L’Opera di Roberto Calasso

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ANTONIO VIGLINO

Roberto Calasso, per lunghissimi anni direttore e poi anche proprietario della Adelphi — Casa editrice fondata da Luciano Foà, Roberto Olivetti e Roberto Bazlen con due fini dichiarati: stampare l’edizione critica delle Opere di Nietzsche e pubblicare “libri unici” — è stato senza ombra di dubbio una delle figure più di spicco del panorama culturale italiano ed europeo.
Cultore del pensiero di Nietzsche, che nel saggio che accompagna la traduzione di Ecce homo (ed. 1969) volle difendere dalle critiche di Heidegger, esteta letterario onnivoro ma in particolare corifeo della letteratura mitteleuropea, da Kafka a Thomas Bernhard, passando per Schnitzler e Walser, sarebbe improbo l’elencare i meriti di Calasso quale editore.
Ma Roberto Calasso, R.C. come amava siglarsi, volle anche riversare il suo sapere nutrito dalle più elitarie letture di ogni anfratto del sapere in un’opera sua propria letteraria, la cosiddetta Opera senza nome. Costituita da una teoria di testi ciascuno focalizzato su un chiaro argomento ma al contempo aperto a riflessioni e reti di collegamenti inaspettati e per lo più inauditi, l’Opera tocca, come tocca una bacchetta magica, ambiti tra loro molto diversi ma ognuno estremamente significativo nel mare magnum del sapere.
Il primo testo pubblicato da Calasso nell’Adelphi è L’impuro folle, romanzo sulla figura di Daniel Paul Schreber, Presidente di corte D’Appello a Dresda, che perdutosi in una paranoia allucinatoria ne scrisse nelle Memorie di un malato di nervi, libro che costituirà lo spunto per le speculazioni freudiane sul tema. Il libro di Calasso è un a parte, un divertito sviscerare i rapporti eminenti tra Schreber e il di lui psichiatra e neurologo Flechsig quale occasione per disaminare lo scricchiolare del totem dell’io. Questo testo non fa parte dell’Opera di Calasso, secondo la volontà del suo autore, ma ne costituisce, mi piace dire, un preludio: la sua assurda enigmaticità, fin dal titolo — il puro folle è infatti la più nota delle etimologie proposte del nome Parsifal — racchiude il seme che, unico e solo come si dirà, riesce a illuminare l’Opera della quale qui si intravvede l’annunzio.
Il primo testo dell’opera di Calasso è La rovina di Kasch, mitica città africana dove l’ordine fondato sul sacrificio e sull’osservazione degli astri venne ignorato e ne seguì appunto la rovina; il protagonista del libro, o meglio il fulcro delle storie che vi sono narrate, è però il Talleyrand, le sue trame, i suoi ricordi. Segue il tuffo nella classicità delle Nozze di Cadmo e Armonia, testo sul mito greco e sulle sue problematiche attuali d’allora e di oggi. Poi Ka, che tratta dell’India, dai Veda a Krishna, seppure in modo per lo più fissato sulla mera superficie della materia; così come fermo all’aspetto letterale è l’Ardore, settimo volume dell’Opera, incentrato anch’esso sull’India e in particolare sul tema del sacrificio quale codificato dal Satapatha Brahmana. Tra questi due testi si collocano K., su Kafka, Il rosa Tiepolo, e La Folie Baudelaire; quindi, dopo appunto L’ardore, c’è Il Cacciatore Celeste, naturalmente la costellazione di Orione, Shau per gli Egizi, che racconta come potrebbe essere accaduto che i nostri progenitori divenissero a loro volta predatori, e gli strascichi nel mito e nell’inconscio collettivo di tale evento. L’innominabile attuale si volge invece al contemporaneo, per denunciarne l’inconsistenza esistenziale; Il libro di tutti i libri, decimo testo dell’Opera, riprende nuovamente il passato, quel passato che è comune al bacino del mondo occidentale, cioè la Bibbia e segnatamente l’Antico Testamento. E il libro successivo, La tavoletta dei Destini, risale ancora fino a quella che fu la fonte diretta dei racconti del libro di Genesi, cioè la sapienza incastonata nei miti sumerici. L’ultimo volume, postumo e verosimilmente non rifinito e sviluppato, è Sotto gli occhi dell’Agnello, in cui Calasso si concentra sul libro che chiude la Bibbia cristiana, l’Apocalisse di Giovanni, e ritorna con forza sul tema del sacrificio.
Qual è il significato dell’Opera di Calasso?
L’autore mai lo dice.
Molti hanno esaminato questo sentiero cercandovi una risposta, ma invano.
