Paola e il Paradiso

Paola_Paradiso_4PATRIZIA GHIGLIONE (a cura)

Scemi come una micca, eravamo, figurati. Ma siamo andati avanti finché abbiamo potuto. Adesso, sono 51 anni che vivo qui. Ma sono tanto contenta di questo lavoro che ho fatto nella vita che non riesco a spiegarlo a nessuno. Che vorrei dire: «Fate quello che volete nella vita ma fate il lavoro che vi piace, ché vivrete bene». Mi è piaciuto fare questo lavoro più di tutto. Avevo 24 anni, era il 1962. L’Italia si stava già riprendendo, una bottiglia di vino costava 180 lire, il caffè 30 lire. Che poi, nessuno prendeva il caffè, al mattino. Non si usava mica. Prendevano un marsalino, o un vermouth. Del resto, c’erano quattro cose, non avevi problemi a servire, compravi quattro bottiglie e li avevi già bell’e che serviti tutti.

Io vengo dalla Piana di San Quintino. Non c’era niente, allora, là. Per fortuna c’era quella che aveva l’osteria, che era una simpaticona; mi ha fatto imparare tante cose, quando andavo a lavorare da lei. Mi sono detta: «io voglio fare quello». Lo dicevo anche a mia madre, voglio prendermi un ostu, quando sono grande. Quelle volte lì lei mi rispondeva: «devi ancora farti prete, prima di diventare papa. Cosa ti sei messa in testa». Io, invece, vedevo quella signora tutta ben messa e le nostre madri con le soche nei piedi, e non avevo dubbi, io volevo essere come quella lì. E ho fatto tanto, che l’ho fatto. Tanto che quando hai una cosa nella mente, continui a pestare lì.

Quando mio marito mi ha proposto di rilevare questo locale, ero la più felice del mondo.

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Una volta non si diceva bar, era un ostu. Una volta nei paesi c’erano gli ostu, che erano anche delle trattorie. Macché bar, non si sentiva. Avevano poi messo questo bar-dancing qui, che allora io avrò avuto 15 anni. Ero venuta a ballare qui, mi ricordo finché vivrò, era il 15 agosto, tranquilli come un papa eravamo, contenti: avevamo scoperto l’America.

Poi, quando più tardi i proprietari volevano cedere e ci hanno chiesto se volevamo prenderlo noi, mio marito ha detto: «magari lo prendiamo», ecco, quella volta lì mi sono sentita una regina. Da allora sono stata contenta sempre. Era il ’62, era il bar-dancing Paradiso, era già così come adesso. Non si è mossa neanche una briciola. Neanche io mi sono mossa più, da qua dentro: non si può mica lasciare una casa che è la stessa cosa della vita, sarebbe come decidere di morire.

Da subito davamo anche da mangiare, davamo merende sinoire, davamo tutto. Tutta la notte. Dalla finestra c’era un taglio nella rete, un’apertura; aprivamo la finestra, fuori giocavano a bocce e noi, tutta la notte facevamo panini: di pomodori, di cosa c’era, tutta la notte. Facevo cuocere uova, non so cosa non facevo; di tutto. Per questo era proprio il mio affare.

Poi mi sono comprata una vesta. Quando mi sono comprata il primo vestito, dopo, mi sono detta: «stanotte vendo panini tutta la notte. E faccio ballare tutta la notte». Tanto ero contenta. Da allora, ogni volta in cui mi sono comprata qualcosa, mi è venuta voglia di lavorare di più. Un gusto di lavorare che non finiva mai.

A volte vado a prendermi due legni là dietro, nel retro, e passo di lì. Lì trovo le foto dei miei clienti, là c’è il ballo.. sento fino ancora suonare tanto che mi piace, tanto che mi è piaciuto. Perché è stata una vera allegria. Devi aver voglia di lavorare, certo, e non devi aver voglia di andare in un altro posto, perché ti piace lì. Come mi è piaciuto.

Anche adesso, per esempio. Vado dappertutto ma ogni due o tre ore io devo tornare qui, che veda il mio posto. Quando mi alzo, al mattino, mi dico: «Ohmi, signore, fammi stare qui ancora per tanto tempo». Perché è bello. Io dico sempre ai miei amici: «Speriamo che il signore mi faccia la grazia che io mi trovi morta qui».  E come questo dancing, mi piace farlo vedere come una nonna il suo nipotino. Non c’è il mio sangue che scorre da qualche altra parte; tranne che qui. Il silenzio di oggi, pazienza. Per me è uguale, io non sono mai sola. Io non ho paura, qui. Gioco a carte al bar, poi vengo a casa, attacco la TV dove ballano e poi, via a cantare. Proprio da matta. Guardo “Cantando e ballando” e mi rallegro. A squarciagola.

A ballare, ancora non tanto tempo fa, anche dopo che è morto mio marito, sono andata dappertutto: dove c’era una sala da ballo, c’ero io. E non ballavo mica, perché se non hai un accompagnatore non balli, in questi posti qua. Ma la musica mi piaceva sempre. In passato, sì che ballavo. Al dancing, a fine serata dicevo a mio marito: «io vado a ballarne due. Se non vuoi che portino via il banco, fagli la guardia perché io vado». Ne ballavo due, alla fine, e.. ah come ero contenta. Ma che bella che è stata la mia vita, di un lavoro che ho fatto bello.

