Il semaforo e l’aereo

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FRANCESCO BENNARDO

Venerdì pomeriggio, caldo impietoso, un semaforo impalato sul rosso e io che sono senza fiato. Immagini distorte, proiezione d’una dimensione irreale, mentre il corpo sembra fuori controllo, ingestibile come un aereo privo di pilota. Dove sono? Cosa mi sta succedendo? Rosso, rosso, ancora rosso… maledetto rosso, intanto perdo il contatto con il tempo e con lo spazio. La mia auto è ferma o in movimento? Non lo so, non riesco a capirlo. Caldo, sempre più caldo. Sudo tanto, sudo troppo. Cosa fanno le mie gambe? I pedali sfuggono, i miei piedi si dissociano dalle gambe e le gambe fanno lo stesso con il resto del corpo. Le mani sono umide e si aggrappano al volante nel disperato tentativo di ancorarsi a qualcosa di concreto. Il cuore batte a più non posso, si contorce follemente e sembra rimbalzarmi da una parte all’altra dello stomaco. Quando scatta il verde? Quando cazzo scatta il verde? Oddio, cosa aspetti? Perché non liberi questa merda di strada? Voglio fuggire, liberarmi da questa prigione a forma di macchina, semafori e segnali stradali! Verde finalmente, vado. Ho fretta, ma la strada non mi appare lineare. Spingo sull’acceleratore, ma è come se non avvertissi il contatto col pedale. Ed è una pressione blanda, inconsistente. Intanto avverto un torpore generale e un’ansia pressante. Vorrei essere già a casa, vorrei essere aiutato. Mi sembra che il tempo si sia dilatato, che la strada si sia allungata e che la vita mi stia abbandonando. È così che si muore? Mentre immagino la scena del mio funerale, mi rendo conto di essere sotto casa mia. E poi su per le scale, con gli arti che procedono senza alcuna coordinazione. Varco la soglia dell’appartamento, ma non mi fermo. Sono ancora in fuga e non so da chi o da cosa. Ho paura, solo io so quanta! Vorrei che il corridoio proseguisse all’infinito. Voglio camminare, voglio correre! E intanto mia nonna mi afferra, mi parla, mi urla. Io urlo più di lei e non l’ascolto. Non ascolto lei e non ascolto me. Non sono io a parlare, non so da dove vengano quelle parole senza senso, prive di una logica precisa e armate di rabbia, foga e disperazione che escono dalla mia bocca. É come se corpo e mente procedessero per binari differenti e io non controllo né l’uno né l’altra. Nonna aiuto, nonna sto morendo, nonna… nonna…. Nonna….

È così che quel giorno sono morto o, per meglio dire, è così che è morta una parte di me.

Dov’è avvenuta la resurrezione? Chiudi gli occhi: immagina un’enorme distesa verde ravvivata da migliaia di soli. Immagina che quei soli sorridano e t’invitino a fare altrettanto. Immagina di essere al centro di un campo di girasoli presente nella radura. Nessuno ti noterebbe dalla strada, ma ti sentiresti più vivo di quando hai fatto l’amore la prima volta. Immagina di essere assorbito da quel verde e da quel giallo. Sei tutt’uno con quel campo e in pace con te stesso. Che fine ha fatto l’ansia? Dov’è finito il timore di essere e quello, ancora più inquietante, di non essere? Non lo so, e sinceramente non m’importa…

Se non fossi morto quel venerdì settembrino, ora non sarei vivo. E non avrei nulla da raccontare. Qualcuno dice che la morte sia inutile; io l’ho sperimentata e m’ha fatto un gran bene. Certo, era un tipo di morte assai particolare: mi si è presentata davanti all’improvviso, con aria minacciosa e terrificante. Devo ammetterlo: se la sua intenzione era quella di spaventarmi, c’è riuscita alla grande. Davanti alla morte occorre però inchinarsi giacché ha un’immagine autorevole e non si presenta mai per caso. Ed è inutile opporre resistenza, fingere che non ci sia, evitare di ascoltare i suoi suggerimenti dal sapore dolceamaro come quello del sangue. Ebbi la presunzione di ignorarla per qualche tempo e fatalmente mi ritrovai a camminare ai margini delle stanze, a barcollare come un vecchio ubriaco, vestito solo di incertezze. Vissi per giorni e giorni in uno stato di precarietà indefinito. E apparivo a me stesso come uno zombie svuotato e grottesco che aveva bisogno di appoggiarsi ai muri e agli altri per sostenere quel poco di umanità che gli restava. Una notte ripensai alla scena del funerale che già m’era apparsa alla mente in quel fatidico momento in auto. Adagiato in una bella bara di legno chiaro, ero circondato da centinaia di splendide orchidee bianche e indossavo una tuta da paracadutista. L’atmosfera non era affatto triste e chi mi stava intorno non piangeva: anzi, c’era persino qualcuno che in disparte sghignazzava! Mi chiedevo – io, cadavere! – cosa potesse giustificare tutto quel maramaldeggiante cinismo.
Non dovetti aspettare tanto per soddisfare la mia curiosità.
“Proprio assurdo: morire prima di essersi lanciato dall’aereo… anzi, prima di essere salito sopra quel cacchio di aereo! Ah-ah!”
Ero morto prima. Prima!
E nessuno dovrebbe mai morire prima. Nessuno!

(Foto di Bruna Bonino)