John Lennon e l’esoterismo

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ANTONIO VIGLINO

I Beatles ebbero grande importanza sociale nel favorire l’emancipazione dai dogmi borghesi — e ciò per quanto la loro musica fosse in effetti alquanto kitsch, quantomeno rispetto al di poco successivo gruppo dei Pink Floyd guidato da Syd Barrett. Ma non di musica né di fatti di costume si vuole parlare.
Quando il gruppo dei Beatles si sciolse, John Lennon si trasferì negli Stati Uniti con la moglie Yoko Ono, e qui sì, esprimendo la sua vena musicale maturata e raffinata, scrisse canzoni che a buon diritto si possono dire capolavori contemporanei. Pochi però sanno che molte canzoni di Lennon pullulano di elementi ermetici ed esoterici.
A iniziare proprio da Imagine, che può apparire a primo ascolto come l’inno ad una trita e banale visione utopistica di bontà generale, di stampo cristiano o all’opposto marxiano a seconda della sensibilità. Questo brano però si può leggere anche in modo diverso; chi è aduso ai Tantra o ai testi di alchimia lo ritrova composto di luoghi tipici propri dell’ermetismo. La canzone esordisce con il verso “Immagina che non ci siano paradisi”, perché per l’esoterismo, come peraltro per i Vangeli, la felicità è su questa terra, se la si sa trovare; ed è quindi tutta incentrata sulla fratellanza degli uomini, al di qua delle divisioni cagionate, dalle proprietà, dai nazionalismi, dalle religioni. Imagine tratta cioè di quella che i greci, e non da ultimo Platone, dicevano l’età dell’oro, la quale a sua volta coincide con il Satya yuga induista, lo zep tepi egizio, lo stato edenico della Kabbalah e via dicendo. Ed infine anche la speranza cui mira il testo pare di nuovo tolta dell’esoterismo: che il mondo diventi uno.
Imagine può cioè essere letta come un inno che si rifà ai concetti cardinali delle tradizioni ermetiche; oppure può dirsi questo accostamento sia soltanto una suggestione.Un’altra canzone tra le più belle di Lennon è Mind games, della quale si riportano le parole:
«Facciamo insieme giochi mentali
Cercando di infrangere le barriere, di piantare semi
Giocando alla guerriglia mentale.
Cantando il mantra, pace sulla terra
Giochiamo da sempre questi giochi mentali
Alcuni saggi druidi sollevano il velo
Giocando alla guerriglia mentale
Alcuni la chiamano magia, la ricerca del Graal.
L’amore è la risposta, lo sai di sicuro
L’amore è il fiore, devi farlo… crescere.
Continuiamo a giocare insieme ai nostri giochi mentali
Fede nel futuro, a partire da adesso
Non si può vincere in quelle guerriglie mentali
Assoluto altrove negli anfratti della mente
Sì, giochiamo da sempre questi giochi mentali
Proiettando le nostre immagini nello spazio e nel tempo.
“Sì” è la risposta, lo sai di sicuro
“Sì” è capitolare, devi lasciare… che sia.
Allora continuiamo pure con i nostri giochi mentali
A fare la danza rituale nel sole
Milioni di guerriglie mentali
A legare il potere dell’anima alla ruota del Karma.
Continuiamo a fare i nostri giochi mentali per sempre
Sviluppando lo spirito di pace e amore».
Questo testo è composto pressoché puramente da espressioni tolte di peso dalle diverse tradizioni esoteriche, come subito si illustra. Innanzitutto, il piantare semi è immagine che ricorre di frequente nelle letterature ermetiche, giacché la vera conoscenza non può essere comunicata in modo discorsivo, ma deve svilupparsi da sé nella mente — e nel cuore.
Il mantra è una tecnica che deriva dal subcontinente indiano, dal quale si è estesa in tutto l’Oriente, consistente nella ripetizione di sillabe o parole, ritmata dallo sgranare il mala, il rosario indù o buddhista. Il mantra come tale non è soltanto una preghiera, ma, in particolare il mantra OM ed alcuni altri, ha lo scopo di tentare di far risuonare le energie psicofisiche latenti e dimenticate in quel bipede implume, definizione platonica, che è l’uomo.
I druidi sono i sacerdoti degli antichi popoli del nord, maghi, sciamani, di essi si sa davvero pochissimo, se non che a loro sono attribuite, in ultima analisi, le strutture megalitiche circolari, Stonehenge la più nota, che costellano il Nord Europa. I druidi erano in sostanza gli equivalenti degli yogin indiani.
Il sollevare il velo è una espressione propria dell’esoterismo, che indica il fatto che gli uomini vivono ordinariamente privi della consapevolezza autentica (rigpa in tibetano): credono di esistere, credono di sapere, mentre vivono già da sempre avvolti nelle pastoie della mente concettuale e discorsiva che è essa stessa propriamente il velame. Gli uomini vivono come dormendo, senza rendersi conto della realtà autentica, ed è rispetto a questo stato di avidya (ignoranza, in sanscrito), che si pongono il risveglio della tradizione buddhista, il destarsi della Kundalini induista, l’illuminazione declinata da tante tradizioni esoteriche del pianeta. Già Plutarco riporta che a Sais, nell’antico Egitto, esisteva una statua della dea Iside ricoperta da un velo con alla base questa iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo».
