Le musicassette di una volta

Bruna Bonino per Bennardo

FRANCESCO BENNARDO

Sei proprio come una di quelle polverose musicassette di una volta, quelle che restavano nel mangianastri per giorni. I giovani d’oggi, purtroppo, non potranno più rivivere quelle emozioni che permettevano alla cassetta di sopravvivere così a lungo tra le fauci del registratore. Oggi basta caricare un dispositivo digitale manco fosse una pistola o, peggio ancora, digitare qualche parola sul motore di ricerca di YouTube o Spotify ed è fatta: tutto lo scibile melodico a disposizione in men che non si dica. Una volta no, non era così: spesso l’audiocassetta restava al calduccio per giorni e giorni, approfittando della pigrizia o della distrazione del suo possessore, il quale magari la tralasciava volontariamente per sopperire all’imbarazzo di averne smarrito la custodia. Acquistare un album, all’epoca, era un atto di fiducia e d’amore: raramente poteva essere ascoltato prima e, il più delle volte, lo si comprava a scatola chiusa e lo si considerava una reliquia preziosa, poiché i pezzi erano sensibili al pentagramma ma i prezzi, al contrario, non dimostravano la stessa premura verso la diminuzione del potere d’acquisto. E se i brani non erano di tuo gradimento, non potevi trascinare la cartella nel cestino o mettere un dislike e cambiare video a forza di click. Eh no, cara: l’inconscio meccanismo della fallacia dei costi sommersi agiva di soppiatto nella tua anima, costringendoti quasi meccanicamente a dare a quel relitto una seconda possibilità.

E noi, cara, quante ce ne siamo date? E dimmi, ricordi ancora le volte in cui ci siamo acquistati, usati, consumati e venduti? A me, sinceramente, qualcuna mi sfugge; anche perché, se le rammentassi tutte, non avrei la forza di essere qui, ora, di fronte a te. Bisogna conservare un briciolo d’ignoranza per avere un po’ di coraggio nella vita, altrimenti il pessimismo dell’intelligenza banchetterebbe allegramente sul cadavere dell’ottimismo della volontà. Adesso, dopo tutta l’acqua che è passata sotto i ponti, non ho la forza di descrivermi e raccontarmi: mi prenderei a schiaffi da solo prima di ammettere che, in realtà, negli ultimi mesi eravamo solo un disco che continuava a suonare solo perché né tu né io avevamo voglia di cambiarlo. Forse, eravamo in questa situazione fin da quel primo, fatidico giorno in cui la nostra coppia si formò. Anzi, peggio: c’era il terrore che entrambi non saremmo sopravvissuti senza quella litania bella ma triste, dolce ma stanca, gentile ma effimera come la cameriera del bar delle Folies-Bergère di Manet, alla quale tu assomigli (solo ora, mentre lo scrivo, m’accorgo di averlo sempre pensato ma di non avertelo mai detto, proprio a te che hai fatto della Storia dell’Arte la ragione di vita). Pensavamo che la nostra storia fosse come quelle musichette che fanno da sottofondo agli ascensori dei palazzi di gran classe, spesso fonti di derisione e fastidio ma che, se improvvisamente spente, sono capaci di provocare quell’irrazionale paura di rimanere al silenzio e in silenzio, per sempre.

Sei proprio come una di quelle polverose musicassette di una volta, perché eri fissata in loop sulle tue convinzioni e non c’era verso di cambiare parere o discorso. Quando ci siamo lasciati abbiamo smesso completamente di parlarci, perché la nuova situazione aveva modificato il tuo giudizio su di me e ciò non l’avresti confessato nemmeno a te stessa.

Sei proprio come l’aria che sto ascoltando adesso, Una furtiva lagrima, proprio quella che ascoltammo insieme la sera in cui venisti per la prima volta a cenare da me, mentre tutto il resto del mondo si rilassava pensando ai fatti suoi. Io ti attendevo dietro la porta perché, quando hai una persona da aspettare, il silenzio scalda l’anima molto più di un alcoolico in mezzo al fatuo chiacchiericcio di un locale. Mentre sentivamo il fagotto malinconico fare il suo dovere tu non portavi vestiti firmati o gioielli costosi, ma un sorriso, un semplice e pregevole sorriso che la tua bocca indossava con genuina regalità. Non importava se il testo fosse triste o se i tuoi capelli odorassero ancora di pizza: un bacio non chiede scusa. Il brano che sto ascoltando è l’unico ad essere rimasto sempre sé stesso: io non lo sono più, tu non lo sei più, l’Italia non lo è più. La pandemia, il governo, la scuola… tutte cose così grandi in confronto alla nostra piccola storia, al nostro piccolo amore ormai ridotto a fragile e ferita mosca uccisa a colpi di cannone. Il destino è stato il nostro generale Bava Beccaris, e lo so che questa metafora storica t’innervosisce perché ha il potere di metterti di fronte a quel mio lato “intellettuale” che disprezzavi considerandolo tronfio e autoindulgente. Ma ormai posso dirtelo: era solo l’autodifesa mentale di un uomo dalle spalle strette, niente di più. Di te mi resta un ricordo agrodolce, come quelle salse che si versano sopra il pesce crudo: vorrei restituirtelo tutto, goccia dopo goccia, sperando di non attirare nessuno squalo.

(Foto di Bruna Bonino)