28. Parole, parole, parole (William Shakespeare, Amleto, Atto secondo, Scena II)*

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DINA TORTOROLI

Chi ha “alte cose da rivelare” indubbiamente è afflitto e frenato dal “bisogno di misurare l’intelligenza di quelli a cui saranno rivelate”, ma è ancor più doloroso e paralizzante dover constatare quanto sia  improbabile che i proprie pensieri vengano compresi dagli altri, quando si è ancora bambini.
Io ne ho fatto la prima, traumatica esperienza, il giorno di Natale del 1943, e, a grado a grado,  il dover essere “sospettosa” dei giudizi altrui ha condizionato il mio modo di vivere.
C’era la guerra ed ero “sfollata” insieme con mio fratello Pier Giorgio, di sette anni, presso la nostra nonna materna,  la ligure – quindi  “furèsta”– “méistra vécia” di Baselica di Borgo Val di Taro (non un paese, ma una località in cui quasi tutte le case erano circondate dai rispettivi “poderi”, cioè piccoli campi di grano e mais, strisce di prati e vigne e, nella  parte più alta, boschi di castagni e di faggi).
Avevo ottenuto di andare insieme con  “la mia Tia” alla “Prima Messa”, invece di partecipare con due mie cugine alla “Messa cantata”, come accadeva normalmente, la domenica.
La Tia non era una zia; era una persona che si occupava di tutte le faccende di casa e viveva “con la maestra”, inopinatamente rimasta vedova.
Da me la Tia sapeva farsi voler bene come fosse una mamma e io cercavo di passare con lei più tempo possibile.
Fu emozionante quel nostro uscire furtivo – la casa dormiva –  e poi camminare vicine, noi due sole, in uno strano chiarore che proveniva dalla neve su campi e alberi più che dal cielo.
La chiesa era vicina in linea d’aria, mentre la strada per raggiungerla, tutta in salita, non era corta,  né agevole, ma – come avevo detto e ridetto per ottenere il permesso di alzarmi alcune ore prima del solito – ormai “ero grande”: mancavano soltanto quattro mesi al mio sesto compleanno e da tre “andavo a scuola”, percorrendo tutti i giorni quella stessa strada, perché la mia classe era “ospitata” in una stanza della canonica. L’aria sarebbe stata più fredda, lo ammettevo, ma avrei potuto affrontarla tranquillamente, perché ero “ben coperta”.
Infatti, con le pelli bianche dei conigli che la Tia era stata incaricata di acquistare dai contadini che l’avvisavano le rare volte in cui ne cucinavano uno, mia madre, dopo averle fatte “conciare” da un artigiano, a Parma (da dove lei e mio padre non si erano allontanati, a causa del loro lavoro), aveva fatto realizzare per me, “dalla Signora Ronchini” dalle favolose “mani d’oro”, un cappottino, un cappuccio e un manicotto, da appendere al collo con un cordoncino di seta.
L’ “arciprete”, don A. T., nel periodo natalizio, al termine di ogni cerimonia, era solito far baciare a tutti i fedeli la statuetta del bambinello Gesù, lunga poco meno di un bambino vero, alla nascita.
Il neonato era sdraiato in un cestello di vimini, con le braccia allargate e le manine protese verso i visitatori, come se volesse essere preso in braccio; la gambetta sinistra, stesa sul fondo del cestello, sembrava che desse la necessaria spinta alla destra, rialzata, col piedino teso in avanti.
Al bacio dei fedeli, allineati lungo la balaustra del Presbiterio sopraelevato, don T. presentava proprio quel piedino nudo.
Durante la predica, quella mattina, additò spesso il Bambinello, che indosso aveva soltanto una corta camiciola, ma  sorrideva, anziché piangere per il freddo; e, puntando poi l’indice verso gli uomini, li rimproverò, per la loro abitudine di imprecare contro la miseria avuta in sorte.
Avrebbero, invece, dovuto imparare a pensare a chi aveva meno di loro; avrebbero dovuto diventare più caritatevoli, più buoni.
Anche le donne avrebbero dovuto diventare più compassionevoli: non sentivano tutti – donne e uomini – la necessità di coprire quel Bambinello seminudo? Avevano dimenticato le “sette opere di misericordia corporale”?
Ebbene, dal momento che a nessuno di loro mancavano “panni” contro il freddo, si ricordassero della terza: “Vestire gli ignudi”!
Guardando verso i banchi di sinistra – i banchi degli uomini – io constatai che tutti gli occupanti erano ben imbozzolati dentro il loro “tabarro”.
Nella fila di destra, le donne avevano tutte un lungo “pastrano” e scialli di lana sulle spalle, e intorno alla testa e al collo.
