da scapolo”, è la tana nella quale si sente sicuro e protetto, anche se poi il nemico è sempre sulle sue tracce (cfr. il racconto La tana). Perciò in una lettera all’amico Max Brod del giugno 1921 Kafka parla di 4 impossibilità: «l’impossibilità di non scrivere, l’impossibilità di scrivere in tedesco, l’impossibilità di scrivere diversamente, l’impossibilità di scrivere: infatti la disperazione non era una cosa che si potesse calmare scrivendo, era una nemica della vita e dello scrivere, lo scrivere era soltanto una misura provvisoria, come quella di chi scrive il proprio testamento prima d’impiccarsi… una misura provvisoria che può benissimo durare una vita intera». Questo è tipicamente kafkiano: il dibattersi tra alternative logicamente inconciliabili, contraddittorie, che in astratto si escludono reciprocamente, e che pure si rivelano coesistenti, o addirittura coincidenti, nell’esperienza vissuta, sul piano psicologico. Di qui la lacerazione interiore, il disorientamento fino alla paralisi decisionale, l’impossibilità di agire, la sensazione di non avere scampo (Ausweglosigkeit) che emergono da tutti – o quasi – i testi kafkiani. Eppure nonostante tutto Kafka scrive, scrive per bisogno interiore ma senza attendersi una salvezza dall’arte, profondamente consapevole dei limiti del linguaggio umano e della condizione del mondo moderno, in cui non c’è più “la spada di Alessandro” ad indicare “la via verso l’India”, come dice nel racconto Il nuovo avvocato: «Oggi le porte dell’India sono in tutt’altra parte, rimosse più in alto e più lontano; nessuno segna la direzione giusta; molti impugnano spade, ma solo per agitarle; e lo sguardo che vorrebbe seguire, si perde».
Il compito che spetta alla poesia nel mondo moderno è quello di ritrovare (o ricreare?) ‘le porte dell’India’, la Verità, perché l’arte, come ogni scienza, è una metodologia rispetto all’Assoluto: un Assoluto inaccessibile perché indivisibile e irriducibile alle categorie della conoscenza e della lingua dell’uomo. Per questo il linguaggio che vuole aprirsi alla verità può riferirsi ad essa solo in forma allusiva, solo per via indiretta, per accenni: eppure se una speranza per Kafka esiste essa si dà nella parola e non nel silenzio della parola, nella rinuncia a scrivere. In un appunto dei Diari, 18-10-1921 egli afferma infatti: «Si può benissimo pensare che la magnificenza della vita sia pronta ed afferrabile, in tutta la sua pienezza, intorno ad ognuno e sempre, ma velata, persa nel profondo, invisibile, lontanissima. Se la si chiama con la parola giusta, con il giusto nome, viene. Questa è l’essenza della magia, che non crea, ma chiama». E in un’altra considerazione ribadisce: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare nemmeno, rimani completamente silenzioso e solo. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non può fare altro, estatico si torcerà davanti a te» .