Di solito ci si accontenta di dire che si tratta di una immane serica e traslucida ragnatela di connessioni tanto ardite quanto inconfutabili, che ha lo scopo di aprire una nuova, indeterminata, prospettiva — questo, la prospettiva, il lasciato nietzscheano — di comprensione della realtà. Ma questa lettura è una semplice descrizione a posteriori dell’Opera di Calasso, che se pur le tributa doverosa lode non si affaccia al di là della mera lettura dei testi, mentre quale sia l’Aleph che dà senso ed ordine all’apparente congerie di dissertazioni non solo non viene scorto, ma nemmeno cercato.
Allo stesso modo superficiale e riduttiva è in fondo la lettura dell’Opera senza nome come un descrizione della modernità; è vero che la complessità apparentemente irriducibile della modernità è esaminata dalle sue radici alle contemporanee degradate propalazioni, ma anche questa lettura in essenza non dice nulla, perché, così intesa l’Opera, ne verrebbe che la modernità sarebbe semplicemente stata esibita da Calasso, laddove Calasso stesso, che dice i suoi libri “letteratura assoluta”, con ciò rivendica che un significato la sua Opera lo ha, non è un mero elenco delle navi di omerica memoria.
Calasso non lesinava di ripetere che stesse scrivendo un’opera in divenire, possibile che non ne abbia dato la chiave?
E dove mai potrebbe essere la chiave, come trovarla in una marea di scorci tutti illuminanti, decisivi, cruciali; quale di essi è Aleph di Calasso? Detto altrimenti, quale è il messaggio concreto e reale che uno degli intellettuali più profondi dell’ultimo secolo ha voluto lasciare ai suoi lettori?
In breve, a mio avviso il fulcro dell’Opera di Calasso è la figura messianica.
Egli lo svela nel suo libro postumo, Sotto gli occhi dell’Agnello, appellandosi ad una delle figure più autorevoli del pensiero occidentale nel suo insieme, nientemeno che a Gesù, il quale, riporta Calasso, nel Vangelo di Giovanni dice: «Anch’io chiederò al Padre, ed egli vi darà un altro Paracleto che rimarrà con voi in eterno». Commenta Calasso: “Secondo il Vangelo di Giovanni Gesù addirittura chiede al Padre di concedergli un «altro Paracleto». Vuole abbandonare la sua funzione? È l’annuncio di un nuovo regno, il regno del Paracleto? Un eone, forse, senza limiti. Il successore è tutt’altro che l’assistente, il continuatore. Presuppone che il mondo sia cambiato e che siano cambiati i modi per reagirgli. Alla fine dei tempi Cristo scompare e viene sostituito da un altro essere celeste, il Paracleto. Ma perché Cristo ha bisogno di questa duplicazione? Si avvicina un regno che esige nuove forze, nuove forme?”. E continua Calasso in questa sezione a porsi domande serrate (“L’incertezza è enorme — e rimane.”), quasi rauche, dette quasi come sfogo, come se si chiedesse: “E se fosse tutto vero?”.
Questa interpretazione complessiva e sinottica dell’Opera di Calasso, ha dalla sua altresì i suoi due leitmotiv più ricorrenti, il sacro e il sacrificio (quest’ultimo declinato in molti modi tranne che nel significato propriamente esoterico); ed anche si riconnette al preludio dell’Opera stessa, L’impuro folle: Parsifal fu, se non un messia, certo un Redentore. E stante che la figura di Parsifal è necessariamente legata al Parsifal di Wagner, la rappresentazione somma del sacro, si sa che quest’opera si chiude sul coro “Erlösung dem Erlöser”, che significa “Redenzione al Redentore!”, il quale verso altro non è che il rilancio l’attesa del messia.
L’Opera di Calasso allora è senza nome perché il mondo moderno, dal ‘700 dei diritti ai periodici rigurgiti dei populismi, è senza forma, è non altro che il trionfo del Kali yuga, l’età dell’ignoranza, nella quale solo si può assistere ai tentativi inani di raddrizzare le sorti delle umane genti e ai latrati di protesta al fato da parte degli uomini più sensibili. Calasso nel suo libro-testamento lo dice chiaramente: ogni tentativo razionale e ragionevole di comprendere il mondo si arresta di fronte al mistero — quindi c’è una marea di non detto e poi c’è la soluzione — del messia.
Ciò accettato, allora l’Opera di Calasso diviene intelligibile in ogni suo tema ed anfratto, come le Goldberg-Variationen di Bach, in quanto il procedere intellettuale che trascende il “metodo” a vantaggio del pensiero associativo dischiude la possibilità stessa di porsi a ri-pensare il sacro in modo autentico (il sacro in quanto tale non ha nulla da spartire con il religioso e men che meno con il devozionale), e quindi rendersi disponibili ad apprendere verità che alla modernità e al senso comune paiono folli.