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Arrivavano qui senza chiamarli. Non abbiamo mai fatto un manifesto, niente. Man mano che ci conoscevano, la gente veniva, mai fatto una reclam, mai. Venivano da fuori, dappertutto meno che da Bastia. Arrivavano anche da Torino: pescatori che alla sera venivano a ballare. Perché il fiume ce l’abbiamo proprio di fianco, due passi e sei lì. È salito di un metro, qua dentro, nel ’94, era tutta acqua. Ma la gente era talmente attaccata a noialtri che abbiamo tolto insieme la pata (il fango) e al pomeriggio si giocava già a carte, qua dentro. E io facevo il caffè con la moka. Non avevamo proprio paura di niente, non so, la nostra era una famiglia. Dal ’62 al ’94, erano già passati troppi anni, la gente ormai aveva fiducia. In trentotto anni, non abbiamo mai chiuso, si ballava da ottobre a maggio, gli altri mesi carte, bocce, merende sinoire. Tutti i gestacci del mondo li abbiamo fatti, i clienti e gli amici erano gli stessi. Perché quelli che venivano qui erano talmente affezionati. Io facevo anche la crocerossina, praticamente. Andavano dal medico e lui gli diceva: «andate da Paola, prendete il caffè e lei vi fa l’iniezione». E si faceva. Avevo uno scatolone con tutto: medicine, cerotti, non cerotti, calze da donna … perché si bucavano le calze e poi non volevano più andare di là a ballare. Allora, se uno si spelava, lo medicavo, mettevo il cerotto, se… Non so dire cosa non gli ho dato, delle mie robe. Una volta anche un paio di scarpe, che erano lunghe così. Eppure la signora ha ballato tutta la sera, con quelle scarpe lì. A un mio cliente, ne ho fatte seicento, di punture; era talmente malato, che non ci mollava più. A proposito di punture, questa è una bella da raccontare. C’erano due amici, anziani, che avevano bisticciato. Uno aveva la flebite e mi ha chiesto se gli facevo una puntura nella pancia. L’altro, prende anche lui la flebite e anche lui arriva con la puntura. E ognuno dei due era contento che facessi la puntura all’altro, quasi fosse una meritata punizione. Come i bambini. Eh, le meraviglie da contare sono tante. Una volta, io ero giovane allora, arriva un signore in un motorino con il cestino dietro. Era un signore già di una certa età e nel cestino aveva un bel mazzo di rose. Porta sto’ mazzo di rose, tagliate in qualche cespuglio per la strada, le posa sul banco e mi dice: «sentite, io vi ho portato questo, ma non fatevi illusioni, eh? Non fatevi poi delle idee». Pensa se adesso sentiresti mai di un fatto del genere. Adesso ci sono tutte cose speciali, ma come erano semplici, alla buona, le persone allora, oggi ce le sogniamo. Si raccontava ciò che si doveva, nel bene e nel male. Ho vissuto e visto talmente cose qui, che ho capito parecchio della vita. Bisognerebbe sempre vivere almeno dieci, quindici anni in una sala da ballo.

Come gli uomini. Già da come si apriva la porta quando entravano, sapevo già chi e con chi erano, se era sua moglie o no. Perché se era la moglie, la chiudevano nella porta. Lì c’è una molla che, se la lasci andare, tac, ti arriva sul naso. Se era quella che, o doveva essere, o sarebbe stata, figurarsi! Tanto di porta davanti e di dietro, tenevano. Le donne, come tutti gli altri. D’altra parte, se c’è un incrocio di una nottata, c’è sempre anche una donna: un uomo solo non c’è mai, nell’incrocio. Una volta c’erano i bigliettini. E io li portavo. Mettevo bigliettini nelle tasche a tutti.

Ho visto anche tragedie sfiorate. Il pazzo che arriva a cercare la moglie che lo ha lasciato e poi è venuta qui a ballare con un altro. Lo blocco con un pretesto e intanto il mio allarme arriva nella sala: il cameriere, blimblanava nella sala con il mio biglietto sotto al cabaret; mentre io intrattenevo. Una tragedia sfiorata, proprio. Ricordo una signora pallida come uno straccio entrare nel bar mentre il marito, in sala, ballava con un’altra: non toccava più i piedi in terra, tanto che ballava. Il bello di quello era proprio quello: non credere che il mondo sia diverso da così.

Se vivi in mezzo alla gente, di cose ne impari. Se non vuoi impararle, non le impari neanche lì, ma se vuoi.

Da piccola mi sarebbe piaciuto studiare ma non c’è stata nessuna possibilità, figuriamoci. Però ho sempre studiato per valorizzarmi: ogni volta che mi entrava una parola, non mi usciva più. Certo, erano parole che sentivo dire dagli altri. Letto non ho mai letto niente. Mia madre non comprava mai niente, mai nessun giornale. C’era una mia amica che comprava “Gioia”. C’era Giulietta e Romeo, che era a puntate e pagavamo una volta a testa. Pensa a che punto. E allora, cosa vuoi imparare?

Ho imparato dalla televisione. Quando c’è qualcuno che parla bene, a me piace. Mi scrivo le parole che dice, mi faccio tutti bigliettini: non ha ancora finito di dire che io, zac, l’ho già scritto. Perché ho paura di non ricordarlo, tanto che mi piace.

Se fosse stato per me, a parte il lavoro della mia vita, io mi sarei innamorata delle parole.

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