Il sapore dell’amore

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FRANCESCO BENNARDO

“Stai morendo, vero?” singhiozzò il bambino davanti all’anziana signora distesa su un letto d’ospedale dalle rassicuranti lenzuola biancazzurre. La stanza, riverniciata da un bianco talmente candido da apparire irreale, era impregnata dall’asettico odore di disinfettante così penetrante da suscitare negli astanti un leggero fastidio.

La donna, pur essendo allo stremo delle forze, riuscì ad abbozzare un timido sorriso.
“Sì, piccolo mio, è cosi”. L’ossuta mano s’avvicinò al viso infantile con un movimento stanco che nelle intenzioni doveva rappresentare una carezza, ed il bambino, quando se ne avvide, pensò che quell’arto era esile, troppo esile. Pelle e ossa, esattamente come la sua proprietaria. Ma allora è così che alla fine diventano le persone?

Decise di indagare più a fondo. Trattenne alla meglio le lacrime e la guardò intensamente negli occhi. Notò che erano ancora vispi, intelligenti, tipici di una persona arguta. Allora no, fu la sua conclusione, la cornice potrà decadere ma il quadro resterà sempre buono. Mia nonna c’è ancora, è ancora lei.

Definirla nonna in realtà è riduttivo: il pargolo è orfano di madre dalla nascita e fin da quando emetteva i primi vagiti fu proprio lei ad accudirlo e a proteggerlo. Cose che, fino ad oggi, non aveva mai smesso di fare.

Lei ricambiò lo sguardo. Non aveva ottenuto tanto dalla vita, ma avrebbe barattato tutto il bene ricevuto nel corso della sua esistenza per vivere un po’ di più. “Ti prego, ancora qualche anno…” diceva tra sé e sé rivolgendosi a un’entità innominata, tanto era il desiderio di vederlo crescere. Ma il suo lato razionale si rendeva perfettamente conto che si trattava di una nenia a vuoto: ci sono cose che non si possono né comprare né ricevere, ed una di queste è il tempo.

I dubbi, però, rimanevano intatti. Chi gli avrebbe insegnato a vivere? Che cosa avrebbe fatto della sua vita? Sarebbe cresciuto forte, abbastanza perlomeno da sopravvivere in questo mondo infame? Ma in fondo anche queste domande sono totalmente inutili, anzi dannose, perché rendono più amaro il commiato da sé stessi.

“Nonna, hai paura?” chiese il bambino. Ne aveva, eccome se ne aveva, ma era un timore che non riguardava la sua persona. Tutto ciò che ha detto e che ha fatto ormai è scritto a caratteri indelebili nel grande libro della storia, mentre nel nipote ci sono ancora un mucchio di pagine bianche.

Scosse la testa. Di colpo non riusciva più a parlare; avvertiva un sapore acido che le allappava la bocca, forse era la saliva ormai impastata sulla lingua e sulle labbra. Chiuse dolcemente le palpebre con la netta sensazione che questo sarebbe stato il suo ultimo gesto, il suo ultimo ricordo. Ricevette invece una sorpresa: percepì nitidamente il calore della mano di lui poggiarsi sulle sue dita secche e raggrinzite.

Congedo più bello non poteva esserci. “Ho sicuramente vissuto abbastanza”. Ma la vita resta un paradosso anche nel suo momento culminante. E così, respiro dopo respiro, le tornò alla mente il ricordo di quel giorno di qualche anno fa.

Lui rimaneva steso sulle rive del mare annoiato da tutto e da tutti, anche da sé stesso. Ascolta svogliatamente il rumore delle onde; è inverno, ma non sente freddo. Prende tra le mani della sabbia umida e se la lascia scorrere tra le dita, facendosi blandire dalle moine che i granelli dedicano alla sua pelle. Non si aspettava che fosse così piacevole. Imperterriti e liberi di agire, i minuzzoli balneari oltrepassano il palmo e raggiungono il polso, dove vecchie cicatrici di ricordi passati sono ormai coperte dal tempo.

Gli sembra di non provare più nessuna emozione. Non sta male. É una sensazione più orribile del dolore, un’atarassia lancinante. Almeno nel dolore poteva dirsi di sentire qualcosa. Ma perché le cose vanno così? Perché non riesce ad appassionarsi a niente? Perché non riesce ad amare nessuno? Ma poi.., che cos’è l’amore? Sì, ciao: fior fiori di poeti, filosofi e scienziati non sono riusciti a trovare una risposta a questa atavica domanda e adesso dovrei riuscirci io? Lasciamo perdere, che è meglio.

Dopo questo ragionamento, afferra una delle cuffie e se la porta alle orecchie. Lo schermo dello smartphone si illumina e fa azionare il riproduttore musicale, da cui parte un adagio in re. Per poco più di tre minuti chiude gli occhi con la consapevolezza che niente e nessuno potrà distoglierlo da quel momento tutto suo. Quando li riapre vede davanti a sé una donna che a piccoli passi s’avvicina al mare. Siamo ai primi di gennaio e la temperatura rigida ha reso l’acqua freddissima: sarà mica pazza?

La osserva con attenzione. Pelle candida, corpo segaligno, aspetto fragile: ha il fascino di un ramo d’albicocco la cui compattezza è messa a repentaglio dai venti di fine autunno. Indossa un maglione blu di Prussia e sotto una gonna nera, giacca altrettanto scura e calze trasparenti; gli stivali col tacco, ormai dismessi, sono ben piantanti sulla sabbia vicino ad un piccolo zaino.

