L’arte e i disastri della guerra

FULVIA GIACOSA

Pidocchi, ratti, filo spinato, pulci, granate, bombe, cunicoli,
sotterranei, cadaveri, sangue, liquame, topi, gatti, artiglieria,
sozzura, pallottole, mortai, fuoco, acciaio: ecco cos’è la guerra.

                Otto Dix

L’attuale guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina non ha ancora una narrazione artistica; bastano (e avanzano) le immagini fotografiche che riempiono le pagine dei giornali, i reportage televisivi e sui social a testimoniare le devastazioni in quella terra d’Europa. Nelle prime settimane ci si limitava (!) ai resti materiali di villaggi, città, ospedali, teatri, scuole, ridotti a scheletri sforacchiati e bruciati e alle enormi buche create dai missili: una unica no man’s land, senza più presenze, nascoste in cantine e bunker. Solo ultimamente compaiono le documentazioni dei morti lasciati per strada, di corpi bruciati, ammucchiati in fosse comuni, di adulti e persino bambini torturati violentati stuprati, corpi che bastano a dirci l’oltraggio assoluto: ai morti è tolto anche l’ultimo diritto, la sepoltura. Come non pensare all’Antigone sofoclea che disobbedisce all’ordine di Creonte di non seppellire il fratello Polinice; per obbedire al sacro dovere imposto dagli dei e dettato da leggi non scritte Antigone compie un atto di pietas che le costerà una lenta morte, sepolta viva.

Parlare di guerra nell’arte richiederebbe un gigantesco tomo illustrato, a dimostrazione che la storia è costellata di conflitti da sempre. L’arte non è stata silente di fronte alle guerre, ma lo ha fatto in modi assai diversi. Se l’antichità aveva esaltato guerre, eroi, conquiste e vittorie legate ai miti narrati in metope, frontoni e vasi (Greci) o a storiche imprese nei bassorilievi di archi trionfali o colonne onorarie (Romani), se pittura e scultura avevano celebrato nel Medioevo e nel Rinascimento cavalieri, condottieri ed eroi, se il Seicento, secolo di guerre, aveva dato vita a rappresentazioni di grandi eserciti schierati nelle lande d’Europa, se il primo Ottocento se ne era fatto erede nella celebrazione dell’epopea napoleonica in Francia e degli eroi risorgimentali in Italia, è a partire dalla seconda metà del XIX secolo che la prospettiva comincia a cambiare, basti pensare al nostro Giovanni Fattori, noto ai suoi tempi come “pittore di battaglie”: vero, ma le scene militari non hanno nulla di celebrativo, anzi raccontano di feriti rimasti sui campi di battaglia o la snervante vita quotidiana nelle retrovie. Nell’età contemporanea la visuale cambia ancora e all’esaltazione prevalentemente propagandistica del passato si sostituisce il senso di disumanità delle guerre novecentesche anche per le nuove armi di distruzione di massa. Il breve e greve XX secolo  segue due strade parallele: da un lato la volontà di cronaca, spesso legata alla diretta partecipazione degli artisti sui fronti bellici; dall’altro il forte carattere di denuncia della follia immorale di ogni guerra, al di là del resoconto immediato affidata alla fotografia. I nuovi fotoreporter, a partire dagli anni trenta, vanno in prima linea e i loro scatti sono in “presa diretta”; uno dei primi è stato l’ungherese Robert Capa, famoso per Morte di un soldato repubblicano (1936, guerra civile spagnola) e per D-Day (1944, sbarco in Normandia) oltre agli scatti sul conflitto indocinese, durante il quale l’autore muore su una mina nel 1954. Inoltre la contemporaneità si caratterizza per una varietà inusitata di modalità espressive che si aggiungono a quadri, sculture e foto: video, installazioni, performance e l’universo tecnologico del digitale ampliano enormemente i modi di narrare le guerre e di denunciarne gli effetti (affatto) collaterali.

