Pirandello e l’io

Luigi Pirandello,1933 Helsinki (da Wikimedia Commons)

Luigi Pirandello,1933 Helsinki (da Wikimedia Commons)

ANTONIO VIGLINO

Il pensiero unico di Pirandello è questo: che l’io non esiste, se non altro perché esistono tantissimi io — tantissimi io ovviamente riferiti a una stessa persona. Non c’è un io di me che sto scrivendo, una cosa come il “mio io” non esiste, perché di “mio io” ce ne sono talmente tanti che il sintetizzarli sarebbe impossibile.
E in effetti il concetto è molto semplice, quasi lapalissiano: spiega e mostra infatti Pirandello, in modo tematico in Uno, nessuno e centomila, che non esiste “un” Vitangelo Moscarda; ma ne esistono un plotone: c’è il Vitangelo Moscarda quale lo considera la mogliettina Dida, il suo Gegè; c’è il Vitangelo Moscarda quale lo considerano gli amministratori della banca che questi ha ereditato, un inetto; il Vitangelo Moscarda usurajo secondo l’opinione comune della popolazione di Richieri, e poi il Vitangelo Moscarda secondo Marco Di Dio, e quale che lo considera il vicino di case, o il fruttivendolo, o chiunque.
Questa riflessione essenziale ed esistenziale sorge nella mente del protagonista in occasione di una osservazione della moglie, la quale mentre Vitangelo Moscarda indugiava allo specchio per un dolorino al naso, gli dice di sfuggita: «Credevo ti guardassi da che parte ti pende». Da qui, l’uomo nota con stupore che davvero il naso, seppur aquilino, gli pende verso destra, e non se ne era mai accorto. Da questa banale constatazione, dice Moscarda, «mi si fissò il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere»; per tosto passare a constatare: «Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?».
Il problema del protagonista del romanzo è il rendersi conto che ciascuno di noi è, rispetto a chi ci sta di fronte, non come crede di essere in sé, ma è proprio e solo tale e quale è interpretato, ovvero creduto essere, dall’interlocutore stesso.
E il passo ulteriore che compie Vitangelo Moscarda è comprendere che la realtà non è unica, monolitica, come usualmente si crede, ma ha tante sfaccettature quante sono le persone che vi interagiscono: «Ci fosse fuori noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c’è. C’è in me e per me una realtà mia: quella che io mi dò; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me».
Esaltato da queste angoscianti riflessioni, Vitangelo Moscarda decide di decostruire le immagini che di lui avevano sua moglie, i suoi amici e i conoscenti; decide cioè di distruggere i tanti Vitangelo Moscarda che erano creduti esistere, ma che non corrispondevano per nulla a quello che lui stesso era per sé. Così il protagonista sfratta di casa tra l’indignazione della gente uno sfortunato figuro e la sua consorte, per subito donargli una nuova abitazione; litiga e strepita con sua moglie e i direttori della banca fino a decidere di liquidare l’attività e finire, travolto da altri eventi, come semplice ospite di un ostello per i poveri istituito con i tutti denari da lui stesso donati alla Chiesa.
E tutte questi fatti compiuti dal protagonista del romanzo vengono ad ogni piè sospinto definite dallo stesso Vitangelo Moscarda come “pazzie”, a partire da quanto egli guardò nello specchio il suo primo riso da matto, alla fine del libro primo.
Ora, è fuori di dubbio che Uno, nessuno e centomila possa essere letto come un testo che descrive l’insorgere e l’esplicarsi di una, più o meno temporanea, perdita di senno, o di una patologia psichica o mentale. Ma è possibile una diversa chiave di lettura del romanzo.
Se si oltrepassano gli angusti confini del pensiero occidentale che da sempre ritiene l’io, l’ego, la psiche, la soggettività, uno dei punti fermi, se non propriamente l’unico punto centrale, per la comprensione della realtà, si può scorgere una nuova prospettiva.
Nelle dottrine orientali, così come peraltro nelle scienze esoteriche del mondo occidentale, il credere che ci sia l’io è già solo un errore, errore cagionato dall’illusione, Maya, che tiene gli uomini nell’ignoranza. Per il Buddhismo (Theravada o Mahayana, secondo i Sutra, secondo il Tantra e secondo lo Dzogchen), per il Vedanta, lo Shivaismo del Kashmir, e per tutte le correnti di conoscenza che ha prodotto l’India, il primo passo per intraprendere il cammino verso la perfezione è riconoscere che il proprio io è una finzione — occorre riscoprire la propria vera natura: per le dottrine indù l’Atman della stessa sostanza del Brahman, per il Buddhismo il non-sè. Solo se si esperisce il superamento dell’io, e a ciò sono finalizzati in prima battuta i diversi yoga, allora si attinge la pienezza della vita.
In una siffatta prospettiva, le peripezie di Vitangelo Moscarda, e tutto il pensiero di Pirandello, riverberano di nuova luce. Non si tratta, naturalmente, di sostenere che Pirandello avesse letto tantra orientali, ma di evidenziare che il movimento psichico che anima i testi pirandelliani non è difforme dal senso delle dottrine orientali ed esoteriche.
Ciò che fa Pirandello è mostrare come in realtà, da un punto di vista meramente empirico e relazionale, sociale e familiare, un qualcosa come “l’io” granitico e saldo, in verità non esista. E sotto questo profilo l’opera di Pirandello è propriamente tantrica perché appunto indirizza il lettore a rendersi conto dell’illusione in cui da sempre vive. Certo il parallelo con le dottrine esoteriche si ferma qua, perché Pirandello solo questo dice: l’io è un’illusione; non fa nessun passo addentro a come sia allora davvero la natura della persona, a come sia davvero la realtà (mentre i testi esoterici di ciò ampiamente trattano); però egli scardina, e proprio a partire dal suo cuore, il pensiero occidentale.
Pirandello quindi non è per nulla un nichilista, come per lo più in modo espresso o tacito, viene considerato; non lo è perché non pronuncia asserzioni sulla inanità della vita umana, bensì semplicemente si limita a far notare che la più salda delle credenze dell’uomo contemporaneo è un autoinganno; cosa vi sia al di là, o meglio al di qua, dell’io, non giunse a esaminarlo.
Pirandello aveva cioè indagato la sua anima, come dice Eraclito in un celebre frammento; egli pone una sfida al lettore; e se la sua tematica appare come spaesante, questo è indizio che colse nel segno.