Schopenhauer e l’India

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ANTONIO VIGLINO
La filosofia di Schopenhauer è debitrice da un lato di Kant, dall’altro delle dottrine indiane, in un intreccio che si risolve a discapito tanto dell’uno quanto delle altre.
Schopenhauer infatti prosegue la linea dell’idealismo critico kantiano, difendendolo dalle accuse di incompletezza e inconcludenza mossegli da Fichte prima e da Hegel poi, per quindi, così crede Schopenhauer, inverarlo.
Secondo Kant, della realtà gli uomini non conoscono che l’apparenza, cioè conoscono la realtà nei limiti in cui appare loro, mentre la vera natura ultima dei fenomeni rimane occultata, cioè la cosa in sé resta inconoscibile; la guida per gli uomini è però e sempre la ragione, che nella sua forma pura consente di riconoscere l’imperativo categorico della ricerca del bene e del ripudio del male.
L’idealismo assoluto di Fichte e Hegel muove dall’assunto che se la cosa in sé è per definizione inconoscibile, tanto vale metterla da parte, e se le cose esistono per l’io in tanto in quanto esso se le rappresenta, ciò significa che proprio l’Io è l’orizzonte della conoscenza e della realtà.
In questo quadro si inserisce Schopenhauer, il quale ritiene di aver individuato la vera essenza dei fenomeni, di aver scoperto cosa sia in fondo la cosa in sé, che per Kant era inattingibile e per l’idealismo assoluto insignificante. Schopenhauer dice che la natura ultima dei fenomeni è il Wille, la volontà, la volontà di esistere, di sopravvivere, di riprodursi; la volontà è il motore della natura, la quale si evolve al di fuori di ogni disegno divino semplicemente secondo la volontà di esistere — e questa visione irrazionalista genera il pessimismo.
Questa volontà è appunto uno dei due termini che costituiscono il titolo dell’opera capitale di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, opera della quale il primo libro fui da lui scritto in giovinezza, il secondo nella sua maturità. La “rappresentazione” sta a significare, in linea con le speculazioni kantiane, che della realtà si ha solo una conoscenza superficiale, limitata alla dimensione fenomenica.
Ed è a questo punto che si innesta la lettura da parte di Schopenhauer dei primi testi indiani tradotti in lingua occidentale, in particolare testi del Vedanta e libri buddhisti.
Il Vedanta è costituito in primo luogo dalle Upanishad, che sono commenti ai Veda; esso rappresenta una larga parte delle dottrine indiane, insieme ai sentieri più spiccatamente esoterici e tantrici — per quanto, specie nelle Upanishad più antiche, il prana sia protagonista non meno che il Brahman. L’influenza del Vedanta subì una forte riduzione, nel subcontinente, in seguito all’affermarsi del Buddhismo, il quale si diffuse poi in Cina, in Tibet e in tutto l’Oriente, mentre nella stessa India venne però soppiantato dalla ripresa del Vedanta, operata da varie scuole, tra le quali la maggiore e più profonda fu la dottrina Advaita, cioè non duale, affermata da Adi Shankara intorno al secolo ottavo. Schopenhauer lesse alcune Upanishad, trovandole coerenti con l’impostazione idealistica di Kant, perché il Brahman indù è la vera autentica realtà, di cui gli uomini ordinariamente non hanno conoscenza in quanto ristretti dai limiti della rappresentazione. E a questo livello estremamente superficiale, l’affinità tra il Vedanta e la filosofia idealistica sussiste, ma questa affinità è fondata su una lettura puramente metafisica e filosofica delle dottrine indiane, laddove queste dicono in essenza tutt’altro da cosa crede di leggervi Schopenhauer (e, per altro, di cosa hanno creduto di leggervi stuoli di accademici dell’Occidente). Le Upanishad non sono per nulla filosofie, non sono spiegazioni del mondo: esse, al livello della comprensione autentica come la illustrano yogin e