I disastri della guerra. Corpi.
Alle 82 incisioni di Francisco Goya dal titolo I disastri della guerra (1810-’20, acqueforti, acquetinte, bulino e puntesecca) sulla guerra d’indipendenza spagnola contro le truppe napoleoniche, che mostravano senza veli le violenze cui furono sottoposti moltissimi civili, si ispirano, negli anni novanta del secolo scorso, alcuni lavori dei fratelli Jake e Dinos Chapman, enfants terribles della Young British Art, che, a condanna dell’imperante ipocrisia e immoralità dei nostri tempi, riprendono le figure dello spagnolo trasformandole in smembrati manichini a grandezza naturale, atto citazionistico irriverente delle incisioni dell’artista aragonese al quale riconoscono la capacità di scioccare il pubblico. Lavori come Great deads against the dead (1994) hanno suscitato non poche polemiche per la lettura blasfema delle incisioni goyesche che hanno portato alcuni critici a parlare di “vertiginosa oscenità” intrisa di cinismo estremo che sfiora la lordura. Se la modernità ante litteram di Goya lo aveva condotto a mostrare la faccia grossolana della guerra, qui si condensa una sottospecie di grossolanità postmoderna, “immonda” come la definirebbe Jean Clair.
Certamente l’autore che più di altri sovviene quando si parla di disastri di guerra è Pablo Picasso: non solo con l’apice drammatico di Guernica (1937), cittadina basca rasa al suolo dall’aviazione nazista, brutalità pura poiché senza neppure la giustificazione di obiettivi militari, ma anche con una serie di altri lavori di denuncia. Penso a Carnaio (1945) e a La Guerra (1952). Il primo, noto anche come Ossario, condivide con Guernica motivi formali e l’assenza di colore ma è forse ancora più angosciante per l’horror vacui che rifugge da una qualsiasi struttura compositiva; la seconda, estesa in orizzontale come i murales messicani, è ricca di simbologie: la Guerra, armata di spada con una rete piena di teschi e un cesto con strani insetti, avanza su un cocchio trainato da cavalli che pestano dei libri (la cultura distrutta), mentre sul fondo compaiono nere sagome di uomini feroci armati; il tutto avanza verso un nudo guerriero sul cui scudo sono disegnate la colomba della pace e la bilancia della giustizia, collegando così il pannello al suo pendant La Pace. Ancora picassiano è Massacro in Corea (1951) realizzato pochi mesi dopo lo scoppio del conflitto nel paese asiatico, un’opera nella quale è facile individuare l’originale rilettura di alcuni capolavori della storia dell’arte, dal Giuramento degli Orazi di J. L. David alla Fucilazione. 3 maggio 1908 di Goya e all’Esecuzione di Massimiliano del Messico di Manet. Nel d’apres di Manet  l’autore contrappone l’innocenza violata di donne e bambini al plotone di fucilieri americani privi di umanità e perciò irrigiditi in forme meccaniche (sovvengono le armature di Paolo Uccello nel trittico della Battaglia di San Romano, 1435/’40). Picasso ha dichiarato “Non ho mai potuto immaginare il volto della guerra senza quello della pace”. Ci pensa Salvador Dalì a mostrarci Il volto della guerra (1940), teschio inquietante e repellente nei cui occhi e nella cui bocca si incuneano altri teschi mentre i capelli diventano serpenti simili a quelli di Medusa.
Vorrei ricordare un’opera di Carlo Levi, di cui ricorrono 120 anni dalla nascita, pittore oltre e scrittore; si tratta di Le donne morte (noto anche come Il lager presentito), 1941, immagine dolente di corpi femminili senza vita, donne denudate più che nude, gettate le une sulle altre che preannunciano certe fotografie scattate pochi anni dopo dalla newyorkese Margaret Bourke-White alla liberazione del campo di Buchenwald nel 1945. Un’altra fotografia che ha fatto storia è quella scattata da Nik Ut, vietnamita naturalizzato americano (Il terrore della guerra, 1972): Kim Pluic, una bambina vietnamita di 9 anni, fugge terrorizzata urlante e senza abiti dal suo villaggio colpito dal napalm americano diventando il simbolo di una guerra spietata.
Un’altra guerra, quella nei Balcani degli anni novanta, è il tema della performance, Balkan Baroque di Marina Abramovic (Leone d’oro alla biennale veneziana del 1997): l’artista si presenta seduta su un mucchio d’ossa animali che pulisce con una spazzola per quattro lunghi giorni mentre risuonano canti etnici e un video mostra le foto dei genitori; l’artista, “nonna” della Body Art, parla e danza in una sorta di rituale di purificazione personale e collettivo.