Se questa annotazione può forse celare una speranza, la speranza che la magnificenza della vita sia… a portata di parola, quel che è subito chiaro è che essa contiene una distinzione, che condiziona la natura e gli strumenti della narrativa kafkiana:  la distinzione tra parola-che-crea e parola-che-chiama, ossia la parola che è atto creativo, che risolve ed esaurisce in sé la realtà ed è quindi la verità, e la parola che è atto evocativo e come tale provoca la realtà[1]. Senza dubbio la parola di Kafka ‘chiama’, evoca: la sua arte è ‘una forma della preghiera’ e ha quindi tutta l’ambivalenza e la problematicità dell’invocazione magica e religiosa, è evocazione ma anche provocazione, suscita le ultime istanze di una realtà insignificabile, ma nell’istante stesso in cui cerca di possederle e imprigionarle nella parola compie un atto sacrilego.
È di qui che alla poesia di Kafka deriva un atteggiamento ambivalente e profondamente tragico. Da una parte essa è del tutto passiva e come paralizzata e affascinata dall’assurdo, cui essa si adegua con una felicità rapita e dimentica – la stessa felicità con cui Georg Bendemann, il protagonista del Verdetto, accetta ed esegue senza reazioni la terribile sentenza paterna, la condanna al suicidio; dall’altra però l’arte di Kafka si eccita in un’esasperazione logica e verbale senza pari, che tenta di respingere e al tempo stesso di dominare, in una frase perfetta e indistruttibile, quella realtà che il poeta ha evocato. Pensiamo a due testi celeberrimi, il racconto La metamorfosi e il romanzo Il processo, che presentano due tipiche situazioni kafkiane. Entrambe le storie, sorte del resto a breve distanza l’una dall’altra, hanno in comune il carattere dell’incubo e rappresentano l’irruzione improvvisa dell’assurdo in un ordinato mondo piccolo-borghese. Ma, mentre la storia di Gregor Samsa trasformato in scarafaggio è narrata con una precisione, un distacco e una freddezza senza confronti, il Processo è come attraversato da una febbrile concitazione interpretativa che aumenta sempre più di tono e di foga, in una sorta di furia logica diretta contro una realtà che si rifiuta di entrare nel regno umano, troppo umano, della parola.
La narrativa di Kafka si sviluppa così con un duplice respiro, un duplice ritmo: quello del momento tutto passivo e irrazionale della visione e quello del momento tutto attivo e razionale dell’interpretazione. Da una parte, cioè, abbiamo il racconto, a volte brevissimo, solo uno schizzo, quasi una folgorazione immediata, irriflessa e indifferenziata, che rappresenta il momento primario e del tutto elementare della condizione dell’uomo, e dall’altra il romanzo, che sorge come sforzo di superamento e di interpretazione della visione. Così, se il protagonista del racconto è sempre la vittima passiva dell’assurdo e dell’inganno universale (si vedano Gregor Samsa, il medico di campagna, il cacciatore Gracco, protagonisti dei racconti omonimi), l’eroe del romanzo è sempre un eroe ribelle, la storia della sua ricerca è sempre la “descrizione di una battaglia” (come s’intitola la prima opera di Kafka).
E proprio questa lotta è la misura della grandezza e dell’originalità di Kafka. Ciò che lo accomuna alla letteratura europea primonovecentesca – ad esempio agli espressionisti o ai surrealisti – è la sua fantasia visionaria, allucinata, la sua disperata fede nel linguaggio del sogno, in una parola il suo irrazionalismo. Ma ciò che da loro lo distingue è la sua caparbia volontà di interpretare l’incubo, di razionalizzare l’assurdo, di rendere nuovamente umano un mondo che sembra aver perduto completamente la memoria dell’uomo.