sannyasin dell’India da secoli e secoli ed ancora a tutt’oggi, indicano la via per trasmutare la mente e poter accedere alla vera conoscenza — la quale è l’opposto del concettuale bensì implica il divenire ciò che realmente si è: “Per gli uomini la mente è causa di schiavitù o di liberazione: quando è congiunta con gli oggetti [porta] alla schiavitù, quando è priva di oggetti è chiamata liberazione” (Maitry Upanishad, VI.34.11). Per le Upanishad il Brahman non è un ente metafisico, ma è la realtà a cui realmente gli uomini che si impegnino sul sentiero spirituale possono pervenire. Il Vedanta, che ai più pare astratto, in verità espone una scienza, anzi la scienza suprema occorre precisare, che in quanto scienza va sperimentata, attuata (come rimarca ancora ai giorni nostri Bodhananda nel presentare l’Advaita Bodha DipikaLampo di Conoscenza Non-duale — di Karapatra Swami), diversamente il semplice leggere e credere di capire le nozioni descritte, è futile e vano. Quindi quando Schopenhauer riprende il motto del Vadanta tat tvam asi, “tu sei quello” (cioè: non c’è differenza tra te e il Brahman), lo impiega in modo del tutto distorto ed arbitrario; così come l’espressione “il velo di Maya”, che indica l’incapacità noetica degli uomini di conoscere la vera realtà, non significa per il Vedanta cosa significa per Schopenhauer: per il filosofo tedesco il velo di Maya è una descrizione concettuale di una posizione filosofica (l’inconoscibilità della cosa in sé), per gli indù invece Maya, l’illusione, è la realtà apparente, seppur non irreale, che si può fattivamente superare.
Quanto al Buddhismo, occorre preliminarmente considerare che esso si articola in tre veicoli: la via del Sutra, che presenta le dottrine in modo semplice e discorsivo, il Vajrayana, che è la via esoterica dei tantra, e terzo il veicolo supremo. Schopenhauer, come per lo più gli occidentali, lesse alcuni sutra come se fossero testi filosofici. Ma i sutra, che espongono gli insegnamenti resi dal Buddha Shakyamuni, il Buddha storico, non costituiscono per nulla un sistema filosofico, e nemmeno una religione peraltro, bensì sono un corpo di dottrine che indicano, a chi non abbia particolari capacità spirituali, la via per liberarsi dalle sofferenze, e questa via passa per il controllo della mente. Dal Buddhismo Schopenhauer trasse una riconferma della sua concezione filosofico-metafisica della rappresentazione, fraintendendo l’impermanenza e la shunyata (vacuità), e prese la concezione della compassione quale metodo per superare la sofferenza del mondo. Però la bodhicitta buddhista, che certamente significa anche compassione, non serve per liberarsi dal dolore; per tale fine, insegnò il Buddha, occorre superare l’ignoranza, mentre la compassione è semplicemente la conseguenza dell’essersi divincolati dalle false concezioni.
Questi chiarimenti sul significato autentico delle dottrine indiane non vuole essere una critica a Schopenhauer, anche perché la modalità di pensiero dell’Occidente — che da Aristotele ai giorni nostri è incentrata sul materialismo e sulla protervia della facoltà razionale di voler dar conto di tutto — non poteva che sortire l’effetto di ridurre ai propri pregiudizi anche sistemi di pratiche e di pensiero che si librano su altre lunghezze d’onda. Per altro verso, Schopenhauer ebbe il merito di suscitare l’interesse degli occidentali su tematiche estranee alla cultura europea.
Schopenhauer come filosofo è spesso negletto per un corto circuito logico insito nel suo sistema (e precisamente l’aver definito la volontà come noumeno trattandola però al contempo come fenomeno); ma a suo onore e lode va, oltre alla critica sebbene feroce all’idealismo hegeliano, soprattutto l’aver affermato con nettezza che non esiste un ordine logico del mondo, e che non tutto è comprensibile dalla ragione.