La luna in una stanza – Ricordi scolastici

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FRANCESCO BENNARDO

Io la riconosco, la mia ignoranza. Sempre, anche se talvolta mi dà fastidio, perché mi rendo conto che so disquisire approfonditamente solo di pochi argomenti: Storia, politica, alcuni sport, un po’ di letteratura, qualcosa di videogiochi. Stop. Per il resto, sono una specie di tabula rasa. Posso perdermi in complicati concioni (pseudo)filosofici riguardanti il senso dell’esistenza, la natura dell’amore, l’universo delle relazioni, le affinità e le divergenze tra il compagno Togliatti e i CCCP circa il conseguimento della maggiore età, l’importanza dell’utopia nella prassi quotidiana e l’intricato mondo delle turbe mentali di tutte le persone che in trentacinque anni di vita ho degnato d’attenzione, ma non chiedetemi cose più pratiche e terrene.

Ho passato la mia adolescenza tra i banchi di uno sgangherato liceo scientifico chiedendomi in continuazione come cazzo potesse venire in mente a un uomo dotato di cervello e cuore – proprio come noi – di mettersi a costruire quadrati su cateti e ipotenuse; poi mi rendevo conto che lui, Pitagora, avrebbe pensato lo stesso di me se avesse saputo dell’esistenza delle mie idee, delle mie poesie stucchevoli sulle donne, sulla Luna e sull’ineluttabilità della morte. In fondo, la differenza sostanziale tra me e i campioni dell’«edilizia geometrica» è che i miei voli pindarici planeranno esclusivamente nella mia mente, ergo non finiranno mai sui libri di scuola a torturare l’anima ai ragazzi (desiderosi) di vita.

Queste riflessioni non le condividevo con nessuno, perché ero sempre solo; ed anche quando stavo in compagnia, ero comunque solo: solo, con gli altri (“solo con gli altri” o “solo, con gli altri”? Una sfumatura, certo, ma che cambia almeno parzialmente la prospettiva. E poi dicono che la punteggiatura non sia importante: basta aggiungere o togliere una virgola e cambia la valutazione di un’intera fanciullezza, altroché!). Anche il fatto che mangiassi quasi quotidianamente tra le cinque e le otto tavolette di cioccolata al latte non lo dicevo a nessuno, perché nessuno poteva starmi ad ascoltare: ognuno ha i fatti suoi a cui pensare, e poi c’è l’adolescenza che è un periodo cruciale della vita, e poi c’è la tempesta ormonale, e poi ci sono i compiti, e poi chissà cos’altro.

Forse è normale, per uno a cui non piacciono integrali e derivate, paragonare le proprie seghe mentali a quelle di Pitagora: la matematica non è un’opinione, e nemmeno la scienza lo è. Me lo diceva un tizio ieri sera, in un ameno locale in cui la sensazione di disagio che provavo era quantomeno sopportabile. Qualche mese fa, mentre guardavo il cielo di notte con una ragazza (“Oh, che bella immagine, romantica e idilliaca!”, forse qualcuno starà pensando: tutte balle, tutto finto. E d’altronde, non credo che nessuno di voi ingurgiterebbe dello sterco, nemmeno spalmandoci sopra la vostra salsa preferita), mi è stato detto che la luna non brilla di luce propria poichè la sua luce viene riflessa dal sole. Ora, io non è che non c’abbia creduto, però ci sono rimasto un po’ male per tutte le volte che, estasiato, son stato lì a confidarle i miei pensieri e lei non era altro che una cosa buia che brillava solo perché qualcos’altro l’accendeva. Queste cose scientifiche sono una gran fregatura, una minaccia alla fantasia e una delusione per chi ne capisce poco e s’immagina chissà cosa.

Un attimo dopo aver digitato “luce luna” su Google pensai tra me e me: “Ma dai! Ma che liceo hai fatto? Ma di ‘ste cose allo scientifico pure i bidelli in pausa pranzo ne parlavano! Ma non hai assimilato nulla? La matematica non è un’opinione!”. Beh, se è per questo nemmeno l’italiano, e io le ore al liceo le passavo impettito in una posizione antiergonomica e filoscoliotica nel mio banchetto dell’ultima fila a guardare fuori dalla finestra immaginando il mondo visto attraverso i miei occhi, non com’era scritto lì su quei libroni che blateravano di radicali e disequazioni. Io leggevo Le anime morte di Gogol e trovavo descrizioni che mi estasiavano, spulciavo Sostiene Pereira di Tabucchi e capivo veramente il significato delle parole “empatia” e “solidarietà”, imparavo a memoria i versi di Leopardi e mi sembrava quasi di diventare suo amico, sfogliavo Brecht e Ionesco e percepivo la mia fantasia nell’atto di espandersi, poi – ormai a notte sopraggiunta – vedevo quel puntino bianco appena accennato nel cielo scuro e gli chiedevo del mio Godot. Vaglielo a dire ora, a quel ragazzo sognatore e patetico (sognatore perché patetico o patetico perché sognatore?) che la luna non è altro che una lampadina fulminata che sembra brillare solo perché dietro ha una lampada al neon. Ma cosa me ne fregava del satellite naturale? Per me, la Luna era il raccoglitore dei miei sogni. E invece no, perché se conosci la matematica o la fisica sei figo, se conosci l’italiano non sei niente di speciale, perché è scontato. Invece no, non è scontato per niente.