Franz Kafka

Franz Kafka

Comincerei il mio itinerario kafkiano da due racconti brevi, o parabole, che presentano in forma purissima, estremamente distillata, quelli che sono i due motivi di fondo di tutta la narrativa kafkiana, la ricerca, l’indagine razionale (La trottola) e l’attesa (Il messaggio dell’imperatore) – e per me la ragione prima del suo fascino: la seconda ragione (ma non meno importante) è la potenza fantastica dello scrittore, capace di tradurre questi temi in immagini e situazioni narrative una più felice dell’altra, creando racconti animati da un ritmo di danza, ‘leggeri’ anche quando dicono un’angoscia schiacciante, insostenibile.

La trottola, 1920

Tre sono i protagonisti del raccontino: da una parte abbiamo il filosofo, simbolo dell’uomo teso alla spiegazione razionale della realtà, dell’uomo che ha bisogno di conoscere il perché delle cose, di definire, con la scienza, le leggi razionali, fisico-matematiche, che regolano l’universo. Al centro – come indica il titolo – la trottola, oggetto delle sue osservazioni e del suo studio, che può simboleggiare la Terra che gira, o piuttosto la vita che è gioco e movimento. Dall’altra parte abbiamo i bambini, che non si fanno domande perché giocando partecipano già, inconsciamente, del segreto e della verità. L’apologo dimostra che la conoscenza a cui tende il filosofo è assolutamente impossibile: solo il gioco dei bimbi riesce a cogliere il ritmo dell’universo, o meglio è questo ritmo, è questa verità, ma la dimostrazione viene fornita per via indiretta, per immagini, o meglio grazie all’articolazione stessa, alla struttura del discorso narrativo.
Tre sono le sequenze in cui si può scandire il testo: nella prima viene presentata dall’esterno la situazione fondamentale, il triangolo filosofo-trottola-bambini. Nella seconda viene giustificato il comportamento del filosofo, un esponente ante litteram del ‘pensiero debole’, diremmo noi, che ha rinunciato ad occuparsi dei massimi sistemi convinto che “la conoscenza della più piccola piccolezza è sufficiente a conoscere l’universale”: è la parte filosofica del testo. Notate che questa legge, questa verità non viene smentita, anzi viene confermata e contrario dalla storiella: siccome è assolutamente impossibile conoscere l’universale, non è possibile neanche conoscere il particolare, proprio perché la conoscenza della più piccola cosa sarebbe conoscenza del Tutto. Nella terza sequenza ritorna la narrazione della situazione fondamentale, ma fatta questa volta dall’interno, dal punto di vista del filosofo, con l’attenzione rivolta alle sue reazioni, nel passaggio dalla speranza alla certezza al malessere della delusione, della sconfitta – prima in crescendo e poi in decrescendo. Ma cambia anche altro, nelle tre sezioni: muta la struttura sintattica del testo e la sua velocità; all’inizio troviamo quattro periodi brevi; al centro, tre periodi di media lunghezza; nell’ultima sequenza  un solo periodo, in cui la sintassi tende a sfaldarsi, le frasi ad affastellarsi l’una sull’altra (nel testo tedesco sono separate solo da virgole). Cambia cioè il ritmo della narrazione, che da scandito e normale si fa progressivamente più incalzante e vorticoso, quasi a mimare il moto inafferrabile della trottola e a rappresentare, insieme, il fallimento del filosofo, lo sgretolamento, il franare degli strumenti razionali di fronte al mistero della vita che, non appena fissata negli schemi della conoscenza, perde ogni significato – proprio come la trottola che è viva e veramente significante nel gioco dei bambini, mentre