Veramente, nessuna delle persone presenti in chiesa era poco coperta, quindi – pensai – al momento del bacio del piedino ci sarebbe stata una straordinaria gara per soccorrere il Bambinello.
Volevo proprio vedere come avrebbero fatto a partecipare tutti, dal momento che in ogni banco sedevano in tre (gli uomini) e in quattro (le donne) e i banchi occupati erano sei nella fila delle donne e sette in quella degli uomini.
Forse avrebbero usato quei grandi fazzoletti di cotone a righe e riquadri, per lo più  sui toni del blu, che  –  come avevo notato il giorno della sagra, la prima domenica di agosto – gli uomini annodavano al collo, e le donne tenevano ripiegato, in mano, intorno al borsellino col denaro.
Con le cocche diagonalmente opposte strettamente allacciate tra loro, quei fazzolettoni –  il giorno della sagra –   diventavano contenitori di ogni acquisto fatto alle bancarelle.
Però, calcolai che al massimo i primi dieci  (cinque ben sistemati al disotto delle sue braccia, e cinque sopra) avrebbero potuto coprire il Bimbo, lasciando spuntare la punta del piedino da baciare, ma gli altri sarebbero senza dubbio caduti.
Come sarebbe stato risolto il problema?
Anziché andarmi a inginocchiare anch’io alla balaustra, mi fermai nell’estremo angolo destro, in piedi, per non perdere neppure un dettaglio di quell’inimmaginabile scena.
Non ci fu nulla di insolito da vedere: soltanto visi di donne e uomini, protesi uno dopo l’altro, per un attimo, a sfiorare il piedino nudo del Bambinello.
Quando anche l’ultimo uomo si fu allontanato dalla balaustra e il sacerdote ritornò a destra, per porgere anche a me –  finalmente in ginocchio –  il cestello col Bimbo sdraiato, mi resi conto che proprio nessuno gli aveva dato ascolto, e “vestire gli ignudi” era diventato compito mio, anche se i bambini non erano mai stati nominati durante la predica.
Mi sfilai dal collo il manicotto, lo sistemai tra le braccia aperte  del neonato, con cautela, temendo che scivolasse a terra, poi alzai gli occhi e vidi il largo sorriso di compiacimento del predicatore. Indimenticabile.
Tutt’altro che sorridente era invece la mia Tia, che si considerò obbligata a chiedere indietro il manicotto, costato tanto dispendio di energie a mia madre e a lei.
Non lo ottenne e non riusciva a rassegnarsi all’idea di riportarmi a casa senza lo scaldamani che a me sarebbe stato utile, mentre non poteva certamente esserlo a una statuetta.
Cercai di tranquillizzarla, ricordandole che se si stabiliva di considerarla un bambino vivo, ci si doveva comportare come se lo fosse davvero. Lo capivano anche i bambini di pochi anni.
Pier Giorgio e io lo avevamo sempre fatto: lui aveva Gigi e io Ninetto, e bastava osservare le fotografie che il nostro papà ci aveva scattato  l’anno prima, per vedere che noi tenevamo in braccio i nostri piccoli, badando che – proprio come noi due – anch’essi “guardassero” chi li stava fotografando.
E poi, anche lei aveva ascoltato la predica, quindi sapeva che, proprio come un maestro dà un compito ai suoi scolari, l’arciprete aveva chiesto a quelle persone poco caritatevoli una piccola rinuncia, per far loro capire che tutti possono, se lo vogliono, essere d’aiuto a chi ha più bisogno.
In ogni modo, quel manicotto io lo avevo donato, perciò non lo volevo più e non avrei mai più permesso a nessuno di appendermelo al collo.
Così fu, e mia madre mi chiamò “ribelle”, mentre io ero molto più delusa e addolorata di lei, dal momento che, non so da chi, quell’indumento era stato riportato alla mia nonna.
Probabilmente lei lo avrà poi regalato a una sua scolaretta, ma io non ne so nulla, perché non ne volli mai più parlare.
A che scopo parlare?
Le parole dell’uomo più autorevole del paese  nessuno le aveva prese sul serio e lui stesso le aveva tradite.
Quanto alle mie, evidentemente non venivano capite neppure dalle persone che dimostravano quotidianamente di volermi bene.
Nell’autunno dell’anno seguente, Pier Giorgio e io fummo riportati in  città.
Frequentavamo la stessa scuola in cui nostra madre insegnava: la Pietro Giordani, ospitata negli ambienti sotterranei del monastero di San Paolo, contigui a quelli adibiti a “Rifugio-antiaereo” per tutta la popolazione. (Su un muro dell’edificio a sinistra del cancello d’ingresso se ne vede ancora la freccia direzionale e la dicitura “R N° 11/ S. PAOLO  POSTI N° 1000”).