Secondo me, la lingua italiana neanche si impara a scuola, come quelle astrusità astrofisiche. Cosa vuoi imparare a scuola? A scuola non si impara niente, solo a essere disonesti, a copiare e a truffare gli altri, sostanzialmente. Lo diceva già il ministro Andreatta, e aveva ragione. Io ho imparato a entrare alla seconda ora senza motivi validi, a fare sega nel giorno del compito in classe, a fingere di interessarsi a ciò che dice un’altra persona, a deturpare il banco. Ecco, per esempio, il tuo banco è un mondo che t’accompagna per anni. Quando non c’era scuola, l’unica cosa che mi mancava era il contatto fisico e “umano” col mio banco: in un certo senso, eravamo amici, un po’ come Leopardi quando riuscivo a ripetere le sue poesie a memoria. Un anonimo amanuense aveva scritto JUVE MERDA proprio al centro del mio banco, che presentava anche una falce e martello sbilenca e precaria come il movimento comunista internazionale: io c’incisi una F e una B in fondo, come a firmarlo, con la punta di un compasso che nemmeno mi serviva. Io avevo sempre un compasso, cento mine e mille graffette che giacevano stancamente in fondo a uno scolorito e pasticciatissimo astuccio Invicta, reduce delle medie e mio commilitone fedele. È tutto una guerra, lo è sempre stato. L’italiano non è qualcosa di facoltativo, o per lo meno non dovrebbe essere così. Una volta il mio compagno di banco mi fa: “Cì, ma daccordo si scrive tutto attaccato?” e io: “Scherzi? Ovvio che si scrive tutto attaccato”. “Grazie mille”. “Prego, scemo”. Poi ha anche avuto la forza morale di arrabbiarsi con me per quella simpatica burla. Io al liceo facevo i temi a pagamento ma non ero caro, per niente: di solito costavo 20.000 Lire a foglio protocollo. A pensarci ora, sarebbero venti euro: tutto è rincarato e se paghi il doppio il pane e la luce devi fare altrettanto con i temi. Era bello scrivere per gli altri: potevo immaginare di essere loro e provare l’esperienza di vivere un’altra vita, anche se solo per un’ora. Soprattutto mi piaceva essere Tommaso, alto-biondo-ricco-spensierato: mi piaceva talmente tanto che il suo voto era sempre più alto degli altri. Tommaso suonava la chitarra e disegnava sui muri, ed entrambe le attività m’infastidivano. A volte scriveva dei pezzi delle sue melodie sul mio diario, sperando che m’uscisse fuori qualche verso degno di completarle: erano scemenze velleitarie piene di errori ortografici, roba che a metterci in società oggi saremmo miliardari, altro che ventimila lire. Quando sono stato Patrizia è andata peggio, perché Patrizia era una mente semplice, non poteva pensare quelle cazzate che ho scritto sull’Eneide, sulla nostra vita che è una risultante di tante piccole vite o sul fatto che c’è un po’ di Hitler in ognuno di noi. Così, per risultare più credibile (l’ho già detto che la scuola italiana insegna a fregare?), nel tema su don Abbondio c’ho infilato pure quello sfigato di Fra’ Cristoforo; lei mi fa: “Ti sei confuso!” e io: “Minchia, è vero, scusami” ed è finita lì, tanto la smorfiosetta il suo sette e mezzo se l’era portato a casa, cosa gliene fregava di quei due vecchi curati antidiluviani?

L’italiano non si impara a scuola. Io l’ho imparato a casa, tra i cinque e i dieci anni, guardando il calcio in televisione – sì, avrei voluto vantare un passato più glorioso e intellettuale, ma è andata così – e ascoltando le peripezie di un telecronista un po’ esaltato che nel bel mezzo di una partita, per commentare i tiri e i cross di 22 analfabeti in mutande pettinati come Genny Savastano, usava termini e concetti un po’ fuori dal comune come «asserragliati», «fluttuare», «putto», «Eldorado», «villaggio globale», «Regno degli Angioini», «effetto Magnus»: io me li andavo a cercare sui vocabolari e sulle enciclopedie e leggendone le spiegazioni arricchivo il mio bagaglio lessicale. O almeno, così mi sembra oggi, a posteriori. In fondo, tutto fa brodo, soprattutto quando si ha voglia di brodo.

L’italiano è una bella invenzione, perché ha dei suoni bellissimi e anche delle parole bellissime, che per questo vanno usate con il maggior rispetto possibile. Non capisco come mai un sacco di gente non conosca l’italiano, alla fine non servono né preparazione né particolari attitudini, ma qui si sfocia nell’incomprensibile campo della Filosofia del linguaggio e io lì ho aperto i libri, li ho scrutati, poi li ho richiusi e ho deciso di dare la materia al buio. Era l’8 febbraio del 2011, era il mio ultimo esame e quel 27 non me lo scorderò mai.

(Foto di Bruna Bonino)