La donna non sembra averlo notato. Spalanca le braccia e ruota con i piedi nell’acqua ghiacciata. Un leggiadro e sensuale passo di danza, medita lui. Poi si volta e i loro sguardi s’incontrano. Lei sembra presa alla sprovvista: arrossisce, ed il vermiglio sulle scarne guance mette in risalto le iridi cerulee. Per togliersi dall’imbarazzo, a volte la miglior difesa è l’attacco. “Non le hanno mai detto che è da maleducati fissare le persone?”

Il giovane porta meccanicamente la mano destra sul mento, impugna il pizzo ponendolo tra il pollice e l’indice e se lo alliscia: fa sempre così, quando è costretto a pensare. Decide di eludere la domanda e contrattaccare: “Non sente freddo, dea del mare?”. Il tono è gioviale e confidenziale, ma non accondiscendente. La donna rimane a guardarlo ancora per un momento un po’ perplessa, non è sicura di aver capito bene le ultime parole pronunciate dallo sconosciuto. Poi lentamente esce dall’acqua e gli si avvicina. “Certo che sento freddo, che domande. Ma lo faccio apposta, perché è proprio il freddo a ricordarmi che in questo momento sono viva”.

Può osservarla meglio, adesso che ce l’ha a pochi centimetri di distanza. Occhi azzurri grandi e profondi, sorriso selvaggio in labbra sottili e piene, capelli lisci color d’avellano lunghi fino al petto. Probabilmente ha qualche anno in più di lui. La donna continua a fissarlo con aria aggressiva e lui non riesce a non ridere. “Viva, eh?” dice per provocarla. Lui provoca sempre, si nutre delle reazioni altrui. “Certo: io voglio essere libera, voglio fare quello che mi piace e sentirmi bene con me stessa. Quindi se mi va di danzare nel mare d’inverno, lo faccio. Mi sta forse giudicando?”. Lui sorride un po’ ebete.

“Ad essere sinceri, lo trovo divertente”. Lei alza un sopracciglio: “In che senso divertente?”. Il giovane nota che la donna sta iniziando a tremare dal freddo e, senza proferir verbo, si toglie la giacca e la pone sulle ginocchia di lei.

“Che fa? Ho già la mia…” replica lei, imbarazzata come al momento del primo contatto visivo. Fa’ per tornare indietro, ma lui la blocca prendendole la mano. “Rimanga qui ancora per un momento, la prego”. Seppur titubante, la donna si accovaccia al suo fianco. I due rimangono in silenzio per un istante apparso infinito a entrambi, poi lei rompe il ghiaccio: “Odio dare del lei, è troppo formale: diamoci del tu, se non è di disturbo.  Che ci fai tutto solo?”. Il ragazzo sorride e passa alla donna una delle cuffie senza aprir bocca. La canzone si intitola Sleep Now in the Fire. Lei prende l’auricolare, ascolta curiosa e attenta il brano e quando la melodia finisce chiosa: “Non avevo mai ascoltato un pezzo di questo genere, di solito non mi piacciono le canzoni in cui si grida”.

Lui risponde prontamente: “Quando si grida si esprime qualcosa, per questo mi piace. Che sia rabbia, dolore o forza non importa. Si esprime il desiderio di liberarsi”. La donna, per la prima volta dal loro incontro, sorride: “Quindi anche tu vuoi liberarti?”.

Il ragazzo smette di guardarla e rivolge lo sguardo verso il cielo. “Liberarmi… Per essere libero forse dovrei smettere di essere me stesso. Oppure essere nato su un altro pianeta. A volte penso di essere un alieno” ed emette un piccolo ghigno. Poi abbassa il viso indirizzandolo ancora una volta verso di lei. Un bacio. Il sapore di sale sulle labbra fredde. Sono fredde quanto la lingua che si muove nella sua bocca. Rimangono a lungo cosi, uno nella bocca dell’altro. Poi la mano di lui scende verso il seno, sfiora il capezzolo turgido e lo strizza con voluttà fino a farle emettere un gemito. Nessuno dei due sembra pensare più a niente.

Tra il rumore delle onde e il suono delle canzoni in loop, la donna sospira un “lo voglio” tra le orecchie di lui. Si amano così, alla brutta, senza neanche conoscere i rispettivi nomi, senza comprendere pienamente quello che sta accadendo. Due anime perse. Dura a lungo. Nessuno dei due vuole che finisca. Lei lo graffia. Lui la morde. Vorrebbero staccarsi la pelle, stanchi di non vedere l’essenza delle cose. Alla fine si abbracciano. Lui la stringe e lei ad un tratto piange. Mentre ha ancora qualche gocciolina d’acqua sul viso, domanda: “Adesso mi dici come ti chiami?”.

Ancor prima di finire la frase, è già pentita d’averla pronunciata: pensa di aver spezzato la magia di quel momento irrazionale. “È così importante per te sapere chi sono?”. Sì, lo era. Ma poi comprese. Non lo avrebbe più rivisto dopo quel giorno. Quell’esperienza sarebbe rimasta sospesa tra cielo e terra, conservata nel loro cuore per tutta la vita. Non aggiungendo altro, lui la stringe forte a sé. Lei ricambia appoggiando la testa contro il suo petto mentre i ricordi si perdono nel buio.

E così, l’anziana signora dedicò l’ultimo pensiero della sua vita a quella strana esperienza narratale in punto di morte dalla figlia, esperienza che avrebbe portato al concepimento di quel giovanottino che le teneva compagnia nell’ora fatidica. E mentre un’alba sorgeva nel cielo dell’anima, la nonna spirò nel calore d’un tempo passato.

(Foto di Bruna Bonino)