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Nel ritornare a casa da scuola, appena imboccata la Via XXII Luglio, in cui allora abitavamo, era impossibile sfuggire all’ingiunzione, impressa in nere gigantesche lettere in stampatello maiuscolo, su una striscia verticale di una parete esterna, priva di finestre, della prima casa all’incrocio con Borgo Santa Chiara: «TACETE / IL NEMICO / VI ASCOLTA».
Avevo l’impressione che gli adulti immaginassero nemici dappertutto.
Infatti, a scuola ci veniva spesso detto molto severamente che gli scolari non dovevano “parlare”; dovevano soltanto “rispondere”, quando erano interrogati dall’insegnante.
Era anche proibito fare commenti mentre si rispondeva: si doveva sempre e soltanto dimostrare di sapere utilizzare il “Sussidiario” che forniva le risposte “giuste”, come se fosse stato un “Catechismo”.
Fortunatamente, il 13 dicembre, “giorno di Santa Lucia”, a Parma era giorno di regali per i bambini, anche in tempo di guerra.
Santa Lucia, a Parma, era preferita persino alla befana, perché non faceva distinzione fra bambini buoni e bambini cattivi: aveva un dono per tutti, e tutti gli scolari portavano con sé, in classe, quello che avevano ricevuto e lo mostravano agli altri con gioia, anche se era una povera cosa.
Il 13 dicembre 1944, il regalo di Santa Lucia che io sfilai dalla mia cartella suscitò più stupore del coniglietto estratto dal cilindro di un prestigiatore: un libro!
Ebbene, mentre alzavo a due mani – perché tutte le mie compagne potessero vedere – “Limpido Rivo / Prose e poesie di Giovanni Pascoli presentate da Maria ai figli giovinetti d’Italia”, io non potevo saperlo, ma stavo celebrando l’alba di un’epoca nuova della mia vita.
Infatti, da quel giorno non soffrii più per la mancanza di un autentico rapporto sia con gli adulti sia con i coetanei.
La speranza di poter condividere emozioni, esperienze, pensieri era morta sul nascere, ma  con quel libro io potei dialogare ogni volta in cui ne sentivo il desiderio.
Io mi affezionai veramente a quella voce così pronta a ogni chiamata.
Io interrogavo e niente restava senza risposta: quel fanciullino condivideva l’ansietà che mi creava il pensiero della morte, della fame, del male e del bene, persino del “Mistero” dell’Universo. E interpretava con amore tutto il mio mondo: terra e cielo, la casa-nido, prati e fiori, sole e nuvole, lampi, tuoni, pioggia, neve.
Dire che di moltissime sue parole non conoscevo il significato è persino superfluo, ma oggi mi accorgo dell’importanza che ebbe per me evitare di chiedere spiegazioni e continuare a leggere e rileggere secondo un ordine dettato dalle mie esigenze, aspettando che venisse il tempo in cui  avrei capito di più, in relazione alle nuove esperienze e conoscenze.
Finita la guerra, e la “ricostruzione”, nella sala di lettura della Biblioteca Palatina trascorrevo interi pomeriggi e la mia vita diventava più bella.
Non era raro che io sentissi qualcuno dire di me: “Le piace leggere”.
Avrebbe dovuto dire: “Ha bisogno di leggere”.
Soprattutto avevo bisogno di rileggere, e ritornavo ai libri per me più importanti, come un antropologo ritorna presso le popolazioni primitive di cui studia la cultura.
Di più: quando conobbi Naven, in cui l’antropologo Gregory Bateson descrive il «metodo etologico», che gli permetteva di «estrarre da una cultura un certo aspetto sistematico, l’ethos, che possiamo definire come l’espressione di un sistema culturalmente standardizzato di organizzazione degli istinti e delle emozioni degli individui»** io mi resi conto di avere sempre avuto coi libri un “approccio etologico”, dal momento che a me interessava in modo particolare ritrovare il “tono” del discorso, l’“atteggiamento emotivo”, che mi permettevano di “riconoscere” l’autore, come si riconosce la voce di un amico.