I disastri della guerra. Terra desolata.
L’Ucraina di questi giorni rinnova la nostra breve memoria di altri scenari bellici: lo scempio di Groznyj in Cecenia, di Aleppo in Siria, di Beirut in Libano (sconvolgente e talora elegiaca la serie dedicata alla città avvolta da un silenzio di morte da Gabriele Basilico), le martoriate città balcaniche e il genocidio di Srebrenica, poi ancora Afghanistan, Yemen, ampie parti dell’Africa e del Sudamerica (e si tratta di un elenco molto parziale). Andando indietro nel tempo, molta pittura ha documentato le distruzioni durante la seconda e della prima guerra mondiale. Una dei dipinti più inquietanti degli anni quaranta si deve al surrealista Max Ernst, L’Europa dopo la pioggia II, (1940/42), iniziato in Germania e finito negli USA dove l’artista si era rifugiato: realizzato con tecniche sperimentali (grattage, frottage, decalcomania) presenta un paesaggio catastrofico, ora sforacchiato ora fossilizzato ora spugnoso con pochi sopravvissuti che vagano tra le rovine,  un uomo con la testa d’uccello come se volesse volare oltre quel nuovo diluvio biblico, una donna pietrificata come la natura e la cultura seccate dal male,  una piccolissima Europa nei resti di un tempio tra la carcassa di un toro di chiara origine mitica. Negli anni ottanta il tedesco Anselm Kiefer affronta la memoria repressa dei tedeschi sul passato della Germania in grandi tele del 1981 ispirate alla poesia Todesfuge di Paul Celan con prospettive oblique di campi di sterpaglie incenerite con fumi e fiamme in lontananza, rese con spesse stratificazioni di colore e di materiali extra-artistici. Nessuna figura umana, solo due nomi, Margarethe, tedesca, e Sulamith, ebrea, e i loro capelli d’oro e di cenere. Kiefer assume su di sé colpe storiche e familiari (suo padre era stato ufficiale nella Wehrmacht). Ancora più esplicita è la serie del 1986 Eisen-Steig (strada ferrata) con la fuga dei binari che non può non ricordare l’ingresso di Aushwitz. la figura umana assente è incorporata nella desolazione con la quale si identifica. Le dimensioni dei lavori, a differenza della concisione dei versi di Celan, rendono gigantesche la mostruosità delle colpe e la vergogna per quanto successo.

I disastri della guerra. La propaganda.
È con la Grande Guerra che inizia la massiccia produzione di manifesti di propaganda, realizzati da artisti e grafici e ritenuti efficaci strumenti di lotta; ad essi si aggiungono cartoline, francobolli, fotografie, ora intrise di retorica ora vignettistiche. Molti manifesti celebrano il coraggio e lo spirito di sacrificio dei soldati e molti invitano chi non partecipa direttamente alle battaglie a contribuire con donazioni alla patria. Il termine Sachplakat, in tedesco poiché i primi escono a Berlino, diventa presto internazionale. In area tedesca una caratteristica diffusa è l’uso di un lettering di gusto gotico per sottolineare l’identità nazionale; d’altronde i caratteri gotici erano già stati una caratteristica dei pittori della Brücke, il movimento espressionista nato a Dresda nel 1906, i quali volevano con ogni mezzo distinguersi dalla dominante arte francese. Caratteristiche specifiche presentano i manifesti russi per ragioni storiche. L’impero zarista entra in guerra fin dal 1914 ma, dopo il fallimento del tentativo rivoluzionario del 1905 conclusosi con la “domenica di sangue” a San Pietroburgo, i rivoluzionari bolscevichi prendono il potere nel 1917 e la Russia esce dalla guerra. Opere d’arte di stampo realistico ricordano sia gli eventi del 1906 (Ivan Vladimirov, La Domenica di sangue al Palazzo d’Inverno, 1905) sia la Rivoluzione di ottobre del 1917 (Boris Kustodiev, Il Bolscevico, 1920), ma l’arte russa aveva già fatto la sua rivoluzione con le avanguardie fin dal primo decennio del nuovo secolo: dal Raggismo di Larionov e Goncharova al Suprematismo di Malevič e il Costruttivismo di Tatlin. Uno dei manifesti più noti è Batti i bianchi col cuneo rosso, 1920, di El Lissitzky, di stile suprematista, astratto ma non per questo meno impattante nel contenuto politico. Le avanguardie, concentrate in meno di una ventina d’anni e supportate dallo Stato, muoiono con Lenin (1924) e l’arte sovietica elaborerà il proprio “ritorno all’ordine” con l’avvento di Stalin. In Italia è la pittura futurista ad assumere una funzione propagandistica a sostegno dell’interventismo, come dimostrano opere del torinese Giacomo Balla Forme grido viva l’Italia (1915) collage di carte colorate e La guerra (1916), astratta e fortemente dinamica. Manifestazione interventista (il cui titolo iniziale era Festa patriottica) di Carlo Carrà è quasi un esercizio parolibero per le scritte che accompagnano l’esplosione centrifuga delle forme. Peraltro proprio alcuni futuristi furono volontari nel Battaglione Lombardo Ciclisti detto anche “plotone degli artisti” che operava nelle Alpi trentine. C’erano quasi tutti (Marinetti, Boccioni, Carrà, Balla) oltre ad Anselmo Bucci, autore di una serie di lavori a puntasecca, cronaca figurata del 1917 (La partenza).

