Beauwindow, Zahra che scappava sempre da casa

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PATRIZIA GHIGLIONE (a cura)

Quando ero piccola, laggiù in Marocco, scappavo sempre da casa. Il mio paese di origine è un piccolo villaggio: stavamo lì, con mia madre, eravamo quattro femminucce e due maschietti. Mio padre era già morto. Facevamo una bella vita, mancava sempre qualcosa. Ma era una vita normale, più normale di come si vive qua: noi non avevamo niente, diciamo. Le scuole erano lontane, cinque o sei chilometri di cammino. Quando nevicava i bimbi andavano, tutti rossi in faccia, per studiare. La scuola non mi piaceva, io scappavo sempre; stai tranquilla che scappavo sempre, dalla scuola.

Entravamo alle otto fino all’’una. Poi andava un altro gruppo. Facevamo la settimana dopo di pomeriggio e poi di nuovo fino all’una. Andavamo a nasconderci in montagna, dalla scuola. Ero pigrina e scappavo: giocavamo e scherzavamo, mi piaceva andare sulla montagna, al sole. Si giocava mischiati, qualche volta; poi, quando i maschietti giocavano a palla, le femminucce prendevano del legno e facevano le bambole. Stavamo sempre fuori. D’estate andavamo al mare, qualche volta. Mamma preparava da mangiare, magari portava anche altri bambini, i vicini di casa. Mia mamma portava tutti. Si andava in corriera, 20 minuti di viaggio, c’era la spiaggia, facevamo i bagni. E stavamo lì, con allegria.

Quando avevo otto anni sono andata a stare da mia zia, a Rabat. Mia zia è arrivata in questo paese piccolo e mia mamma ha detto: «Vai lì a studiare e fai una vita migliore». Avevamo una casa grande, al mio paese, mangiavo una specie di polenta con l’olio extra vergine, mi piaceva tanto. A Rabat la polenta non c’era, là era una cucina diversa, lontana dalla mia vita normale, naturale. Ero arrabbiata perché non mi piaceva, non c’era nessun posto per scappare, nessuna montagna. C’erano le bambole vere e la tv, io facevo i lavori di casa con mia zia. Quando andavo, d’estate, da mia madre, allora diventava dura ritornare. A Rabat mangiavano il cibo della città moderna, c’erano cose che non avevo mai assaggiato. Ho imparato la torta di mele, che mi piaceva molto. La tv al mio paese era una sola; alla sera i bimbi guardavano i cartoni, i grandi le altre trasmissioni. Ci trovavamo, davanti alla tv, tutti insieme. Da mia zia stavamo in una grande villetta, era una famiglia ricca, c’era una grande tv solo per noi. Quando ho finito la scuola, a dodici anni, non giocavo più, facevo solo i lavori di casa.

Poi sono andata in Francia, sono stata sette anni, quindi sono venuta in Italia; mi sono sposata, è nato il mio primo figlio, e altri due. I miei bimbi in Italia avevano una vita più ricca di cose. Mio figlio grande andava a scuola, il più piccolo all’asilo, l’altro si è ammalato; e poi la nostra vita è cambiata. Siamo tornati in Marocco quando mio marito ha perso il suo lavoro; lui ha sfogato la sua rabbia su di me, sui miei bimbi, ci ha riportati al nostro paese e ci ha costretti a restare là. I bambini sono rimasti lì perché mio marito ci ha tolto i passaporti e non abbiamo potuto più tornare indietro. Hanno dovuto rinunciare a me perché mio marito mi ha allontanata e io non sono riuscita a fare molto, neanche per il mio bambino malato; che è morto.

Così sono tornata in Italia, per trovare un lavoro e portare i miei figli con me. Pensavo ai miei bimbi e dicevo: «Speriamo un giorno di poter farmi una vita con loro» e andavo al mercato e  compravo le cose, immaginando quando sarebbero stati qui.

In Italia ho conosciuto una bimba, dove lavoravo, che è stata come una mia bimba. I bimbi piccoli sono tutti angioletti, quando incontrano una persona con il cuore grande, la riconoscono subito. Quando arrivavo mi correva incontro e quando cucinavo mi fermava e mi chiedeva di abbracciarla. Le cantavo le mie canzoni, come facevo una volta.

Sono stata due anni senza vedere i miei figli. Quando ci siamo incontrati ho dovuto farmi forza, mi guardavano come una persona straniera, non come una mamma. Poi, pian piano mi sono avvicinata a loro e abbiamo cominciato a riconoscerci. Sono andata e tornata parecchie volte, per loro, ho ottenuto il divorzio e l’affidamento, per averli con me. In questo modo, però, ho perso tutti i miei lavori ed ora non posso più pensare ad una casa per loro. Quando non ce la faccio più, quando mi sento che sono qua a far niente, scappo. Vado là e me li guardo. Sono diventati marocchini, ora non ricordano neanche più. Qualche volta ci vediamo, mangiamo fuori. Andiamo al mare, porto il cestino e ci divertiamo un po’. Me li guardo.

Ora mi dico speriamo che tutti i bambini che nascono in Italia abbiano, prima o poi, la cittadinanza. Ho fatto tanto per portare di nuovo qua i miei figli, ma non hanno il passaporto, non hanno niente. Io sono qui per loro e, alla fine, loro qui non potranno venire mai. Qui, dove sono nati. In Marocco dicono sono italiani, in Italia dicono “no”; sono persi, non hanno niente. E io continuo ad andare e venire, come una matta, spendendo quel poco che guadagno per vederli; poi, il giro ricomincia.

Quando ero piccola, ero birichina, ma non ho mai provato tristezza. Scappavo a giocare, ero sempre allegra, senza problemi. A Rabat, mia zia diceva fai questo e, se non lo facevo, mi picchiava. Mia madre non mi picchiava mai.

Mia madre è stata una persona con problemi grandi e ha avuto la forza di affrontarli, sempre. Io, invece, a volte, sento di non farcela più.

Siamo andati nella montagna del villaggio, con i miei figli: si sale, si sale, poi mangi, stai lì e ti guardi intorno; ed è una meraviglia.