in mano al filosofo diventa uno “stupido pezzo di legno”. Scrive Kafka nei suoi quaderni: «Non esiste un avere, ma solo un essere»: chi è nella verità, ossia chi accetta la vita nella sua elementarità, chi è la verità – come i bambini – non possiede la verità, non ne è consapevole: esiste una frattura incolmabile fra la conoscenza e la fruizione della verità, e questa frattura determina appunto l’assurdità angosciosa della condizione terrena dell’uomo. Ma non per questo l’uomo deve rinunciare cercare e ad attendere, stante che è nell’attesa la vera dimensione della nostra esistenza. È quanto ribadisce il racconto
Il messaggio dell’imperatore, 1920,
una delle più belle pagine della letteratura europea[2].
Il racconto si può suddividere in quattro sezioni.
1) L’imperatore in punto di morte, davanti a tutti, affida ad un messaggero un messaggio per un suo suddito. In questa sezione i verbi sono tutti all’indicativo, passato prossimo o imperfetto.
2) Il messaggero parte, ma troppa gente lo ostacola: i verbi sono ancora all’indicativo (presente), ma nell’ultima frase compare il condizionale con valore desiderativo – desiderio irrealizzabile nel presente, come dicono le grammatiche.
3) Il cammino è lentissimo, impossibile. La sezione si apre con una forte avversativa, e nei verbi il modo indicativo si alterna con il condizionale e il congiuntivo imperfetto dell’irrealizzabilità; si ripete come un ritornello l’espressione: «e se anche gli riuscisse, non avrebbe ottenuto ancora nulla», a ribadire che la distanza tra il messaggero in cammino e il destinatario in attesa è incolmabile. Eppure, questa volta, il negativo, lo scacco non trionfa.
4) La quarta sezione (una sola riga), infatti, si apre di nuovo con un’avversativa: «però…». Ritorna qui in primo piano il suddito, destinatario del messaggio imperiale, cui il narratore si rivolge direttamente. Il ricevente è in attesa, seduto presso la finestra, e ‘si sogna’ il messaggio, al calar della sera: ed è la forza della sua attesa, del suo sogno, a garantire la realtà del messaggio. In tedesco c’è un verbo intraducibile, ERTRAÜMEN, che è un composto di TRAÜMEN, sognare, ma dice molto di più. ERTRAÜMEN infatti non significa soltanto “sognare”, cioè immaginarsi qualcosa, bensì realizzare nel sogno il fine del sogno medesimo. E mentre TRAÜMEN è passivo ed inerte, ERTRAÜMEN dà la misura di un’ansia, di una volontà, di una feconda disposizione di attesa che si protende a cogliere nel sogno il bagliore di una verità altrimenti irraggiungibile: in questo modo Kafka si apre ad una forma di speranza. Perché è vero che nel Messaggio dell’imperatore Kafka esclude che il messaggero imperiale possa mai raggiungere l’uomo che attende quest’ambasciata: eppure la leggenda, se toglie all’uomo la speranza che il messaggero possa mai raggiungerlo (sezioni 2-3), gli dà la certezza che l’ambasciata gli è stata effettivamente inviata (i verbi all’indicativo della sezione 1), che essa è viva, reale, e solo nascosta, offuscata dalle tenebre di un mondo che è caos e inganno. Per ricevere quest’ambasciata, l’uomo deve smettere di ‘cercare’, perché «chi cerca non trova, chi non cerca viene trovato»: deve stare alla finestra, in attesa, deve ‘vegliare’. Nella leggenda Kafka raggiunge il piano purissimo del mito: si è chinato di fronte al mistero e ha rinunciato ad interpretarlo razionalmente per darne un’immagine mitica che per la sua stessa natura ammette, anzi stabilisce la distanza invalicabile tra l’uomo e l’assoluto, ma insieme è l’unica forma possibile di conoscenza, di contatto.