I disastri della guerra. Il “dopo”.
La Neue Sachlichkeit, corrente tedesca degli anni tra le due guerre mondiali, ci ricorda che cosa è stato il dopoguerra germanico. Otto Dix, noto per il Trittico della guerra (1928) dalla forma tipica dei quadri sacri del passato (tre pannelli incernierati e predella) è un mortifero ammasso di rovine e corpi marcescenti nelle trincee calato in un’atmosfera apocalittica (nulla può ormai può essere sacro), ci ha lasciato appunti figurati realizzati al ritorno in patria dopo aver servito nell’esercito tedesco su più fronti. La guerra durante un attacco di gas (1924) è quasi fumettistico non fosse per la tragicità del soggetto. Con un salto di alcuni decenni le maschere antigas tornano nell’opera Home, sweet home di Arman, artista nizzardo del Nouveau Réalisme dei primi anni sessanta: nessuna figura né pittura ma solo una macabra “accumulazione” di maschere a gas stipate in una teca che risultano umane nel contorcimento dei tubi pari ai dolori esofagei di soldati colpiti dalle esalazioni. Tornando alla Neue Sachlichkeit, molte opere ci parlano del dopoguerra tedesco pieno di reduci, mutilati e mendicanti (Dix, Il venditore di fiammiferi, 1920, George Grosz, Invalidi di guerra, 1920 e Scena in strada a Berlino, 1930, dai toni sarcastici e urticanti, Max Beckmann, La Notte,1921, un ammasso di corpi che a stento rientra nello spazio claustrofobico, da incubo notturno.
Dopo la fine della II Guerra Mondiale è la fotografia a farla da padrone, dai campi di battaglia alle devastazioni delle città, dai campi di concentramento alle lotte partigiane, dalle stragi di civili all’annientamento atomico delle due città giapponesi. L’arte interpreta in nuovi linguaggi sia la memoria delle ferite (Alberto Burri e le suture dei Sacchi, anni cinquanta) che dell’olocausto (dalla famosa Crocefissione bianca, 1938 di Marc Chagal, alla gigantesca e toccante installazione al Grand Palais del 2010 di Christian Boltanski dal titolo Personnes). Molti sono inoltre i memoriali che nascono in tutto il mondo sia in riferimento all’olocausto (ad esempio in Usa a San Francisco l’Holocaust Memorial (1984) di George Segal con i suoi tipici gessi bianchi, scabri ed anonimi chiusi entro il filo spinato, o il parallelepipedo di Rachel Whiteread del 2000 nel cuore del vecchio quartiere ebraico di Vienna, una immaginaria biblioteca marmorea  di libri posti col dorso all’interno (dunque muti come i loro autori ebrei austriaci morti nei lager citati nella base dell’opera), sia a ricordo di altre guerre come il Vietnam Veterans Memorial del 1981/82 a Washington dall’artista cino-americana Maya Lin, un lungo muro dal sapore minimalista in granito nero reso specchiante, immerso nella natura, che riporta i nomi dei caduti di  guerra.
Chiudiamo con una opera di Bansky, il misterioso street artist di Bristol che nel 2005 mette all’asta CND Soldiers (CDN sta per Campagna per il Disarmo Nucleare) per devolvere il ricavato all’ospedale pediatrico di Kiev (quello bombardato all’inizio dell’attuale invasione), opera in cui due militari trasformatisi in graffitisti dipingono in rosso il simbolo della pace su un muro (il 2005 è l’anno della prima rivoluzione arancione in Ucraina).

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