Il Graal è un elemento della Tradizione esoterica nord-europea, del quale il cristianesimo si è appropriato rendendolo la coppa in cui Gesù bevve durante l’ultima cena o la coppa in cui fu raccolto il suo sangue sgorgato dal corpo crocifisso ferito dalla lancia del centurione Longino, o talora entrambe. In origine il Graal era una cornucopia, sotto forma di piatto o di urna. Ma anche questa è già una descrizione mitica, in quanto il senso esoterico del Graal non è diverso dal significato autentico della pietra filosofale o del gioiello che esaudisce i desideri: il Graal è cioè un simbolo che raffigura il culmine del procedimento di trasformazione mentale che è l’essenza delle pratiche esoteriche (una delle sue definizioni più appropriate la dà Wagner nel Parsifal: il Graal è là dove lo spazio diventa tempo).
Il verso «Assoluto altrove negli anfratti della mente», per quanto poetico e pop, si riconnette direttamente ai livelli intermedi degli yoga della mente, descritti minuziosamente dalle tradizioni indiane e tibetane. Il proiettare le immagini nello spazio e nel tempo è, di per sé, una tecnica basica di visualizzazione (tecnica che è l’essenza del tantra essoterico Mahayana); ma è soprattutto il richiamo alle dimensioni dello spazio e del tempo che lega questo verso all’esoterismo, perché proprio il fatto di poter superare queste strutture è una meta costante dei diversi cammini spirituali.
La danza rituale nel sole fa venire in mente la serie di asana del Surya Namaskara, successione di posizioni dello hatha yoga indiano per salutare il sole, esercitata nella sua dimensione meramente ginnastica anche nelle palestre dell’Occidente. Il sole poi è oggetto di venerazione e omaggio in particolare nella Scienza Sacra dell’Antico Egitto, dove Ra è una delle divinità principali e l’Aten, il disco solare, fu l’unico dio per il faraone Akhenaten — e si tenga a mente che le cosiddette divinità egizie, i neteru, non hanno nulla a che fare con i diversi dèi personali che il mondo occidentale ha prodotto.
Il karma è di nuovo concetto indiano, per lo più frainteso dagli occidentali. Esso non è il fato o il destino, né la semplice legge di causalità, e men che meno va inteso come una sorta di retribuzione di tipo soprannaturale o religioso. La ruota del karma simboleggia il fatto che ad una persona accadono gli eventi cui ha contribuito a dare causa; certo ci sono accidenti del tutto imprevisti, in quanto la loro causa è così remota da apparire inaccessibile, così come ogni atto o fatto ha nuances che sembrano imponderabili: perciò il karma non è semplicemente la causalità meccanicisticamente intesa. Si può dire che il karma si riferisca al procedere cosmico che è il naturale svolgersi della natura, con cui le singole azioni umane interagiscono. Per comprendere a fondo il karma occorre avere dimestichezza con le nozioni, così definite dalle dottrine buddhiste, del samsara e del nirvana: come il nirvana è la liberazione dalla sofferenza connessa all’esistenza, così il samsara è invece il vivere in balia dagli eventi, cioè il vivere succubi delle circostanze, e ciò a maggior ragione quando si creda superbamente di dominarle. Chi accede al nirvana, così dicono i maestri, allora fuoriesce dal karma, e vede il vivere come il girare di un immane ingranaggio.
Ed infine i mind games, i giochi mentali. Gli yogin dell’India e del Tibet, gli adepti e i filosofi naturali, tutti dicono che il mezzo principale per districarsi dalla falsante mente razionale e rappresentativa consiste appunto nell’utilizzare quello che è l’ostacolo, la ragione, per ritorcerla contro se stessa: «le radici dell’albero della mala differenziazione sono recise dagli esperti — tale il nostro convincimento — mediante la spada del buon ragionamento, affilata al massimo», così dice, tra i tanti, Abhinavagupta.
Si deve quindi concludere, sommando questi elementi, che Lennon sia stato uno yogi, un alchimista o un cabbalista? Molto probabilmente no, nel senso che non seppe di esserlo. È ben possibile che Lennon fosse affascinato da questi temi, e che, trovandoli consoni al suo sentire, ne abbia cantato. Ma anche questa spiegazione lascia insoddisfatti, perché la precisione con cui egli tratta di questi argomenti richiede più di un semplice estemporaneo interesse.
Questo dilemma si risolve facilmente se si pone mente a uno dei canoni fondamentali delle scienze tradizionali: gli yogin, i poeti, gli adepti dicono tutti “lo stesso”, ciascuno a modo suo, per il motivo che proprio “lo stesso” viene in mente, a tutti quelli che verso di esso sono aperti. E John Lennon fu una persona alla quale questo stesso venne alla mente. La riprova di questa lettura si trova in Instant karma!, che contiene tali enigmatiche parole: esortando il prossimo a vivere la vita pienamente, Lennon dice: «chi ti credi di essere, una superstar? Bene lo sei».