Le parole per ricordare l’orrore

Auschwitz

STEFANO CASARINO

Da diciotto anni è stato istituito nel mondo il Giorno della Memoria, con la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 in occasione del 60° anniversario della liberazione del lager di Auschwitz, 27 gennaio 1945. In Italia c’era già stata in precedenza, cinque anni prima, la legge 20 luglio 2000 n. 211: in questo testo compare il termine shoah e vengono esplicitamente previsti momenti di riflessione da dedicare a ciò.
Vorrei proporre qui proprio una serie di riflessioni sui termini, sulle parole, perché sono convinto che esse siano essenziali e che una seria educazione al significato e all’uso corretto delle parole sia anche e soprattutto una seria educazione etica e civica.
Cominciamo con shoah, di impiego relativamente recente, termine ebraico che significa tempesta devastante. Lo troviamo in Isaia, 47,11, riferito alla distruzione di Babilonia: quello è un testo altamente letterario, altisonante, contiene la profezia di un’apocalisse che Isaia attribuiva a Babilonia e che invece nel Novecento si è rovesciata su Israele stesso. Prima era maggiormente utilizzato il termine olocausto: dal greco ὁλόκαυστος, che significa bruciato integralmente, detto della vittima sacrificale. Lo troviamo spesso impiegato in Genesi 22, nel celeberrimo episodio del sacrificio di Isacco.
Per questo tipo di sacrificio, occorre una vittima (di solito un animale, un agnello o un capro) e del fuoco, perché la vittima deve essere uccisa e integralmente bruciata. Nel Novecento un intero popolo è stato il “capro espiatorio” di tutta l’umanità, la vittima “consumata integralmente” in nome e per conto di tutti gli altri, e qui non è intervenuta nessuna voce dall’alto a impedire questo olocausto; la fortunata sorte di Isacco, il miracolo della salvezza, non si è ripetuto.
Torniamo alle nostre riflessioni terminologiche e affrontiamone altri due. Antisemitismo è un termine coniato nel 1879 a Berlino da Wilhelm Marr; in precedenza, però, si parlava di antigiudaismo, sia tra i pagani che tra i cristiani: e qui c’è una lunghissima storia, che va da Tacito all’istituzione dei ghetti. Il primo fu a Venezia nel 1516, poi a Roma nel 1555 per volontà di papa Paolo IV. Ė anche importante citare il carnevale romano: la corsa dei Giudei apriva i festeggiamenti. Tutti portavano il loro contributo alla persecuzione degli ebrei e alla costruzione di un’immagine moralmente infamante di questo popolo. Fino ad arrivare al palio nel quale correvano ebrei completamente nudi (per l’ebreo la nudità è insopportabile) umiliandoli in tutti modi. Scrive Montaigne nel 1583: “Lunedì i soliti otto ebrei corsero nudi il loro palio, favoriti da pioggia vento et freddo degni di questi perfidi mascherati di fango al petto”.
Dicevamo che per la sensibilità e la cultura ebraica la nudità è insopportabile, possiamo ricordare in merito qualche significato esempio dalla Bibbia:  la vergogna di Adamo ed Evo nell’essere nudi dopo aver commesso il peccato originale (Genesi 3,10;); Cam che vede suo padre Noè nudo e viene da lui maledetto (Genesi 9,22); il brano di Ez 16,37: Ecco, io radunerò da ogni parte tutti i tuoi amanti con i quali sei stata compiacente […]; li radunerò contro di te e ti metterò completamente nuda davanti a loro perché essi ti vedano tutta.
I nazisti sapevano bene questo: difatti, il primo umiliante trattamento a cui sottoponevano gli ebrei all’ingresso dei lager era quelli di spogliarli e farli restare per ore completamente nudi.
Nel 1668 Papa Clemente IX, a seguito delle continue suppliche da parte degli ebrei di Roma per porre fine alla barbara usanza della corsa dei giudei, abolì la crudele consuetudine, a patto che gli ebrei si assumessero gran parte delle spese dei festeggiamenti carnevaleschi e si sottoponessero ad un’ennesima umiliazione: il rabbino e tre anziani dovevano recarsi in Campidoglio a rendere omaggio alla pubblica amministrazione di Roma, inginocchiandosi e pronunciando un discorso di sottomissione al quale si rispondeva con le parole: “Andate! Per quest’anno vi soffriamo” e la cerimonia terminava con un bel calcio nel di dietro al Rabbino.
L’antisemitismo, purtroppo, c’è anche nei geni della letteratura. Bastano due soli esempi: Dante (Par. VI) considera gli Ebrei il popolo deicida e la distruzione del Tempio di Gerusalemme e la diaspora (70 d.C.) sono per lui la giusta punizione per aver crocifisso Gesù; Shakespeare ne Il mercante di Venezia (1596) rappresenta Shylock come l’ebreo che odia i cristiani al punto da voler esser pagato con una libbra di sangue del cristiano che non è riuscito ad onorare il debito contratto entro il termine prescritto.
Dobbiamo riflettere approfonditamente ed anche con un notevole senso di colpa sulla secolare tradizione antisemita della cultura cristiana, tradizione condannata definitivamente in modo esemplare solo da un Papa polacco, Giovanni Paolo II, e in tempi molto recenti;
Veniamo ora al termine più orrendo di tutti: genocidio, lo sterminio di un intero popolo. È una parola d’autore coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotto per la prima volta nel 1944, nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe, dedicato all’Europa sotto la dominazione nazista. L’autore sentì la necessità di creare un neologismo per poter descrivere l’Olocausto; tale neologismo è stato recepito nel diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra.
