“La storia che ti ho narrato non finisce”

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GABRIELLA MONGARDI

Solo arrivato all’ultimo capitolo, Congedo, il lettore capisce che il libro che ha in mano (Aldo Zargani, Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiquà 1938-1945, Bologna, Il Mulino 1995) è una lettera scritta da un nonno al nipotino di quattro anni, perché “è bene che tu sappia che la storia che ti ho narrato non finisce”…
La storia narrata da Zargani è la sua storia, la storia di un “bambino che era stato condannato a morte” perché era ebreo, prima dalle leggi razziali del 5 settembre 1943 (e 15 novembre 1943), e poi dall’ordine di polizia del Ministro dell’Interno Buffarini Guidi del 30 novembre 1943: “Tutti gli ebrei in campo dì concentramento!”. Ma i genitori di quel bambino, dopo anni di vita stentata e umiliazioni, sono riusciti a salvare se stessi e i loro figli grazie a “intelligenza, astuzia, prudenza, capacità di adattamento, calma, pazienza e fortuna”, in anni in cui bastava un niente, “un errore insignificante, un lieve eccesso di fiducia” per finire come minimo in galera o peggio, diventare “polvere della Slesia orientale”: “un ebreo italiano su tre è stato assassinato. E gli ebrei d’Italia furono invidiati come tra i più fortunati d’Europa, dopo quelli di Danimarca e Bulgaria!”.

Scritto cinquant’ anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il libro di Aldo Zargani è una testimonianza tanto più preziosa perché assolutamente sui generis, profondamente originale, per tre motivi: riporta il punto di vista di un bambino che è rimasto segnato irreversibilmente dall’ingiustizia patita, è trapunta di sottile ironia e autoironia (il sovrumano umorismo ebraico!) ed è caratterizzata da un’altissima qualità letteraria.
Quest’ultimo aspetto non deve essere inteso come qualcosa di estrinseco ed estraneo rispetto all’atroce verità della storia narrata, una forma di consolante estetismo, un fattore implicante una distorsione dei fatti e quindi un tradimento di quella verità: senza la visionarietà del primo capitolo, Glockenspiel, i ricordi di quel “tempi strani, tempi oggi dimenticati e screditati”, non avrebbero potuto approdare sulla pagina, dopo aver abbandonato “la modalità del tempo” per trasformarsi “in costellazioni morali e fiabesche che brillano nello spazio di un presente che non passerà mai”. Senza uno stile insieme asciutto e sobrio, colto ed elegante, senza la Letteratura nel senso più profondo e nobile del termine, quel passato indicibile non avrebbe potuto decantarsi nella pagina e “la guerra psichica contro la Germania del Terzo Reich” di quel bambino divenuto uomo non avrebbe mai avuto fine.

Così i sedici capitoli che compongono il libro non si dispongono cronachisticamente in ordine cronologico, ma impongono ciascuno all’attenzione del lettore un episodio assurdo di quell’infanzia che “non è stata infanzia” – un episodio che rivela tutta la sua assurdità proprio perché narrato con gli occhi del bambino che l’ha vissuto senza capirne il perché, senza neanche poterlo chiedere agli adulti che si occupavano di lui… Perché da un giorno all’altro non è più andato a scuola con i compagni, perché il padre ha perso il posto di violista nell’orchestra dell’EIAR di Torino e la famiglia è precipitata nella miseria, perché i genitori hanno portato i figli all’Arcivescovado e per tanto tempo non sono neppure andati a trovarli nel collegio salesiano di Cavaglià (BI) dove erano nascosti, perché zii, cugini, amici sono scomparsi nel nulla…?

Quel perché, noi che non abbiamo vissuto quel tempo ce lo chiediamo ancora, senza trovare una risposta – e con sgomento vediamo riaffiorare, nel nostro tempo, razzismo, antisemitismo, odio per il “diverso”. Zargani, divenuto adulto, una risposta – terribile – se l’è data: «Non era la banalità del male che minacciava il mondo, ma la parodia infernale di “Ama il prossimo tuo come te stesso”: odia il prossimo tuo come te stesso».