Manzoni, gli untori e la guerra biologica

Gonin Tra Promessi e Colonna

Gonin Tra Promessi e Colonna

PAOLO LAMBERTI

Se avete letto i Promessi Sposi senza illustrazioni del Gonin e senza la Storia della Colonna Infame non avete letto i Promessi Sposi: o almeno, l’edizione definitiva come la voleva l’autore.
La definitiva “Quarantana” del 1840/42 nelle intenzioni di Manzoni non può essere pienamente compresa senza l’attenta osservazione delle illustrazioni di Gonin, che Manzoni ha minuziosamente controllato perché in esse si trova un complemento alle parole, che chiarisce numerosi passi, aggiungendo maggiore profondità.
Ma soprattutto la Quarantana finisce con la Storia della Colonna Infame: quindi le ultime parole poi del romanzo non sono le sorridenti «Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta», bensì le più amare «Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell’une e dell’altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta».
Terminare il romanzo con la morte di Piazza e Mora, e non con il matrimonio di Renzo e Lucia, cambia profondamente il quadro di lettura, mettendo al centro il pessimismo manzoniano sulla storia umana, luogo della violenza e della sopraffazione: un Inferno con poco Purgatorio e meno Paradiso.
Non che I Promessi Sposi abbiano un vero lieto fine: Lucia è «una contadina come tant’altre», Renzo da bravo qualunquista ha «imparato…a non mettersi nei tumulti», e se i “cattivi” si convertono (Fra Cristoforo, Innominato) o muoiono (Don Rodrigo, il Conte Attilio, il Griso), il vero cattivo, colui il cui cuore è chiuso alla Provvidenza, ovvero Don Abbondio, continua ad essere servo dei potenti, a sentirsi vittima e a pensare a mangiare.
Solo venticinque tra i milioni di lettori lo vedono tale, per gli altri è personaggio simpatico e comico: con Don Abbondio, e Azzeccagarbugli, Manzoni ha fotografato l’italiano medio.
Lo fa anche parlando della peste, nel capitolo XXXI, che invita ad una rilettura contemporanea, alla luce del Covid. A partire dalla lentezza dell’autorità sanitaria che «andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi», per arrivare alle difficoltà di informazione, legate all’ostilità della popolazione «Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti…non si denunziavan gli ammalati…; da subalterni del tribunale stesso…s’ebbero, con danari, falsi attestati».
Segue la ricerca delle colpe, più che delle cause, e «per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe». E «molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato».
Ma in fondo Manzoni un tocco di ottimismo lo inserisce proprio nella Storia della Colonna Infame (cap. I): scrive «Al veder questa ferma persuasione, questa pazza paura d’un attentato chimerico, non si può far a meno di non rammentarsi ciò che accadde di simile in varie parti d’Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera. Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che stendesse la mano sopra imputati di quella sorte, quando non fosse stato per sottrarli al furore della moltitudine. È, certo, un gran miglioramento; ma se fosse anche più grande, se si potesse esser certi che, in un’occasion dello stesso genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse attentati dello stesso genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo d’errori somiglianti nel modo, se non nell’oggetto».
Questo poteva scrivere un uomo dell’Ottocento che sperava di essersi lasciato alle spalle il Seicento, e non immaginava che il XXI secolo sarebbe iniziato con un ritorno alle credenze barocche, e non solo da parte delle persone punto punto istruite, ma anche da chi ha responsabilità e cultura.
Però c’è un passo che Manzoni lascia non risolto, riportando le opinioni dell’epoca: «In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, nè il primo nè l’ultimo di tal genere».
La narrazione e il suo commento segnalano la curiosità del fatto, ma la riportano ad un generico delirio: «i signori della Sanità…aggiungono, esser loro opinione, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d’animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L’altre memorie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che la negasse; e n’avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio».
Si coglie un certo disagio nello scrittore, quasi cercasse di considerare la notizia inventata, ma con lo scrupolo dello storico non potesse accettarlo, riconoscendone la realtà. Decisamente più scettico nella Colonna Infame, in cui (cap. I) la denuncia delle donne di un’analoga unzione è così commentata: «[ai vicini] lo spavento fece scoprire chi sa quante sudicerie che avevan probabilmente davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci…», esprimendo un giudizio di incredulità sull’esistenza stessa delle unzioni, ricondotte alla sporcizia quotidiana, tipica di uno dei secoli più sozzi dell’Europa.
Nei Promessi Sposi Manzoni sembra insistere su un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; anche qui è evidente il disagio dello scrittore, che in entrambe le opere non può che considerare assurde altre e più concrete ipotesi.
Poi però apre una prospettiva che noi oggi potremmo considerare concreta, nel mondo delle fake news: un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione. L’allusione a «un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano» sembra lasciar intravvedere l’uso di agenti per spargere timore e sfruttare a scopi politici crisi sanitarie; non si può dire che l’ipotesi, che Manzoni accenna di sfuggita, non possa oggi sembrare al lettore ben fondata, con l’”influenza cinese” di Trump e le accuse cinesi di un contagio venuto dall’Occidente.
Del resto lo scrittore milanese avrebbe potuto ricordare la curiosa onomastica della sifilide, mal francese in Italia e Germania, mal napolitain in Francia, male spagnolo in Olanda, male polacco in Russia (non si smentiscono mai), male dei cristiani in Turchia; ma l’argomento sarebbe stato troppo doloroso per Manzoni, figlio di due luetici (e particolarmente fortunato a non aver contratto la malattia per via materna).
Ma ancora più singolare è quando scrive o non saprei che altro…fatto, del resto, che non sarebbe stato, nè il primo nè l’ultimo di tal genere. Sembra che qui alluda oscuramente ad un’altra spiegazione, che implichi una certa dose di concretezza alle unzioni: insomma, una guerra biologica; tesi inaccettabile per le motivazioni dello scrittore, ma, al di là della sua efficacia bellica, non estranea all’orizzonte culturale dei secoli scorsi.
Manzoni probabilmente non conosceva la notizia, pur diffusa, che riferiva il lancio di cadaveri di appestati da parte dei mongoli dell’Orda d’Oro durante l’assedio di Caffa (in Crimea) nel 1347, lancio che trasmettendo la peste agli assediati genovesi avrebbe portato la malattia in Europa. Curiosamente molti in Europa collegavano la Peste Nera del 1348 all’Oriente, come Boccaccio (anch’egli poco amato da Manzoni) o addirittura alla Cina, in cui peraltro sono testimoniate epidemie (non si sa se di peste) solo a partire dalla metà degli anni cinquanta del XIV secolo.
Più vicina allo scrittore milanese era la notizia che gli inglesi durante la guerra dei Sette Anni nel Nordamerica avevano fornito coperte di ammalati di vaiolo alle tribù indiane che combattevano al fianco dei francesi; tenendo conto che Pietro Verri, zio di sangue di Manzoni, aveva prestato brevemente servizio in quella guerra con gli Austriaci, alleati agli inglesi, si potrebbe immaginare un esile collegamento.
Insomma, Manzoni deve sbarazzarsi degli untori, ma il sospetto di un tentativo di guerra biologica, per quanto inefficace, rimane ad aleggiare sulle sue pagine.