Va rimarcato che nel Novecento il triste primato cronologico va al “genocidio armeno”, definito l’olocausto dimenticato.
Con tale termine o, talvolta, con espressioni simili (olocausto degli armeni;  massacro degli armeni) si indicano le deportazioni ed eliminazioni di armeni perpetrate dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causarono circa 1,5 milioni di morti.
Il 12 aprile 2015 papa Francesco ha parlato esplicitamente di genocidio, citando una dichiarazione del 2001 di papa Giovanni Paolo II e del patriarca armeno,  dichiarando che quello armeno generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo.
In risposta, il governo turco ha immediatamente convocato il nunzio apostolico ad Ankara e ritirato l’ambasciatore presso la Santa Sede in segno di protesta. La dichiarazione ha anche suscitato una forte reazione del presidente turco Erdoğan che il 14 aprile 2015 ha ammonito Papa Francesco affermando che quando i politici e i religiosi si fanno carico del lavoro degli storici non dicono delle verità, ma delle stupidaggini.
Nel giugno 2016 papa Francesco, durante il viaggio in Armenia, ha utilizzato nuovamente il termine genocidio, scatenando la dura reazione del vice primo ministro turco Nurettin Canikli. Anche l’ex presidente statunitense Barack Obama ha più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milioni di armeni furono massacrati negli ultimi giorni dell’Impero ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti. Il 22 aprile 2015 anche la cancelliera tedesca AngelaMerkel aveva usato per la prima volta l’espressione genocidio armeno.
Tale indicibile massacro è stato celebrato in una delle opere narrative più importanti e impressionanti del Novecento, I quaranta giorni del Mussa Dagh, di Franz Werfel (1890-1945), pubblicato nel 1933, lo stesso anno in cui Hitler diventò Cancelliere, dopo aver vinto regolarmente le elezioni: opera epica, di cui raccomando la lettura e da cui estraggo un passo, relativo alle riflessioni di un religioso musulmano:
Credeva di capire che l’opera di distruzione sulle forze dell’anima supera l’assassinio dei corpi. Non lo sterminio di tutto un popolo era il peggiore degli orrori, ma lo sterminio della coscienza, in tutto un popolo, della sua discendenza da Dio. La spada turca, colpendo gli armeni, aveva colpito Allah stesso. Poiché in loro come in tutti gli uomini viveva Allah, anche se erano infedeli. E chi in una creatura distrugge la dignità, distrugge in essa il Creatore. Questo è l’assassinio di Dio, il peccato che non sarà perdonato sino alla fine dei tempi.
Parole scritte da un ebreo, che con impressionante chiaroveggenza vedeva nella sorte degli Armeni l’anticipazione, la “prova generale” di quello che sarebbe poco dopo toccato al suo popolo, e attribuite ad un musulmano: credo che vadano rilette e meditate, soprattutto oggi, quando ha ripreso consistenza “lo scontro di culture”, il fomentare odio per motivazioni razziali e religiose, il fanatismo intollerante. Tutti frutti della stessa criminale ignoranza della storia dell’umanità e dei valori inalienabili ed essenziali che connotano l’essere umano in quanto tale.
Eppure, oggi corriamo il grave rischio di dimenticare la tragedia di questo passato. Personalmente mi ha molto colpito l’amarezza della Senatrice Liliana Segre – che ho avuto il privilegio di conoscere di persona e che ha onorato Mondovì con una sua visita il 14 dicembre di soli quattro anni fa (2019) – che ha dichiarato: Quando uno è così vecchio come me e ha visto prima l’orrore, e poi, arriva a sentire che si nega addirittura quel che è stato ed è così da tanti anni, dalla fine della guerra circa – a un certo punto, la coscienza si sveglia. E ritiene che fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga sui libri di storia, e poi nemmeno quella […] Il giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei. E anche io fra un poco, toglierò il disturbo, visto che non posso nemmeno salire sul tram che porterà la scritta “Memoriale della Shoah”, perché devo girare con la scorta a causa delle minacce che ricevo.
A Milano, infatti, in questi giorni circolava il tram n°19 con la scritta “Memoriale della Shoah”, dove la senatrice non è potuta salire per le minacce di morte.  Il mio è un pessimismo naturale - continua a dire Liliana Segre nel corso della conferenza stampa - su questo argomento, dopo che le idee, le proposte, le speranze e le iniziative che possono venire da una vecchia come me non vengano accolte con il rispetto dovuto. Capisco che la gente dice da anni ‘basta con questi ebrei, che cosa noiosa’.  Quando uno ha visto l’orrore e ormai ne può parlare solo con 3-4-5 persone al massimo, perché gli altri per fortuna non l’hanno visto, certo che è più noioso degli altri.
Dimostriamo, a lei ma soprattutto a noi stessi e alle giovani generazioni, che non è così: che non si tratta affatto di noia, ma di dovere del ricordo, di commozione, di sdegno e di condanna inappellabile per ciò che esseri umani hanno intenzionalmente voluto infliggere ad altri esseri umani.
Non dimentichiamo mai che oblio e ignoranza sono le prime tappe della disumanizzazione. E ribadiamo in ogni possibile occasione che solo la cultura, lo studio, la conoscenza umile e continua di tutto ciò che è stato e ha fatto l’uomo possono tutelare la nostra fragile, insostituibile, imprescindibile umanità.