Ricordo con quanto piacere constatai, almeno una volta,  che uno studioso di professione dimostrava di aver fatto un’esperienza di lettura “etologica” simile alla mia. Infatti, nell’ Introduzione alle Poesie latine del Pascoli, Manara Valgimigli scrive: «Si dice che l’Hartman [uno dei giudici dei componimenti latini, inviati nell’anno 1912 alla “gara annuale e internazionale di poesia latina della Accademia di Amsterdam”]  quando, leggendo Thallusa, giunse al verso flet Thallusa canens aeque memor immemor aeque, senza riflettere che così dicendo, anche se per sola congettura, rompeva il silenzio sul nome del poeta, esclamò: – Ma questo è Pascoli – »***.
Un’esperienza inquietante fu, al contrario, quella che vissi nel 1955.
L’ho già riferita ai lettori di Margutte, ma è bene che io ne riparli, dal momento che è all’origine dell’indagine di cui sto dando un resoconto “a puntate”.
Avevo 17 anni, ero “sopravvissuta” alla guerra, perciò ascoltavo con profonda commozione Adelchi, il principe longobardo morente, che – in tono di profezia – dice al padre Desiderio,  Re sconfitto: «[…] ascolta. / Gran segreto è la vita; e nol comprende / Che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno: / Deh! Nol pianger; mel credi. […] Godi che Re non sei, godi che chiusa / All’oprar t’è ogni via: loco a gentile, / Ad innocente opra non v’è: non resta / Che far torto o patirlo. Una feroce / Forza il mondo possiede e fa nomarsi / Dritto: la man degli avi insanguinata / Seminò l’ingiustizia: i padri l’hanno / Coltivata col sangue; e ormai la terra / Altra messe non dà […]»****.
Mai e poi mai avrei potuto credere che il creatore di Adelchi fosse la stessa persona che aveva sentito il bisogno di comporre un “cantico” in onore di Napoleone “fulmine di guerra”, il cui “regno” equivaleva a  «un premio [!] / Ch’era follia sperar».
Sono ancora ben convinta che non può uno stesso uomo rivelare due opposti “sistemi di pensiero”.
Ecco il motivo per cui dedico ancora oggi il mio tempo alla ricerca dell’ “assente possibile” cui restituire quanto può appartenere soltanto a lui; e d’ora in poi dovrò servirmi proprio di “parole” delle così dette “prime versioni” delle opere “manzoniane”, smentite sempre più clamorosamente nei numerosi “rifacimenti”, che rivelano la “fisionomia” di una persona che ha un diverso “ordine delle cose che le stanno a cuore”.
Ma i lettori di Margutte non devono temere di essere coinvolti in un’avvilente denigrazione del Manzoni: la mia regressione all’infanzia e all’adolescenza ha lo scopo di far conoscere le mie profonde motivazioni.
La mia “socializzazione primaria” non ci fu e del tutto anomala è stata la “socializzazione secondaria”, ma non ho la tendenza a offendere: io posso ripetere, come fossero le mie, le parole di Marguerite Yourcenar: «Ogni essere che ha vissuto l’avventura umana sono io»*****.

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* La tragedia di Amleto / Principe di Danimarca / di William Shakespeare / Versione italiana di Luigi Squarzina / Introduzione di Silvio D’Amico / Note per la regìa di Vittorio Gassman e Luigi Squarzina, Licinio Cappelli Editore, Bologna, pp. 230 e 249 (Note alla regìa: 1)Premessa / 2) La scena e i costumi, p. 73 (Atto secondo, Scena II.)

**Gregory Bateson, Naven / Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1985, p. 113

***Ioannis Pascoli, Carmina, Arnoldo Mondadori Editore, 1951, p. XXXVII

****Adelchi, Atto quinto / Scena VIII (Wikisource)

***** Marguerite Yourcenar, Opere, Classici Bompiani, 1986,Memorie di Adriano – Taccuini di appunti”, p. 561,