Gli scritti d’inverno di Marina Minet

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TERESA ARMENTI
Chi giunge in Basilicata è subito attratto non solo dalla varietà del paesaggio che va dalla montagna alla collina, dalle valli ai calanchi al mare, ma anche dai volti rugosi e ostili della gente, dai lunghi silenzi che pervadono la terra.
È il caso della poetessa di origini sarde Marina Minet, che rimane affascinata “dalle fresche acque gorgoglianti e dai panni stesi” tra gli stretti vicoli, protesi in una danza ritmica; si lascia condurre dal crepitio del vento; trafigge con lo sguardo i calanchi che diventano “mammelle accovacciate senza figli”; si incunea tra gli anfratti popolati da corvi neri; posa lo sguardo “sui rosari annodati lungo i polsi” delle vecchiette e sul Sinni, disteso nella valle “come il seno di una vecchia”. Se ne evince altresì un forte desiderio di appartenenza come è possibile leggere nei versi di “Potessi appartenerti” “Potessi appartenerti, terra/ meriterei un ricordo, la tregua in fondo agli occhi/ e un treno per tornare senza voltarmi indietro”.
Le sue sensazioni prendono forma nella raccolta Scritti d’inverno che nel 2015 è risultata vincitrice del Premio Letterario Nazionale “Città di Taranto”, organizzato dall’Associazione Culturale “Le Muse Project”.
La silloge, di 64 pagine, si avvale dell’articolata prefazione di Anita Nuzzi e comprende tre sezioni: Dialogo alla Terra, Il vero o il nulla, Sui treni di Auschwitz. Al primo sguardo sembrano tematiche distaccate tra loro, ma c’è un filo conduttore che li unisce. Ci troviamo di fronte ad una spiritualità profonda, indagatrice, che dai graffiti nella natura passa alle ferite dell’anima e alle macerie dell’umanità calpestata.
Potrei definire Marina Minet “l’archeologa dell’anima”: archeologa dell’anima della Terra che la ospita; una terra che ha distrutto con ferocia la sua umanità “mai sazia di sepolcri”.
Ogni verso porta il lettore a sostare in silenzio, meditando in cuor suo soprattutto al sopraggiungere della sera di foscoliana memoria quando, accomiatandosi dal mondo, fa i conti con sé stesso. Ogni pagina può essere considerata anche terapeutica per chi sappia comprenderne il messaggio metaforico.
La Lucania è una Terra “di avara confusione, che fa male, come un lutto”, per l’abbandono dei suoi figli e l’apatia di chi resta, ma è anche un “luogo di imponenza solitaria”, di cui ci si innamora solcando i sentieri e meditando sul valore della vita.
L’anima si infiamma e significati reconditi si dischiudono alla mente. L’uomo viene allo scoperto con tutte le sue contraddizioni tra luci ed ombre, piegandosi lentamente fino alle buone membra della Terra. La ricerca della verità è un’inseparabile compagna di viaggio e la crisi esistenziale si manifesta con le sue ombre più o meno dolorose, con le sue agostiniane inquietudini, con le sue incandescenze emozionali.
La sofferenza permette di cogliere le penombre della vita e riempie il cuore di una nuova sensibilità; nello stesso tempo è la chiave di accesso alla conoscenza dell’Altro da sé, capace di dare luce al lato d’ombra, tra preghiere e richieste di perdono. È il dolore dell’anima, che ha bisogno di essere ascoltato, per coglierne le radici di senso. Le ombre della vita sono cartine di tornasole, che aprono al dialogo con la realtà psicologica e umana.
La sua casa è la coscienza: il bagliore sotterraneo e si inalbera così, “come una piuma in gabbia, come la sabbia in frana, come i lampioni che spazzano l’oscuro e al chiaro si conducono domani”.
Dall’immersione nei recessi dell’anima emerge volgendo lo sguardo al cielo in cerca di risposte, ma “gli astri ostentano” solo “splendore e non sanno dire” niente sulle utopie che diventano “sculture sbriciolate”. Si trova immobile nel deserto della speranza e nella dissolvenza dell’attesa.
Due fari: Isabella Morra, la poetessa del Cinquecento, vittima di femminicidio, e Edith Stein, la prima martire cattolica di origine ebraica, vittima della Shoah, segnalano la via per riconciliarsi con Dio, rendendo luminosa la notte oscura dell’anima nella consapevolezza che “per ogni Cristo un Giuda muore e per ogni Giuda un Cristo piange”.

Stefania Lubatti, Il pettirosso

Stefania Lubatti, Il pettirosso

Potessi appartenerti

Potessi appartenerti, terra
meriterei un ricordo, la tregua in fondo agli occhi
e un treno per tornare senza voltarmi indietro.

Terra che non piangi, sul banco del macello
non diffidare mai di queste braccia
per le proteste mute che avvolgono d’inverno.

Ho visto le stagioni offrire la pietà ai rami in decadenza
e il grigio delle nubi cadere sopra i palmi dei bambini
come una preghiera
e ho visto facce scansare la ragione
attese fermate nella gola come spine
e il fango della lingua coprire anche le idee.

Potessi appartenerti
come la polvere che vigila le strade
riposerei in disparte – ai margini del vento –
sicura d’invecchiare.

Tu sei la terra che aspetta le radici.
La gola che divora l’agonia
e il volto dei calanchi icarna ogni perdono
quando le nostre labbra si schiudono nel Sinni
disteso
come il seno di una vecchia.

da: Marina Minet, Scritti d’inverno, Print Me s.r.l. Taranto, 2017

(La pubblicazione di questo libro è il premio riservato al vincitore del Premio Letterario Nazionale “Città di Taranto”, 9ª edizione 2015, sezione poesia, organizzato dall’Associazione Culturale “Le Muse Project”, http:\\premioletterarionazionalecittditaranto.wordpress.com)