In questo modo ci affacciamo sul Castello, giungiamo a quella che a giudizio dei critici è «l’opera più conclusa ed essenziale dello scrittore praghese, l’espressione più intensa del suo mondo poetico e del suo pensiero»; «il punto d’arrivo di tutta l’arte kafkiana»[3]. La trama è estremamente lineare, direi povera: il romanzo si apre con l’arrivo di un agrimensore, K., in un villaggio situato ai piedi di un castello e narra i suoi vari – e vani – tentativi di entrare in contatto con le autorità, i funzionari del castello, che a suo dire l’hanno mandato a chiamare. L’azione cede il posto ai lunghi dialoghi fra i personaggi, che posseggono un intenso spessore psicologico e umano; gli avvenimenti si dispiegano con un ritmo lento ed avvolgente. Proprio questo ritmo – incantato, quasi sospeso – e l’atmosfera fiabesca, di fissità onirica, che emana dal libro costituiscono secondo me una delle principali ragioni del fascino del romanzo. Aprendo il libro ci si sente come accolti in un’altra dimensione, e leggerlo vuol dire muoversi in punta di piedi per non far rumore, per non turbare con un gesto troppo frettoloso l’intatto silenzio di quel mondo, l’immobilità senza tempo del piccolo villaggio, la forte valenza simbolica del paesaggio innevato e delle figure, in cui il magico e il metafisico sono disseminati. Affiora sempre più insistentemente l’immagine di una trascendenza che è assenza, eterna lontananza, silenzio, fioco bagliore o, come nel caso del conte West-west, il signore del castello, un nome-cifra che si perde nel corso della narrazione, un’entità senza volto nascosta nei recessi del castello, circonfusa da una perenne opacità, dal grigio silenzio di un inverno senza fine. Nel Castello Kafka ripropone da un lato la stretta compenetrazione di sacro e comunità presente nei romanzi precedenti, come America,  e in racconti come La trottola, dall’altro accentua invece l’elemento di alterità e inconciliabilità di sfera umana e divina – la distanza incolmabile tra Imperatore e suddito di cui parlava il Messaggio dell’imperatore.
Il motivo portante del romanzo si delinea già nelle primissime righe di esso: Era tarda sera quando K. arrivò… Tutto si carica di valenze simboliche: la neve che annulla i contorni, la nebbia, il buio, il ponte sospeso sull’abisso, il vuoto… il disorientamento è totale. L’assunto del romanzo sembra essere di nuovo – come nei racconti e romanzi precedenti – l’assurdità di un destino da anticamere e sale d’aspetto, che riduce l’esistenza dell’uomo ad una sterile attesa alle soglie, ai margini della Verità. All’inizio si direbbe che l’agrimensore sia stato ingannato, perché nessuno sa nulla del suo incarico, però non si può escludere che la chiamata di K. al villaggio sia una delle improvvise decisioni dell’autorità, incomprensibili agli abitanti del villaggio e tuttavia indispensabili per l’equilibrio del Tutto. In realtà, a differenza che in tutte le altre opere precedenti, quello di K. è un destino liberamente scelto. Il suo arrivo al villaggio coincide già con l’assunzione, e questa è una sfida che K. ha lanciato al castello e che il castello accetta, rimettendo a lui stesso il compito di dimostrare la propria assunzione e indicandogli due vie (cioè due sfere, due modi di vita): «essere operaio della comunità, unito al castello da relazioni onorifiche, ma solo apparenti, oppure serbare soltanto l’apparenza di un operaio e in realtà lasciar regolare il suo lavoro dalle istruzioni che Barnaba – un messaggero, un intermediario – gli avrebbe recato di tanto in tanto» (cap. II).
La prima via, che si offre all’agrimensore attraverso l’unione con Frieda, cameriera alla mescita dell’Albergo dei Signori, rappresenta la sfera della domesticità, della vitalità inconscia ed elementare, dell’adesione istintiva alla vita: è la dimensione di Frieda, dei due aiutanti Arturo e Geremia, degli abitanti del villaggio che vivono nella Verità, sono la Verità, ma non hanno la verità – secondo la distinzione  che abbiamo già visto per La trottola. L’altra via, quella del messaggero Barnaba che porta a K. lettere private di un funzionario, Klamm, è la via del contatto personale con la burocrazia del castello, il tentativo di gettare un’occhiata ‘al di là’, dall’altra parte, grazie alla parola umana, alla poesia – di cui Barnaba, secondo Baioni, sarebbe l’“amara, commossa allegoria”. Amara perché Barnaba – quindi la via della poesia, della ricerca – non costituisce, come K. inizialmente sperava, una via di ascesa al castello, un avvicinamento all’Assoluto. Di fronte al bisogno di certezza metafisica la poesia, come il messaggero Barnaba, trasmette soltanto cenni vuoti e deludenti che «non servono a nulla e recano al mondo soltanto smarrimento». La poesia non offre approdo alcuno, proprio in quanto dimensione dell’assoluta, indeterminata possibilità, e lo smarrimento è implicito nel carattere metafisico dell’attesa: la via dell’arte chiama ad un destino di insostenibile assenza, di lontananza, di ‘extraterritorialità’; l’agrimensore, per cercare di sorprendere Klamm e di raggiungere il castello, per chiarire direttamente, senza la mediazione del villaggio, il significato della propria nomina, si allontana sia dalla comunità, che da Frieda, che da Barnaba e si ritrova, nel cortile gelato dell’Albergo dei Signori (il luogo proibito), assolutamente solo, lontano e impotente di fronte alla meta da raggiungere (fine del cap.VIII).
