Il nonno

nonno

LILLY MANASSERO

Arrivava con la corriera. Ad un tratto in un mattino qualunque vedevano quella piccola figura vestita di nero dalle scarpe al cappello comparire sul vialetto dolcemente scosceso. Guardarlo avvicinarsi alla casa era come stare seduti davanti allo schermo del tempo. Era come incontrare il proprio passato sintetizzato tutto in quel corpo asciutto e rassicurante. Per lui quel giorno facevano festa fino al tardo pomeriggio quando, misteriosamente come era arrivato, ripartiva.

Nessuno riusciva a convincerlo a fermarsi più di un solo giorno. La nostalgia del  paese, del cane, della vigna, la paura profetica di non poter ritornare a casa gli mettevano addosso un’ansia di partenza, di piedi voltati verso altri orizzonti fin dal momento dell’arrivo. Puzzava di libertà come un animale selvatico, non restava che lasciarlo venire ed andare muovendosi liberamente nella sua disciplinata e spartana  anarchia.

A dargli un’età gli si faceva un torto, non si poteva imprigionare il suo essere nello stretto ragionato di un numero. Il suo corpo era stato esposto per un tempo immisurabile alle maree asciutte che spazzano senza requie le colline. Vento e sole, freddo ed arsure gli avevano calcificato sul viso neri solchi disuguali.

Rimbalzavano le voci nell’abbaiare dei cani perché quando l’uomo arrivava, la casa non era più la stessa. Persino le mura dal colore ormai irriconoscibile sembravano vibrare d’emozione. Tornare a cantare.

«C’è il nonno», annunciava qualcuno.

E subito tutti lo sapevano, anche i vicini. Perché in quel mondo troppo piccolo era impossibile tenere nascosto qualsiasi evento. C’era chi risaliva la scala di pietra dai gradini alti per accoglierlo con un saluto intimidito dal rispetto della sua posizione nella gerarchia famigliare, c’era chi semplicemente si faceva sull’uscio di casa, ma nessuno restava fermo dov’era.

Lo invitavano ad entrare nella cucina zuppa di tutti gli odori che anni di cibi cotti, scaldati, riscaldati, dimenticati per ore ai bordi della stufa, di latte eruttato da pentolini avevano irrimediabilmente fuso in un unico gigantesco odore di vissuto. Seduto vicino alla finestra l’uomo si guardava intorno smarrito, visibilmente a disagio. Come se la spinta propulsiva che l’aveva fatto partire agli albori del giorno si fosse già del tutto esaurita. Si sentiva solo tra nipoti che gli giravano intorno muovendosi con destrezza, la nuora appoggiata al tavolo intenta ad arrotolare contro i rebbi della forchetta piccoli cilindri ricavati dall’impasto per gli gnocchi. Si sentiva solo come si può sentirsi solo chi non ha l’abitudine all’interazione.

Quasi si pentiva di aver dato ascolto alle emozioni. La marcia del sangue che va e viene e tiene legate generazioni diverse per età e pensieri in quell’incontro infinito di  ieri e di oggi mescolati a dovere come un mazzo di carte aperto a ventaglio su altri domani.

Avrebbe mangiato bene, questo sì. Nessun possibile confronto con le sue minestre rade ed insipide o le zuppe in cui il pane raffermo imparava a nuotare. Ma siccome per qualunque cosa si paga un prezzo, il suo sarebbe stato sforzarsi di tenere in piedi un discorso, rispondere a domande, farne a sue volta. Mostrarsi attento, interessato. Lui che solitamente per giorni interi non vedeva  un cristiano e per sentire il suono della sua voce era costretto ad insultare il cane.

Nel frattempo qualcuno era stato spedito ad avvisare il padre di non tardare per il pranzo, che sapesse senza ombra di dubbio d’essere atteso dal suo. E quando finalmente il padre entrava in casa con un senso di affanno e piacere come chi si sia lasciato dietro un’enormità di lavori da ultimare, ma lo abbia fatto senza patirne eccessivamente, il nonno risorgeva. Si andavano incontro, si stringevano la mano con un saluto silenzioso di sguardi che commuoveva al solo a guardarli.

La famiglia si raccoglieva rumorosamente intorno al tavolo ed altrettanto rumorosamente consumava il pasto. L’uomo provava a star dietro a tutti i discorsi, ma quella cacofonia di voci gli dava il capogiro e di nuovo rimpiangeva il silenzio della sua cucina buia e miracolosamente solitaria. Si diceva che quella non era vita per lui. Che non si sarebbe mai abituato a tutto quel trambusto. Ma suo figlio aveva generato molti figli e quello era il risultato. Un bel risultato in fondo perché erano tutti ragazzi sani ed intelligenti e gli volevano bene, lo rispettavano ed anche per un uomo non incline ai sentimentalismi come lui, quella non era cosa da poco.

Altrimenti non sarebbe mai partito da casa, se ne sarebbe rimasto dov’era, in quella cascina precipitata fin quasi in fondo alla valle, che per raggiungere la piazza del paese bisognava salire, arrampicarsi come uno scalatore. Poche ore e ci sarebbe tornato rifiutando come sempre di salire sulla Millecento amaranto del figlio, che si sentiva in dovere di riaccompagnarlo per evitargli il ritorno in corriera. Non valeva insistere, arrivare quasi a litigarci, tanto non cambiava idea.

Orgoglioso del suo orgoglio spinto fin quasi alla superbia, ai cinque rintocchi pomeridiani del campanile gli suonava una sveglia interna e come percorso da una scossa elettrica l’uomo veniva colto da un’ansia spasmodica di andare via. Infilava la giacca, si calava il cappello sui capelli canuti e si accommiatava con un timido saluto frettoloso.

Finché la salute gli permise di arrivare e partire, l’uomo partì ed arrivò sempre solo. Sempre.

(Margutte ha pubblicato notizie di Lilly Manassero e due sue poesie qui.

L’illustrazione è di Franco Blandino.)