Tutta la ricerca di K. sembra essere diretta ad ottenere dalle autorità il permesso di vivere al villaggio: in realtà il suo conclamato desiderio di giustizia, di riconoscimento, è a ben guardare un mezzo per soddisfare il diabolico narcisismo della sua volontà di sapere. La sua vera intenzione non è di radicarsi nel villaggio, ma di arrivare – con l’aiuto di tutti e persino con il consenso delle autorità – fino alla Verità suprema per esserne il solo padrone. Ma l’uniformità, la monotonia della narrazione dà risalto all’equilibrio inalterabile dell’universo, ad un ordine del mondo in cui la tensione dell’eroe all’Assoluto e all’incontro con un evento risolutivo è costantemente vanificata; l’impossibilità d’incontro con le istanze superiori, che si ritirano sempre più in là, emerge nel Castello come carattere stesso dell’universo. Però, nel terzultimo capitolo, la staticità e l’equilibrio delle pagine precedenti sembrano sul punto di spezzarsi improvvisamente: chiamato nel cuore della notte per un’udienza, K. penetra per errore nella camera di un funzionario, il segretario Bürgel, che si abbandonerà a insolite confidenze con lui – K. entra cioè in contatto con l’autorità, sembra raggiungere la sua meta: ma sfinito dalla stanchezza, non ascolta le rivelazioni di Bürgel e si addormenta. In quest’episodio le infinite barriere che separano l’agrimensore dal castello, che imprigionano la luce della verità nella rigida logica del quotidiano, sembrano cedere improvvisamente. Esiste quindi una possibilità – «una possibilità molto rara, o per dir meglio una possibilità che non si presenta quasi mai» – di risolvere l’attesa di K., di conciliare la sua tensione alla vita e alla conoscenza, all’essere e all’avere la verità. La verità, sembra essere il messaggio di Kafka, non può resistere all’improvvisa domanda lanciata nella notte, così come la magnificenza della vita non può negarsi alla parola poetica che la chiama col giusto nome. Ma nell’atto di far trasparire l’estrema ed inattesa potenzialità dell’universo, l’episodio di Bürgel ne conferma anche lo sconfortante equilibrio: il limite fisico, soggettivo, che in sé non smentisce l’essenza aperta del mondo, trascolora in ‘qualcos’altro’, nel simbolo della perenne vanità degli sforzi umani, in quanto tali; «Mosè non arrivò a Canaan, non perché la sua vita fosse troppo breve, ma perché era una vita umana» (Diari, 19-10-1921).
Quali i possibili significati del Castello? Se ne può dare una lettura per così dire immanente, semiotica, e interpretare il desiderio dell’agrimensore di un contatto personale con l’autorità come trascrizione del desiderio di un contatto autentico di un uomo con un altro uomo. Una lettura che lo stesso Kafka autorizza, quando in una lettera a Brod del 25/10/1923 scrive: «Talvolta mi sembra che la natura dell’arte, l’esistenza dell’arte, si possa spiegare solo con queste ‘ragioni strategiche’ che vogliono rendere possibile una parola vera da uomo a uomo». Il compito dello scrittore è quindi di abbattere il sistema delle mediazioni, i diaframmi, le barriere che ci separano dall’altro, di imporre in una parola al castello la legge dell’agrimensore. La letteratura allora si pone come l’ordine della vera comunicazione, nutre l’utopia di restituire alla società dell’uomo la purezza della parola assoluta: in ogni caso la letteratura, sia pure come utopia, rappresenta la vera Legge e la vera Vita.
Se ne può dare invece una lettura sempre metaletteraria, ma in direzione opposta, verso il Trascendente. Il messaggio profondo del romanzo allora sarebbe questo: il compito dell’arte è di evidenziare la carica simbolica e metafisica del quotidiano, senza però esplicitarne il significato ultimo, senza cioè dissolvere l’enigmaticità che circonda l’esistenza. Il Castello è l’opera kafkiana in cui è più evidente l’intenzione di elevare ogni scheggia del vissuto ad elemento ed indice di una misteriosa trascendenza; di risolvere gli eventi biografici nel perfetto, immutabile – anche se enigmatico – equilibrio della parola.

Gabriella Mongardi

 

[1] cfr. G. BAIONI, Kafka. Schizzi, parabole, aforismi, Milano 1983 pp.36 ss.

[2] cfr. G. BAIONI, Kafka. Romanzo e parabola, Milano 1962, p.215

[3] G. MASSINO, Kafka, Firenze 1984 pp.81-82

Due racconti di Kafka

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